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Al
vincitore darò la manna nascosta
e
una
pietruzza bianca,
sulla
quale sta scritto un nome nuovo,
che
nessuno conosce all'infuori di chi lo riceve.
(Ap 2,17)
Qual è il mio vero nome?
Io
mi ritrovo sprovvisto di quel sassolino e relativo nome
inciso sopra.
Non
è che non l'abbia ricevuto. Banalmente, l'ho smarrito e non
so più dove sia andato a finire. Ho dimenticato il nome che
Tu, Padre, mi avevi assegnato. Il nome che porto, e che
esibisco a chi mi richiede i documenti, è un nome d'accatto,
un falso nome. Quando qualcuno mi chiama, ho l'impressione
ci sia uno scambio di persone, si tratti di un altro. Reco
il nome della mia controfigura, quello che mi dà accesso nel
mondo dell'insignificanza, mi fa accettare nel teatro e nel
circo, mi impone una parte nella recita delle apparenze. Al
posto dell'immagine autentica, la caricatura. E quindi, al
posto del nome vero, non un falso nome, ma qualcosa di
peggio: un nome vuoto.
Padre,
lo confesso. Ho smarrito, lungo la strada, l'inquietante
pietra bianca. E con quella la misura della mia grandezza,
la cifra della mia statura, la bussola del cammino. Non so
più chi sono, e mi adeguo a personaggi artificiali che
costruisco, di volta in volta, in apporto alla mia pigrizia,
ai miei tradimenti, agli interessi del momento, ai
condizionamenti altrui. Ho perso la memoria del nome. E non
mi ritrovo più, non so quello che dovrei essere, ciò
che dovrei fare, da dove vengo e qual è la meta. Vagabondo
da tutte le parti, mi affanno, mi esibisco, pretendo impormi
all'attenzione. Ma io sono chissà dove. Non ho più notizie
di me.
Balduccio, buffone del Duca
Io vado cantando l’uomo
menestrello dei menestrelli
buffone di corte e allegrone di strada
vado dicendo di lui
di tutto e qualcosa di più;
disegno il riso sulla faccia della gente,
poi spengo la luce perché in fondo
non me ne importa niente.
Vivo di nostalgia, ma sono solo una
bugia.
Vado di notte per le strade accaldate
mentre respiro l’aria di festa
intrisa di noia e di chi molesta.
Sono Balduccio, buffone del Duca.
Amo le donne e l’avventura
piango la fame e rido d’ogni sventura
di tutto m’importa non poco
e d’ogni cosa mi prendo gioco.
Mi faccio beffa d’ogni certezza
e vivo alla grande senza ricchezza.
Sono soltanto il buffone di corte
ma so chi di notte bussa alle porte…
Amo Urbino, le donne e il vino
calpesto le sue strade come un truffaldino,
me ne rido di questa città con i suoi lussi e vanità
ma poi so provarne anche pietà.
Amo il povero che soffre la truffa
amo anche il mio Duca che mi sfrutta.
Ma quando scende la sera
ed ogni specchio reclama l’immagine vera
c’è solo una donna a cui vale la pena
dedicar l’ultima canzone:
è la Madre di Dio
e di Balduccio, il buffone.
(A. R. Mazzocco, Fatti
e non favole)
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La
Bibbia
è il racconto di una storia che ha per protagonisti Dio e
Israele. È il racconto della storia di un popolo, del suo
esserci nel mondo per volere di Dio. La Bibbia è il racconto
di una fede… una fede raccontata che, proprio per
questo, diventa eterna ed immortale.
È significativo il fatto che la Bibbia inizi proprio
con “C’era una volta…” (= “In principio” – Gen 1,1) e
termini con “Fine” (= “Amen” – Ap 22,21), che però non
significa “finito – concluso – chiuso”, ma “compiuto”, cioè
una storia portata a compimento. In mezzo c’è tutto il
racconto della storia d’Israele e della prima comunità di
cristiani. La Bibbia è davvero un racconto: per diversi
secoli, infatti, la storia del popolo è stata tramandata
oralmente di padre in figlio, di generazione in generazione.
Soltanto molto tardi questi racconti sono stati via via
raccolti e messi per iscritto.
Raccontando, Israele ha fatto una rilettura
della sua storia alla luce della fede in JHWH e ha
raccontato la sua esperienza di Dio: Dt 26,5-9; Gs 24,1-13.
Leggiamo, a questo proposito, alcuni versetti del salmo 77
(3-7): Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri
padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto
ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le
azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che
egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in
Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato
ai nostri padri di far conoscere ai loro figli,
perché la conosca la generazione futura, i figli che
nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro
figli, perché ripongano in Dio la loro fiducia
e non dimentichino le opere di Dio, ma
custodiscano i suoi comandi.
Ci sono alcuni significativi verbi-chiave:
raccontare, far conoscere, riporre fiducia, non dimenticare.
Israele racconta per far conoscere (le
opere di Dio) perché si riponga fiducia in Dio e
non ci si dimentichi in eterno. Ciò che è raccontato
sopravvive alla morte della dimenticanza, perché la
narrazione, il racconto, rende attuale l’evento, lo celebra,
lo vive nel presente. Durante la cena pasquale, il più
giovane della famiglia chiede al più anziano il significato
di quello che stanno facendo e questi risponde raccontando
la storia dell’esodo dall’Egitto grazie alla mano potente
del Signore (cfr. Es 12,26-27; 13,8; Dt 6,20-25). Raccontare
significa far irrompere il passato nel presente, permettendo
a Dio di offrire di nuovo al suo popolo la salvezza (=
memoriale). Israele racconta ciò che Dio fa con la creatura
che ha scelto, racconta lo stile di Dio nei riguardi
dell’uomo. Il racconto, allora, rafforza la fede e la fede
genera il racconto. Dice Cencini: Israele credeva ricordando
e ricordava credendo. Ma si può anche rendere così: Israele
credeva raccontando e raccontava credendo.
Il
racconto è testimonianza di fede.
Israele racconta perché ricorda, cioè
custodisce nel cuore gli eventi della sua storia e, con il
racconto, la rende viva, attuale, presente, eterna. Infatti,
quando si racconta, si “nomina” quello che succede o è
successo e così prende vita, perché “nominare”, “dare un
nome” significa fare esistere, portare all’esistenza. Il
racconto ci permette di cogliere l’essenziale, ciò che è
importante e significativo. Ci fa scavare dentro l’evento
per coglierne il senso profondo, le tracce di Dio. Ci fa
interpretare l’evento alla luce della fede. Il racconto non
è puro elenco di fatti, ma è memoria di eventi, ricerca e
scoperta dell’intervento di Dio a favore del popolo. Il
racconto dei padri ai figli è segno di grande intimità,
significa condividere (= dividere con), far diventare
com-partecipe, comunicare: io e tu siamo uniti da una stessa
storia e tu oggi la vivi sulla tua pelle, la fai tua, ci sei
immerso dentro, non è qualcosa che ti scorre addosso e
scivola via, ma ti tocca e ti segna nel profondo. Il
racconto sfocia in preghiera, contemplazione, adorazione,
confessio laudis: da qui i salmi storici (67, 77, 104,
105, 113, 134, 135) che altro non sono se non preghiere,
meglio, poesia che racconta una storia che salva. Il salmo
135 è un bellissimo esempio: per ben 26 volte (è il numero
del nome-essenza di Dio!) Israele celebra-racconta-ricorda
l’eterna misericordia (= amore, fedeltà) di Dio
verso il suo popolo. Il racconto permette di
vivere-declinare nel tempo-rendere presente l’eterna
misericordia di Dio. Il raccontare implica che c’è un
passato che attende di essere pienamente vissuto. Ed è
vissuto solo quando è caricato di senso e raccontato. “Ogni
volta che raccontiamo un episodio noi costruiamo il nostro
passato”. Un passato che… non è del tutto passato, ma che è
tutt’ora presente, influendo sulla nostra vita. Nel nostro
passato ci sono “zone oscure” che chiedono di essere
illuminate, che attendono di essere riscoperte come luogo di
una presenza particolare di Dio… attraverso il racconto. Ma
anche il presente acquista senso e valore alla luce del
passato che, se raccontato, dà vita al presente.
Dice Cencini: “il presente è il tempo della crescita,
ma assume un significato cristiano solo quando si richiama
ad un passato di grazia e si mantiene aperto ad un avvenire
di promessa”.
In ultimo, ma non ultimo, Giovanni, nel Prologo al
suo vangelo, ci dice che Gesù è la Parola, è il “racconto”
di Dio. Se Israele e il cristiano, nella Bibbia, raccontano
Dio, in Gesù invece è Dio stesso che si racconta all’uomo.
Gesù è il “Vangelo” (= buona notizia, racconto) di Dio.
Quello
che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello
che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che
contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo
della vita… noi lo annunciamo anche a voi,
perché anche voi siate in comunione con noi. e la nostra
comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo
(1Gv 1,1.3).
BIBLIOGRAFIA:
-
A. Cencini “La vita come storia, la fede come memoria”
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Colma di nostalgia...
“Alla
ricerca di un senso per la vita (SPV)” è un progetto ideato
e realizzato
dalle monache agostiniane di Urbino con l'educatrice Rita
Mazzocco; io ne sono venuta a conoscenza grazie a loro.
Inizialmente non ero
molto
fiduciosa del progetto in sé, poiché credevo non portasse a
nulla e non vedevo il lato spirituale
che invece il progetto ha, però appena sono arrivata
e ho visto anche
gli altri, mi è sembrato che tutto andasse per il verso
giusto, come le tessere di un puzzle, come se avesse senso
che io fossi lì,come se fosse già stato scritto; quando si
ascoltava, quando si parlava, quando ci si guardava, Dio
sembrava essere lì, forse era l'atmosfera che mi metteva a
mio agio o l'aver visto persone che come me erano alla
ricerca di qualcosa di significativo.
L'incontro
è durato 4 giorni in cui si è discusso della stima di
sé; le giornate erano concentrate in sessioni, giochi e
momenti di preghiera, ma anche di svago dove si imparava a
conoscersi tra noi: un tempo durante il quale si parla, ci
si confronta, si impara a conoscere se stessi e ad avere
rispetto dei sentimenti altrui. Uno dei momento più toccanti
è avvenuto la seconda sera, quando c'è stata la veglia; chi
aveva già partecipato più volte sapeva che era un’esperienza
unica, ma per chi come me non lo sapeva è stata una magia,
un momento di pace, di serenità, una sensazione che credevo
non avrei mai potuto provare. Dio era lì con noi e tutti
sembravano accorgersene.
I
giochi erano inerenti a ciò di cui si parlava durante il
giorno, ci si divertiva e nasceva quella
sana ed allegra competizione di cui a volte ci si
dimentica, mentre c'erano anche momenti semi-seri
in cui si improvvisavano recite. Una delle cose più belle
dell'SPV è stato fare auto-ironia, il non prendersi sul
serio, il che per persone come me è difficile; fare amicizia
velocemente senza pregiudizi, con gente pronta a venirti
incontro. I giorni scorrevano in fretta ma al contempo molto
lenti, perché a volte si crede sia impossibile affezionarsi
così in fretta a coloro che con me hanno condiviso il
percorso, ai luoghi ma anche a quelle sessioni che
dimostravano quanto si può sbagliare quando diamo per
scontati certi temi che invece, lì, venivano affrontati e
risolti. Un'altra cosa che ho imparato in quei giorni è la
condivisione, il percorrere insieme un pezzo di quella
strada che è la vita.
Aver
partecipato all'SPV ti lascia una nostalgia dentro
perché vuoi ritornarci o vuoi che non finisca mai, ma anche
ti riempie l'anima di amore per te, per gli altri e per
Dio; è un cammino di crescita interiore che ti cambia, e non
è una carineria, dal momento che ti lascia dentro quella
sensazione di stupore e meraviglia. Alla fine dell'incontro
ti accorgi che quegli insegnamenti ti lasciano un'impronta
dentro.
Aver
partecipato all'SPV è stato come sapere di ricevere
un regalo
senza conoscere le dimensioni
del pacco
o il
contenuto; è stato come cercare
di vivere un'esperienza che non solo ti segna
positivamente ma ti lascia anche la nostalgia di tornare e
di continuare.
Ringrazio
chi ha messo se stesso per rendere così speciale questa
esperienza ed ha tirato fuori il meglio ed il peggio che è
dentro ognuno di noi, per renderci consapevoli di chi siamo,
di quello
che vogliamo,di come lo vogliamo. Sembra di aver fatto
un passo avanti verso la vita... in compagnia.
Non vedo l'ora che arrivi il prossimo incontro!
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