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Se la vita ha un senso...


Il prossimo incontro


Crescendo verso il senso



 

 


      5 - 8 gennaio 2012

 

Punta dritto

e mira in alto!

 


 
     
 
 

 

Aver compreso l’esigenza di dare un senso alla propria esistenza è solo l’inizio.

Il passo successivo è assumersene la responsabilità,vivendo secondo una direzione precisa, con la coscienza di avere una missione da compiere nella vita e un ideale per cui lottare.

Tutto ciò ci proietterà verso mete non ancora raggiunte ma capaci di dare senso alle scelte e alle decisioni del presente.

 

 

 
 
A che servono le ali? 
 
 

 

«Dopo che Dio ebbe creato tutti gli uccelli (che ancora non volavano perché non avevano le ali) li radunò tutti davanti a sé e, mostrando loro qualcosa di ancora sconosciuto (che erano poi le ali), disse loro: "Ognuno di voi prenda due di questi oggetti e se li metta sulle spalle. Li dovrete portare per sempre".

Gli uccelli si guardarono in faccia con aria stupita.

Lo struzzo che pensava di essere il più intelligente e il più furbo di tutti disse: "Io mi prendo i più piccoli che ci sono, così faccio poca fatica". E si prese due alucce piccole piccole.

La gallina pensò: "Mah! Non si sa mai! Meglio scegliere una via di mezzo". E prese un paio di ali né piccole né grandi.

E uno dopo l'altro gli uccelli presero le ali che ritenevano più opportune.

L'aquila pensò: "Se Dio mi ha dato questi oggetti è perché mi sono utili: infatti se mi ha creato è segno che mi vuole bene". E prese il paio di ali più grande che c'era.

Quando tutti ebbero preso le loro ali il Signore Dio disse: "Ora aprite le ali, agitatele e volate".

L'aquila con pochi colpi d'ala si trovò subito in alto, nel cielo. La gallina sbatté le sue ali, si alzò qualche metro e ricadde per terra. Lo struzzo poi, per quanto le sbattere, non si alzò per nulla e per lui, il furbo e l'intelligente, le ali divennero soltanto un peso ».

(G. Oltolina)


 

 


 

 

Il profeta

 

Quando parliamo di profeta intendiamo comunemente una persona che predice il futuro o possiede poteri occulti, cioè un indovino o un chiaroveggente. Nella Bibbia, invece, i profeti sono uomini esperti di Dio, profondamente immersi nella storia del loro tempo per leggerla con gli occhi di Dio, ed essere suoi portavoce presso il popolo eletto ed anche presso tutti gli uomini.

In Israele il profetismo si sviluppa in un preciso periodo storico, quello della monarchia (XI-V sec. a.C.), quando il popolo, ormai stabilitosi nella Terra Promessa, inizia a concedersi una vita accomodante che lo porta a prendere le distanze dal suo Dio e a presumere di potersi “fare da solo”. È proprio in questo contesto che la figura del profeta emerge in tutta la sua forza per lanciare il messaggio divino. L’inviato di Dio ammonisce e mette in guardia il popolo affinché si ravveda e ritorni a Lui, pena la triste conseguenza che, nella sua cocciutaggine, Israele non riuscirà ad evitare: l’invasione nemica e la deportazione in esilio.

Secondo l’etimologia greca, il profeta è colui che parla “pro”: a) davanti ad un’assemblea; b) prima che la cosa avvenga; c) a nome di un altro. La lingua ebraica, dal canto suo, conosce diversi termini per indicare questa categoria di persone, ma il principale è “nābî” e il suo significato ruota attorno al verbo “chiamare”, sia nella sua forma attiva che in quella passiva. Il profeta è allora un chiamato che chiama. Egli è il chiamato per eccellenza e, perciò, l’uomo della Parola, da Questa chiamato alla sua missione, e di Questa annunciatore. Un costante ritornello infatti, tipico degli scritti profetici, è: mi fu rivolta la Parola del Signore, oppure il Signore mi disse. Quest’ultima espressione, in particolare, richiama il racconto della creazione (cfr. Gen 1, 1-2,4a), laddove la Parola di Dio è risuonata in tutta la sua potenza creatrice. In ebraico, “dabàr” non significa soltanto “parola”, ma anche compimento della stessa, e perciò “azione, evento”. Nel racconto della creazione Dio dice e fa, perché quello che dice avviene: Dio disse… e così avvenne (Gen 1, 6.7ss.). Il profeta è tale perché a lui Dio ha rivolto la sua chiamata e la sua Parola e queste lo hanno reso capace di diventare quello per cui è stato appunto chiamato.

Nel libro di Ezechiele, il profeta è chiamato “ben ‘Adàm”, cioè “figlio dell’uomo, creatura umana”: Dio affida il suo messaggio alla fragilità della creatura umana, a ciascuno di noi, nonostante i limiti e le imperfezioni.

Alla vocazione profetica è sempre associata una missione. Il profeta è “pro”, “per”: svolge un compito a servizio e a beneficio degli altri ai quali è mandato da Dio. Un compito che spesso si rivela arduo, svolto in un ambiente ostile, ma non manca la promessa del Signore che assicura la sua presenza accanto al chiamato con le parole: “Non temere, io sono con te”. Un esempio per tutti: il nome Ezechiele significa “Dio è la mia forza, Dio mi rende forte”.

S. Agostino si esprime in termini molto simili: “Sembra duro e gravoso ciò che il Signore ha comandato… Ma non è affatto né duro né gravoso ciò che comanda colui che aiuta a sua volta a compiere ciò che comanda” (Disc. 96,1). Quando Dio chiama, dà quanto è necessario all’uomo per realizzare la sua missione: “Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo” (1Ts 5,24).

Il profeta è colui che si nutre della Parola di Dio, perché non può trasmetterla agli altri senza prima averla ascoltata lui stesso. In lui la Parola si fa carne, si fa vita e così egli diventa parola di Dio. La Parola lo raggiunge nella sua concretezza di vita, si incarna nella storia del profeta quale essa è, senza sconvolgimenti né trasformazioni di sorta. La parola del profeta è parola di Dio con la voce dell’uomo: “Dio parla per mezzo dell’uomo al modo umano, poiché parlando così, egli cerca noi”(s. Agostino – De Civitate Dei 17,6,2); “Io parlo, ma dico cose tue. Se parlassi per mio conto, sarei bugiardo. Ebbene, io dirò cose tue, e sarò io a dirle. Sono, queste, due cose ben distinte: una è tua, l’altra è mia: la verità è tua, la bocca è mia” (s. Agostino . Sul salmo 88,I,2). Ogni profeta parla con la propria umanità, col bagaglio della propria storia personale, col proprio carattere…

Inoltre il profeta sperimenta sulla propria pelle ciò che è chiamato ad annunciare; in questo senso la Parola di Dio si fa carne in lui e lo coinvolge totalmente: egli vive di persona ciò che è chiamato ad annunciare agli altri.

Un’immagine caratteristica del profeta è quella della sentinella: “Sentinella, a che punto è la notte?” (Is 21,11). La risposta è enigmatica e forse anche deludente: “Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate, convertitevi, venite!” (Is 21,12). Forse il profeta non sa, neppure oggi, indicare quando verrà il mattino, ma ne attesta la sicura venuta: il profeta apre il futuro, dà futuro all’oggi, suscita speranza. E chiede che, nel frattempo, si continui a domandare, a interrogare e a interrogarsi sul giorno e sulla notte, dunque sul senso del tempo, della storia e della vita, perché questa attività di riflessione e interrogazione non è estranea al movimento della conversione, del ritorno a Dio.

I profeti non si rassegnano alla perdizione del popolo, ma fanno di tutto pur di giungere allo scopo: che la gente torni a porre e a porsi delle domande.

I profeti sono educatori del popolo di Dio, araldi della verità. Scuotono le coscienze, mirano al cuore dell’uomo, lo spingono a decisioni, che egli può e deve prendere unicamente da solo. Questa è la forza esercitata dalle profezie sulle coscienze, lasciandole libere.

Parafrasiamo, riferendolo ai profeti, ciò che Marcel Proust ha scritto riguardo agli scrittori di valore: “Sentiamo bene che la nostra sapienza comincia là dove termina quella dell’autore [profeta] e vorremmo che egli ci desse delle risposte, quando tutto quello che egli può fare, in realtà è di darci dei desideri. E questi desideri non può risvegliarli in noi, che facendoci contemplare la bellezza suprema [Dio]. Ma per una legge singolare e d’altro canto provvidenziale dell’ottica dello spirito, legge che forse significa che non possiamo ricevere la verità da alcuno e che dobbiamo crearla noi stessi [la verità/senso della vita non la riceviamo, ma la creiamo/troviamo/riconosciamo dentro noi stessi, dopo averne ricevuto il desiderio], quello che è il termine della loro sapienza non ci appartiene che come l’inizio della nostra”.

La profezia è anti-idolatrica. L’idolo (spettro, fantasma, vana apparenza) è un inganno, perché distoglie chi lo serve dalla realtà, per confinarlo nel regno dell’apparenza. Ne segue che per scoprire il senso della vita, non si possono “inseguire i fantasmi”, perché esso è qualcosa di concreto, è ciò per cui siamo al mondo e ci dà consistenza e ci fa essere profondamente noi stessi (è la verità di noi e non un’apparenza). Dobbiamo abbandonare ciò che ci porta lontano, che ci depista, che ci fa essere vuoti e insignificanti.

Infine, prendendo spunto dalla simbologia di questo nostro incontro: “… Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive, sono scoccati lontano. L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero infinito, e con la forza vi tende, affinché le sue frecce vadano rapide e lontane. In gioia siate tesi nelle mani dell’Arciere; poiché come ama il volo della freccia, così l’immobilità dell’arco” (Gibran, Il Profeta).

Il profeta è l’arciere che punta verso il sole e va oltre il mistero, ma è anche l’arco nelle meni di Dio e aiuta a non “mancare il bersaglio” [nel linguaggio biblico questo è sinonimo di peccato e dunque di vita infelice]. Fare centro è scoprire e aderire al senso della propria vita.

 

 

 

 

 
 


 
 
 
Come l'arciere del  Sole
 
 

 

Io sono l’Arciere del Sole

ed a disposizione avessi una sola freccia.

Per questo è importante che io scelga bene il bersaglio, “punti dritto e miri in alto”.

Il bersaglio mi attrae, mi affascina e mi spaventa insieme, ma è solo il suo Mistero che può illuminare la traiettoria alla mia freccia.

Per scoccarla, però, dovrò entrare nell’arco divenendo con lui un tutt’uno.

Il Sole, infatti, non accetta d’illuminare il meno, il particolare, ma tutto abbraccia.

Solo mirando in Lui la mia freccia diviene quasi

un raggio di sole.

 

 

 
     
 

 

Il signore

è mia luce e mia salvezza

 

E se quella luce mi accecasse?

Se poi, oltre a ferire gli occhi,

folgorasse anche il cuore

e fossi costretto a soffrire?

 

Meglio non fidarsi…

 

Meglio far finta di non sapere

meglio far finta d’essere impegnati

meglio far finta di vivere da cristiani

che assumersi la responsabilità di esserlo.

Meglio le catene dell’orgoglio

meglio la sicurezza delle abitudini.

 

Oppure

potremmo vivere da imboscati

e giocarci la vita

in una triste partita a scacchi

senza vincitori né vinti.

Potremmo affidarci alla fortuna

scommettendo finché si può

con la speranza di vincere

prima o poi

qualche brandello di vita…

Ma meglio non rischiare

e lasciarsi vivere.

 

Così come la notte

che sorniona si lascia abitare dalle stelle

giocando a fare l’ignara,

quasi che l’alba

avesse bisogno del suo consenso

per accendere il sole.

 

 

(A. R. Mazzocco, Il Cantico di Tommaso)

 

 

 
     
     
 


 
 
   


   
   

Eccomi!

 

Sono qui di nuovo per raccontarvi la seconda tappa del progetto “Alla ricerca di un senso per la vita”(abbreviato SPV). Dal 5 all’8 gennaio si è infatti tenuto l’incontro “Punta dritto e mira in alto”, rivolto a noi giovani dai 18 ai 35 anni.

 

Io e le altre persone che avevamo già vissuto il primo eravamo impazienti di ritornare a Urbino! Ed è stato bellissimo ritrovarsi e poter accogliere nuovi partecipanti; eravamo un gruppo di 15 ragazzi di tutta Italia, dalla punta settentrionale di Vicenza all’estremità meridionale di Salerno. Per farci relazionare subito, siamo stati divisi in due squadre e sguinzagliati per il centro della ventosa Urbino a cavallo di scope, sfidandoci a “ruba-la-calza” e altri giochi, facendoci di sicuro notare dai passanti. Dopo cena, abbiamo giocato e due simpatiche befane ci hanno riempito di doni.

 

Il giorno dopo è iniziato il vero lavoro, costituito da sessioni tenute da Rita sui valori, sui bisogni, sugli atteggiamenti e sulle decisioni: contenuti tosti, finalizzati a conoscerci meglio. Abbiamo anche incontrato i nostri compagni d’avventura: l’arciere e il profeta.

 

La sera si è tenuta la veglia in cappellina: scandita dalla storia di un ragazzo in cerca di un tesoro, ricca di segni anche esteriori, come il piccolo cuore con una stilla rossa donatoci, simbolo del sacrificare la propria vita per ritrovarla.

 

Il terzo giorno ci è stata donata una freccia, una sola, la nostra vita: dovremo puntarla verso il Sole e scagliarla e la ammireremo mentre si confonde coi raggi solari. È una promessa e una sfida per noi giovani, che in quei giorni abbiamo avuto la grazia di essere accompagnati da persone le quali davvero hanno fatto centro. Io ho ricevuto tanto, ho visto l’azione concreta dello Spirito Santo e, personalmente, questo incontro mi ha aiutato a raddrizzare il tiro della mia freccia.

Ma devo ancora migliorarlo, e confido che il prossimo appuntamento (previsto per il ponte del primo maggio) e il camposcuola conclusivo mi saranno utili!

 

Così, tra le risate, l’impegno, le schermaglie tra membri di Ac e di Agesci, i giochi e la preghiera, anche il secondo incontro è scorso velocemente e io sono impaziente che arrivi la primavera per ritornare.

 

Invito vivamente chiunque sia incuriosito e interessato a partecipare al prossimo incontro, ultima possibilità di inserirsi nel percorso! Perché né la distanza, né gli impegni, né la titubanza devono indurvi a rinunciare, perché il Signore si serve di queste piccole cose per costruire una vita intera.

 

Tanti ringraziamenti ovviamente a Giovanni e Maria per il sostentamento materiale, a Ornella e a Rita; e ancora grazie alle monache, che nonostante tutti gli incidenti di percorso hanno curato benissimo l’incontro, ci hanno infuso un po’ della loro gioia e ci hanno fatti sentire liberi di essere noi stessi! Grazie infine a chi ha condiviso con me quei giorni e con cui spero di condividerne altri ancora!

 

 

 


   
 
 


 

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