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Se la vita ha un senso...


Il prossimo incontro


Crescendo verso il senso



 

 


          31 ottobre - 3 novembre 2013

 

Andiamo a

Dalmanutha?

 


 
 
     
 
 

 

Alla ricerca di...        Dalmanutha

Ci sono biblisti che spendono una vita intera per studiare la Bibbia,

ma fino ad oggi, nonostante le varie supposizioni,

non sono riusciti a trovare Dalmanutha.

A me non dispiace affatto, anzi.

Così quel luogo mi rimane affascinante, mi sa di Mistero.

È come dire:

“Saliamo sulla barca insieme a Gesù e andiamo verso un luogo misterioso”.

 

 
 

I nostri "amici di viaggio"
 
 


Il viandante

Io sono il viandante, e lo scopo ultimo del mio viaggiare è il viaggio stesso. Non sono però un vagabondo, non viaggio mai senza mete solo che quelle che mi prefiggo sono a corto raggio. Passo infatti di luogo in luogo e di esperienza in esperienza, avanzando di sapere in sapere ma senza avere mai un punto di riferimento stabile, che mi permetta di avere una direzione significativa.

 


 

Il turista

Io sono il turista e del viaggio amo lo stare bene con me stesso, con l’ambiente e con gli altri. Le mete per me non sono importanti. Mi considero infatti un cercatore di bellezza, ovunque essa sia; per questo la mia principale fatica è avere sempre occhi nuovi in grado di scovarla e di riconoscerla in qualunque luogo.

 


 

Il viaggiatore

Io sono il viaggiatore ed è la meta l’unica cosa che cerco. Essa è il grande desiderio che mi spinge ad andare avanti. Da lei nasce il senso e la direzione del mio viaggiare, permettendomi di  non sentire neppure la fatica dell’andare.

Verso la meta desiderata cammino con tutta la mia storia, non dimenticando nessun evento della vita ma raccogliendolo e custodendolo gelosamente come inestimabile gioiello in una scatola preziosa.


 


 

 

 


 

 

Balduccio...qual son io
 
 

 

 


Al vincitore darò la manna nascosta

e una pietruzza bianca,

sulla quale sta scritto un nome nuovo,

che nessuno conosce all'infuori di chi lo riceve.

(Ap 2,17)

 


 

 

Qual è il mio vero nome?

 

Io mi ritrovo sprovvisto di quel sassolino e relativo nome inciso sopra.

Non è che non l'abbia ricevuto. Banalmente, l'ho smarrito e non so più dove sia andato a finire. Ho dimenticato il nome che Tu, Padre, mi avevi assegnato. Il nome che porto, e che esibisco a chi mi richiede i documenti, è un nome d'accatto, un falso nome. Quando qualcuno mi chiama, ho l'impressione ci sia uno scambio di persone, si tratti di un altro. Reco il nome della mia controfigura, quello che mi dà accesso nel mondo dell'insignificanza, mi fa accettare nel teatro e nel circo, mi impone una parte nella recita delle apparenze. Al posto dell'immagine autentica, la caricatura. E quindi, al posto del nome vero, non un falso nome, ma qualcosa di peggio: un nome vuoto.

Padre, lo confesso. Ho smarrito, lungo la strada, l'inquietante pietra bianca. E con quella la misura della mia grandezza, la cifra della mia statura, la bussola del cammino. Non so più chi sono, e mi adeguo a personaggi artificiali che costruisco, di volta in volta, in apporto alla mia pigrizia, ai miei tradimenti, agli interessi del momento, ai condizionamenti altrui. Ho perso la memoria del nome. E non mi ritrovo più,  non so quello che dovrei essere, ciò che dovrei fare, da dove vengo e qual è la meta. Vagabondo da tutte le parti, mi affanno, mi esibisco, pretendo impormi all'attenzione. Ma io sono chissà dove. Non ho più notizie di me.

 

Balduccio, buffone del Duca

 

Io vado cantando l’uomo

menestrello dei menestrelli

buffone di corte e allegrone di strada

vado dicendo di lui

di tutto e qualcosa di più;

disegno il riso sulla faccia della gente,

poi spengo la luce perché in fondo

non me ne importa niente.

Vivo di nostalgia, ma sono solo una bugia.            

Vado di notte per le strade accaldate

mentre respiro l’aria di festa

intrisa di noia e di chi molesta.

Sono Balduccio, buffone del Duca.

 

Amo le donne e l’avventura

piango la fame e rido d’ogni sventura

di tutto m’importa non poco

e d’ogni cosa mi prendo gioco.

Mi faccio beffa d’ogni certezza

e vivo alla grande senza ricchezza.

Sono soltanto il buffone di corte

ma so chi di notte bussa alle porte…

 

Amo Urbino, le donne e il vino

calpesto le sue strade come un truffaldino,

me ne rido di questa città con i suoi lussi e vanità

ma poi so provarne anche pietà.

Amo il povero che soffre la truffa

amo anche il mio Duca che mi sfrutta.

Ma quando scende la sera

ed ogni specchio reclama l’immagine vera

c’è solo una donna a cui vale la pena

dedicar l’ultima canzone:

è la Madre di Dio

e di Balduccio, il buffone.

 

(A. R. Mazzocco, Fatti e non favole)

 

 
   

 

 
 


 
 
Israele... racconta
 

 

La Bibbia è il racconto di una storia che ha per protagonisti Dio e Israele. È il racconto della storia di un popolo, del suo esserci nel mondo per volere di Dio. La Bibbia è il racconto di una fede… una fede raccontata che, proprio per questo, diventa eterna ed immortale.

È significativo il fatto che la Bibbia inizi proprio con “C’era una volta…” (= “In principio” – Gen 1,1) e termini con “Fine” (= “Amen” – Ap 22,21), che però non significa “finito – concluso – chiuso”, ma “compiuto”, cioè una storia portata a compimento. In mezzo c’è tutto il racconto della storia d’Israele e della prima comunità di cristiani. La Bibbia è davvero un racconto: per diversi secoli, infatti, la storia del popolo è stata tramandata oralmente di padre in figlio, di generazione in generazione. Soltanto molto tardi questi racconti sono stati via via raccolti e messi per iscritto.

 Raccontando, Israele ha fatto una rilettura della sua storia alla luce della fede in JHWH e ha raccontato la sua esperienza di Dio: Dt 26,5-9; Gs 24,1-13. Leggiamo, a questo proposito, alcuni versetti del salmo 77 (3-7): Ciò che abbiamo udito e conosciuto e i nostri padri ci hanno raccontato non lo terremo nascosto ai nostri figli, raccontando alla generazione futura le azioni gloriose e potenti del Signore e le meraviglie che egli ha compiuto. Ha stabilito un insegnamento in Giacobbe, ha posto una legge in Israele, che ha comandato ai nostri padri di far conoscere ai loro figli, perché la conosca la generazione futura, i figli che nasceranno. Essi poi si alzeranno a raccontarlo ai loro figli, perché ripongano in Dio la loro fiducia e non dimentichino le opere di Dio, ma custodiscano i suoi comandi.

Ci sono alcuni significativi verbi-chiave: raccontare, far conoscere, riporre fiducia, non dimenticare. Israele racconta per far conoscere (le opere di Dio) perché si riponga fiducia in Dio e non ci si dimentichi in eterno. Ciò che è raccontato sopravvive alla morte della dimenticanza, perché la narrazione, il racconto, rende attuale l’evento, lo celebra, lo vive nel presente. Durante la cena pasquale, il più giovane della famiglia chiede al più anziano il significato di quello che stanno facendo e questi risponde raccontando la storia dell’esodo dall’Egitto grazie alla mano potente del Signore (cfr. Es 12,26-27; 13,8; Dt 6,20-25). Raccontare significa far irrompere il passato nel presente, permettendo a Dio di offrire di nuovo al suo popolo la salvezza (= memoriale). Israele racconta ciò che Dio fa con la creatura che ha scelto, racconta lo stile di Dio nei riguardi dell’uomo. Il racconto, allora, rafforza la fede e la fede genera il racconto. Dice Cencini: Israele credeva ricordando e ricordava credendo. Ma si può anche rendere così: Israele credeva raccontando e raccontava credendo.

Il racconto è testimonianza di fede.

Israele racconta perché ricorda, cioè custodisce nel cuore gli eventi della sua storia e, con il racconto, la rende viva, attuale, presente, eterna. Infatti, quando si racconta, si “nomina” quello che succede o è successo e così prende vita, perché “nominare”, “dare un nome” significa fare esistere, portare all’esistenza. Il racconto ci permette di cogliere l’essenziale, ciò che è importante e significativo. Ci fa scavare dentro l’evento per coglierne il senso profondo, le tracce di Dio. Ci fa interpretare l’evento alla luce della fede. Il racconto non è puro elenco di fatti, ma è memoria di eventi, ricerca e scoperta dell’intervento di Dio a favore del popolo. Il racconto dei padri ai figli è segno di grande intimità, significa condividere (= dividere con), far diventare com-partecipe, comunicare: io e tu siamo uniti da una stessa storia e tu oggi la vivi sulla tua pelle, la fai tua, ci sei immerso dentro, non è qualcosa che ti scorre addosso e scivola via, ma ti tocca e ti segna nel profondo. Il racconto sfocia in preghiera, contemplazione, adorazione, confessio laudis: da qui i salmi storici (67, 77, 104, 105, 113, 134, 135) che altro non sono se non preghiere, meglio, poesia che racconta una storia che salva. Il salmo 135 è un bellissimo esempio: per ben 26 volte (è il numero del nome-essenza di Dio!) Israele celebra-racconta-ricorda l’eterna misericordia (= amore, fedeltà) di Dio verso il suo popolo. Il racconto permette di vivere-declinare nel tempo-rendere presente l’eterna misericordia di Dio. Il raccontare implica che c’è un passato che attende di essere pienamente vissuto. Ed è vissuto solo quando è caricato di senso e raccontato. “Ogni volta che raccontiamo un episodio noi costruiamo il nostro passato”. Un passato che… non è del tutto passato, ma che è tutt’ora presente, influendo sulla nostra vita. Nel nostro passato ci sono “zone oscure” che chiedono di essere illuminate, che attendono di essere riscoperte come luogo di una presenza particolare di Dio… attraverso il racconto. Ma anche il presente acquista senso e valore alla luce del passato che, se raccontato, dà vita al presente.

Dice Cencini: “il presente è il tempo della crescita, ma assume un significato cristiano solo quando si richiama ad un passato di grazia e si mantiene aperto ad un avvenire di promessa”.

In ultimo, ma non ultimo, Giovanni, nel Prologo al suo vangelo, ci dice che Gesù è la Parola, è il “racconto” di Dio. Se Israele e il cristiano, nella Bibbia, raccontano Dio, in Gesù invece è Dio stesso che si racconta all’uomo. Gesù è il “Vangelo” (= buona notizia, racconto) di Dio.

Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita… noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo (1Gv 1,1.3).  

 

BIBLIOGRAFIA:

- A. Cencini “La vita come storia, la fede come memoria”

 

 
     
     
 


 
 
       
         
   

 Colma di nostalgia...

 

 

“Alla ricerca di un senso per la vita (SPV)” è un progetto ideato e realizzato dalle monache agostiniane di Urbino con l'educatrice Rita Mazzocco; io ne sono venuta a conoscenza grazie a loro. Inizialmente non ero molto fiduciosa del progetto in sé, poiché credevo non portasse a nulla  e non vedevo il lato spirituale che invece il progetto ha, però appena sono arrivata e ho visto anche gli altri, mi è sembrato che tutto andasse per il verso giusto, come le tessere di un puzzle, come se avesse senso che io fossi lì,come se fosse già stato scritto; quando si ascoltava, quando si parlava, quando ci si guardava, Dio sembrava essere lì, forse era l'atmosfera che mi metteva a mio agio o l'aver visto persone che come me erano alla ricerca di qualcosa di significativo.

L'incontro è durato 4 giorni in cui si è discusso della  stima di sé; le giornate erano concentrate in sessioni, giochi e momenti di preghiera, ma anche di svago dove si imparava a conoscersi tra noi: un tempo durante il quale si parla, ci si confronta, si impara a conoscere se stessi e ad avere rispetto dei sentimenti altrui. Uno dei momento più toccanti è avvenuto la seconda sera, quando c'è stata la veglia; chi aveva già partecipato più volte sapeva che era un’esperienza unica, ma per chi come me non lo sapeva è stata una magia, un momento di pace, di serenità, una sensazione che credevo non avrei mai potuto provare. Dio era lì con noi e tutti sembravano accorgersene.

I giochi erano inerenti a ciò di cui si parlava durante il giorno, ci si  divertiva e nasceva quella sana ed allegra competizione di cui a volte ci si  dimentica, mentre c'erano anche momenti semi-seri in cui si improvvisavano recite. Una delle cose più belle dell'SPV è stato fare auto-ironia, il non prendersi sul serio, il che per persone come me è difficile; fare amicizia velocemente senza pregiudizi, con gente pronta a venirti incontro. I giorni scorrevano in fretta ma al contempo molto lenti, perché a volte si crede sia impossibile affezionarsi così in fretta a coloro che con me hanno condiviso il percorso, ai luoghi ma anche a quelle sessioni che dimostravano quanto si può sbagliare quando diamo per scontati certi temi che invece, lì, venivano affrontati e risolti. Un'altra cosa che ho imparato in quei giorni è la condivisione, il percorrere insieme un pezzo di quella strada che è la vita.

 

Aver partecipato all'SPV ti lascia una nostalgia dentro perché vuoi ritornarci o vuoi che non finisca mai, ma anche ti riempie l'anima di amore per te, per gli altri e per Dio; è un cammino di crescita interiore che ti cambia, e non è una carineria, dal momento che ti lascia dentro quella sensazione di stupore e meraviglia. Alla fine dell'incontro ti accorgi che quegli insegnamenti ti lasciano un'impronta dentro.

 

Aver partecipato all'SPV è stato come sapere di ricevere un regalo senza conoscere le dimensioni del pacco o il contenuto; è stato come cercare di vivere un'esperienza che non solo ti segna positivamente ma ti lascia anche la nostalgia di tornare e di continuare.

Ringrazio chi ha messo se stesso per rendere così speciale questa esperienza ed ha tirato fuori il meglio ed il peggio che è dentro ognuno di noi, per renderci consapevoli di chi siamo, di quello che vogliamo,di come lo vogliamo. Sembra di aver fatto un passo avanti verso la vita... in compagnia.

 

 

 

Non vedo l'ora che arrivi il prossimo incontro!

 

 

 


   
 
 


 

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