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Teologia

 

 

La teologia

del corpo 

 

 

di suor Maria Teresa

 
 
  1. La sessualità, sacramento di Dio

  2. "Perchè sono nudo"

  3. Alla ricerca di un volto

  4. "Scimmia" a chi?!?

  5. Gli anelli dell'orefice

 
 
 

La sessualità, sacramento di Dio

- prima parte -

 

La sessualità è stata ed è considerata, in ogni tempo luogo cultura, il grande tabù dell’uomo. Lungo il corso della storia l’imbarcazione dell’umanità ha oscillato tra la sponda della libertà più sfrenata e quella della rigidità più schiavizzante, dimostrandosi incapace di praticare il corso di questo fiume in modo armonico.

Giovanni Paolo II si trovò ad affrontare queste acque già nei primi anni di sacerdozio: i suoi studenti dell’Università Cattolica di Lublino, infatti, esponendogli le loro perplessità e confidandogli esperienze personali, lo spinsero a ricercare con essi e per essi la verità sulla vocazione all’amore umano; << essi stessi furono i miei educatori in tale campo>> dirà anni più tardi. Il giovane professor Wojtyla era consapevole che i suoi studenti non si sarebbero accontentati delle solite e vuote risposte: essi sentivano in cuor loro che quello che affermava la dottrina della Chiesa era vero, ma erano incapaci di seguire delle norme senza conoscerne la motivazione fondante, soprattutto dato che l’amore umano sembrava (e sembra) affermare, in qualche modo, l’esatto contrario. Il giovane sacerdote polacco spinto dall’amore e dal desiderio di aiutarli e guidarli, iniziò una ricerca che sarebbe durata anni meditando sulle concrete esperienze umane alla luce dalla Sacra Scrittura: sapeva infatti che la Verità si sarebbe svelata solo scrutando il disegno eterno di Dio sull’uomo.

Quando la divina Provvidenza decise di porlo al timone di quell’imbarcazione che conduce l’umanità, iniziò il ministero pontificale partendo proprio dal frutto di quella ricerca: un dono inestimabile per tutti i cristiani, dalla ricchezza inaudita e profondamente liberatrice. Le catechesi del mercoledì divennero per quattro anni il pulpito dal quale esporla dettagliatamente. Una “rivelazione antropologica” in grado di estirpare definitivamente dal pensiero moderno ogni egoismo autodistruttivo e, dalla morale cattolica, ogni condanna immotivata della sessualità umana.

Giovanni Paolo II la chiamerà

“TEOLOGIA DEL CORPO”.

Per comprendere l’intenzione originaria dell’Artista inizieremo dal passo della Scrittura che narra allegoricamente la plasmazione dell’uomo, la genesi del più grande capolavoro divino.

 

La creazione dell’uomo

 

Tutta la creazione è un’emanazione dell’essenza stessa di Dio; ma è l’umanità, l’Adam  (nome collettivo che successivamente indicherà l’uomo-maschio), a racchiudere in sé l’immagine e la somiglianza divina. Quindi, per comprendere l’essere umano è necessario conoscere la sua Fonte Creatrice.

Il nostro Dio-Trinità è condivisione: le tre Persone divine sono dono totale e reciproco l’una per l’altra. Il padre gesuita Marko Ivan Rupnik, in un suo celebre libro sul discernimento , afferma: << La relazione di Dio nelle sue Persone santissime è una comunicazione non solo nel senso che le Persone divine comunicano tra loro, ma anzitutto nel senso che si comunicano nell’amore reciproco donando se stesse nell’amore>>. Di conseguenza anche l’essere umano si realizzerà veramente come tale solo nella comunicazione totale di se stessi all’altro.

 

Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Poi il Signore Dio disse: <<Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile>>. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo […] ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse simile.

(Gen 2, 7.8, 18-20)

 

Troviamo in questo passo della Genesi la prima angoscia esistenziale umana, la solitudine: l’uomo, non trovando nella creazione “qualcuno che gli sia pari”, non può realizzare questa donazione e sente incompleto il suo stesso essere. Sarà ponendo la diversità negli esseri umani che Dio completerà finalmente la sua opera creatrice: solo nel dono di sé l’uomo può essere felice.

Yves Semens, l’antropologo francese che in un suo bellissimo libro commenta e riassume tutta la teologia del corpo, afferma a tal proposito: << è la capacità di dono a conferirci la nostra dignità di persona. Soltanto una persona è capace di darsi, ed è nel libero dono di sé che la persona realizza ciò per cui è fatta. Ed è il corpo a chiamarci al dono, con tutto ciò che include: la nostra affettività, la nostra sensibilità, la nostra psicologia, la nostra sessualità, il tutto specificato in maniera maschile o femminile. […] Noi dunque non abbiamo un corpo che sarebbe come un residuo di quel mondo animale di cui l’umanità costituirebbe lo stadio più evoluto. Ma se il corpo lo vediamo alla luce delle origini, secondo la narrazione della Genesi, allora capiamo che esso è fatto per essere dono e perché noi realizziamo la nostra vocazione profonda di essere a immagine di Dio nel dono dei corpi, che esprime il dono di tutta la persona>>.

Nel febbraio del 1980 Giovanni Paolo II rivela che <<il corpo è il primordiale sacramento. Soltanto esso è capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino. Esso è stato creato per trasferire nella realtà visibile del mondo il mistero nascosto dall’eternità in Dio, e così esserne segno>>.

 

La creazione dell’“uoma”

 

Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò.

              (Gen 2, 21)

 

Dio fa scendere sull’uomo un torpore profondo che, nella simbologia biblica, rappresenta la morte stessa. L’Adam per uscire dalla sua solitudine e vivere nella gioia della comunione dovrà prima morire. Possiamo illuminare questo passo dell’Antico Testamento con le parole di Gesù riportate nel Vangelo di Giovanni: Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo . Questa morte-donazione di sé è anche la prima profezia della relazione tra Cristo e la sua Chiesa. I Padri della Chiesa dicono infatti che come dal sonno di Adamo nacque Eva così dal cuore trafitto di Cristo nacque la Chiesa.

 

Gli tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo.

(Gen 2, 22)

 

Prima di questo “completamento” della creazione, quindi, l’Adam era ancora un essere asessuato. La diversità e l’unione creata da Dio viene descritta dagli autori sacri attraverso l’utilizzo di un eufemismo, ossia un modo attenuato per designare una realtà forte. L’organo genitale maschile è creato togliendo dall’uomo stesso una “costola” e su di essa viene plasmato il corpo femminile. I due corpi divengono così complementari e allo stesso tempo incompleti se non si uniscono.

 

Nasce così il primo canto d’amore della storia:

 

<<Essa è carne della mia carne e osso delle mie ossa. La si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta>>.    

                                                                          (Gen 2, 23)

 

L’uomo (’ish in ebraico) ora non è più solo e vede nella donna la realizzazione del suo essere; la chiamerà, infatti, ’ishhà, cioè “uoma”, se così possiamo dire. Riconosce quindi, in lei, qualcuno che gli è pari in dignità, nonostante le caratteristiche differenti.

Nel maggio del 1984 Giovanni Paolo chiude il suo ciclo di catechesi con un commento originale al Cantico dei Cantici. Lungo il corso della storia questo libro della Bibbia è stato spesso al centro di grandi discussioni, sia nell’ambito della fede cattolica che in quella ebraica. San Bernardo, San Giovanni della Croce e molti altri lo leggono in chiave puramente allegorica: vedono simbolicamente rappresentato in esso il matrimonio mistico tra Dio e l’anima. Secondo il Pontefice, invece, non si dovrebbe mutilare il testo staccandolo dal suo significato letterale, ma fondere entrambe le dimensioni, poiché esso è sì un testo sacro ma anche sessuale.

Wojtyla vede il Cantico come lo sviluppo  di quell’esultanza di Adamo quando incontra la sua donna ed entra in intima comunione con lei, con la sua sposa. Lo considera come una tracca rivelata dell’amore delle origini: una celebrazione dell’amore puro non ancora contaminato dal peccato, che lascia chiaramente intuire il vero senso della sessualità umana nell’intenzione divina.

 

“Io vi scongiuro, figlie di Gerusalemme, non destate, non scuotete dal sonno l’amata, finché non lo voglia”.

(Ct 2, 7; = 3, 5; = 8, 4)

 

Per ben tre volte ritornano queste parole, che in bocca allo Sposo sembrano quasi rivelare che il Cantico sia stato composto nel sonno degli amanti, fuori delle pieghe del tempo. Questo sonno, durante il quale gli sposi cantano la loro donazione e unione totale, richiama quello di Adamo dove incontriamo Dio plasmatore della sessualità umana, creatore della femminilità e maschilità, garante della fusione nell’amore coniugale. Un sonno dell’unità d’amore che non dovrebbe aver fine, affinché l’amore puro non venga contaminato dall’egoismo del peccato.

 

Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne.

 (Gen 2,24)

 

G. Von Rad, un famoso studioso tedesco dell’Antico Testamento, ha sostenuto l’ipotesi che saranno una sola carne non si riferisca solo all’unità coniugale nell’atto sessuale, ma l’unica carne è il bambino che nasce dai due.

La solitudine dell’Adam è sconfitta; l’immagine e la somiglianza del Dio Tre e Uno è ormai completa: il tempo della creazione dell’Artista può cessare. <<Dio, in un certo senso, il settimo giorno si ritira e sulla terra lascia l’uomo e la donna con il loro amore, perché essi efficacemente siano capaci di far continuare questa creazione opera delle sue mani>> (G.Ravasi).

 

Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna.

(Gen 2,24 - 25)

 

In definitiva possiamo dire che l’unione sessuale è quindi il sacramento per eccellenza della Trinità di Dio (sacramento inteso come simbolo che rimanda ad un’altra realtà). Quindi, come mai l’atto più sublime d’amore e di donazione che l’uomo possa compiere è divenuto nella storia la sua più grande vergogna?

 

Febbraio / Marzo 2010 - Anno XIV - n° 1

 


 

Perchè sono nudo

- seconda parte -

 

Nell’articolo precedente abbiamo iniziato a riflettere sulla genesi dell’umanità presentando il corpo (e in particolare l’unione carnale dei coniugi) come il primordiale sacramento, l’unico capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il divino. Esso è segno nel mondo della Trinità di Dio. Nella conclusione ci siamo posti una domanda che questa volta diventa il nostro punto di partenza: come mai l’atto più sublime d’amore e di donazione che l’uomo possa compiere è divenuto nella storia la sua più grande vergogna?

La verità sull’uomo la può svelare solo Colui che lo ha creato, quindi per trovare la risposta alla nostra domanda ci rivolgeremo ancora alla Sacra Scrittura fiduciosi che chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.

(Mt  7, 7)

 

Nell’udienza del 12 settembre 1979 Giovanni Paolo II dichiarava: <<La creazione dell’uomo si distingue essenzialmente, nella descrizione biblica, dalle precedenti opere di Dio. L’eccezionale dignità dell’uomo viene messa in rilievo dalla “somiglianza” con Dio di cui è immagine>>. Infatti il Testo Sacro distingue l’uomo dagli altri esseri viventi (animalia) affermando che questi ultimi sono creati da Dio secondo la loro specie, l’uomo invece a immagine e somiglianza di Dio, quindi secondo “la specie divina”. Questa grandissima differenza non dobbiamo relegarla unicamente alla dimensione spirituale e razionale. È vero che l’uomo ha in comune con gli altri esseri viventi la corporeità (la benedizione della fecondità è infatti donata ad entrambi) ma anche in essa vi è una grandissima differenza.

 

Dio disse: << Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame e su tutti i rettili che strisciano sulla terra. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.

 (Gen 1,26-27)

 

Solamente per la creazione dell’Adam viene sottolineata la differenza sessuale. Qui Dio benedice il vincolo delle persone, la relazione, la loro unione.  <<L’uomo diventa immagine di Dio non tanto nel momento della solitudine quanto nel momento della comunione. Egli, infatti, è fin “da principio” immagine di una imperscrutabile divina comunione di Persone>> (udienza del 14 novembre 1979). Tutto questo viene confermato anche dal verbo al plurale utilizzato dal Creatore (facciamo). Sant’Agostino afferma che in questo momento è come se Dio “rientrasse in se stesso” e, contemplando la sua essenza trinitaria, il suo essere Amore Relazionale, plasmasse il suo più grande capolavoro. Data questa sua natura, non si può comprendere fino in fondo l’uomo (e la sua corporeità) partendo dagli animalia e né ridurlo ad essi.

 

La libertà del Paradiso

 

Abbiamo già iniziato a meditare sul secondo capitolo della Genesi (limitandoci a quegli aspetti utili alla nostra ricerca) dove viene descritto il giardino piantato ad Eden dal Signore per porvi l’uomo. L’autore sacro specifica che al suo centro (letteralmente “nella sua parte più interna/intima”) vi è l’albero della Vita, simbolo di Dio, creatore e principio dell’esistenza. L’albero, stendendo le sue radici nel suolo e i suoi rami verso l’alto, rappresenta anche la comunione profonda e vitale tra l’uomo (la terra) e Dio (il cielo). In ultima analisi, l’albero è simbolo anche dell’uomo stesso che realizza totalmente il suo essere persona: la sua identità è data dall’unione con Colui che lo ha creato e il suo essere gode e si nutre dei frutti dell’albero della Vita, quindi di Dio e del suo eterno amore.

La Bibbia di Gerusalemme intitola questo capitolo “La prova della libertà. Il Paradiso”: l’amore per essere autentico e totale richiede la libertà, che è  la condizione per una volontaria adesione alla reciproca donazione. Questo aspetto è simboleggiato dalla presenza di un altro albero, quello della conoscenza del bene e del male, cioè della conoscenza del tôb e del rach. Dio definì tôb, cioè bello/buono, ogni essere vivente da lui creato (usando il superlativo per qualificare la creazione dell’umanità). È solo Dio l’autore della creazione e fuori di lui vi è il nulla, il non-essere; rifiutare la Sorgente della vita è andare inevitabilmente verso la morte:

Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.

 (Gen 2, 16-17)

 

L’uomo, lo ricordiamo, non è solo “immagine” ma è anche “somiglianza”: immagine è selem, cioè “statua/forma”: l’uomo è la “statua/forma di Dio” che visualizza in modo veritiero e perfetto l’essenza divina; somiglianza è invece demût e si riferisce a qualcosa che è analoga ad un’altra realtà ma non ne è totalmente conforme. In altre parole, Dio offre all’uomo il dono totale di se stesso e del suo amore, solo una cosa non gli dona: essere lui stesso Dio.

Ed è proprio su quest’unico limite che farà leva il serpente, il nuovo personaggio che si presenta all’apertura del capitolo 3:

Il serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: <<È vero che Dio ha detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?>>.

  (Gen 3,1)

 

Lo spirito maligno, padre della menzogna (Gv 8,44), come un abile avvocato accusatore formula un’astuta domanda alla donna presentando consapevolmente una situazione non vera ma in grado di porre in evidenza l’unico limite nell’unione tra Dio e l’uomo. La risposta della donna dimostra che ha già iniziato a deformarsi in lei la conoscenza della realtà e che la sua fiducia nell’amore infinito di Dio sta vacillando:

Rispose la donna al serpente: <<Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete>>.

 (Gen 3, 2-3)

 

La donna nomina un unico albero posto al centro del giardino, quello della Vita e della comunione con Dio; non solo dice che non se ne può nutrire ma afferma, ormai tentata nel suo limite, di non poterlo neanche avvicinare, toccare, svelando il suo desiderio di possesso. Ormai il sospetto è entrato nel suo cuore e il serpente non fa altro che dare l’ultimo tocco alla sua opera, aprendo l’illusoria possibilità all’umanità di essere lei stessa l’autrice e il principio della vita, di essere il suo dio e creatore:

<<Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male>>. Allora la donna vide che l’albero era buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito che era con lei, e anch’egli ne mangiò.

 (Gen 3, 4-6)

 

E così l’umanità si nutre del frutto dell’albero della Vita per impossessarsene, non più per amore.

Scoprirà ben presto che l’albero che ha scelto di essere, in realtà, è il nulla, non esiste, è come pula che il vento disperde (Sal. 1, 4), semplicemente perché l’uomo non potrà mai essere Dio. Fuori di quella comunione si crede e si considera “il centro del giardino” e vi si pone nascondendosi da Colui che è la verità del suo essere:

L’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore chiamò l’uomo e gli disse: <<Dove sei?>>. Rispose: <<Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto>>.

(Gen 3, 8-10)

 

La nudità del serpente

 

Il serpente era la divinità pagana, minaccia continua di idolatria per il debole popolo d’Israele. La Genesi, al primo versetto del capitolo terzo, lo presenta come la creatura più astuta, sapiente (’arum). Il versetto precedente affermava che i progenitori erano nudi (’arûmîm) e non se ne vergognavano. L’autore sacro gioca qui con le parole per rivelarci un significato più nascosto: il passaggio tra l’innocenza delle origini  (status naturae integrae) e la caduta (status naturae lapsae) sono collegati da questi due termini -sapienza e nudità- che hanno la stessa radice ebraica.

Cosa può significare che il serpente era la “più nuda” delle creature? La nudità delle divinità pagane era simbolo della fecondità e della vita. Il serpente si presenta quindi come l’alter-ego di Dio e il suo vero volto si svela nella condanna impostagli da Dio dopo l’inganno ai progenitori:

<<Sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita>>.

 (Gen 3, 14)

 

L’albero della conoscenza del bene e del male, simbolo di quella sapienza che si contrappone alla Sapienza eterna, si manifesta come illusione e pura menzogna: nutrirsi dei suoi frutti in realtà equivale a nutrirsi di polvere (che senza il soffio vitale di Dio è il nulla); ed è proprio quella polvere a diventare l’alimento (la vita, quindi) del serpente. E in lui, il ventre, luogo generativo per eccellenza, diventa sede della morte eterna.

Ma l’uomo e la donna non ricevono la stessa condanna dello spirito maligno. L’Adam, infatti, è stato sì libero di scegliere se vivere in comunione o no con il suo Creatore, ma non potrà mai cancellare quello che è per natura: la “statua/forma di Dio” potrà deformarsi e sfigurarsi nutrendosi di un albero che non è la sua Vita, ma rimarrà sempre e comunque quella statua.

Quindi, quali sono le conseguenze del peccato originale nei nostri progenitori e, a partire da loro, in ogni uomo? L’autore sacro ce le presenta con un versetto molto singolare:

Allora si aprirono gli occhi di tutti e due  e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.

 (Gen 3, 7)

 

In un primo momento potrebbe sembrare che questa apertura degli occhi avvalli la parola del serpente che insinuava la volontà divina di celare la conoscenza e la libertà. Credo invece che la spiegazione sia molto più profonda: abbiamo già detto che l’uomo, a differenza degli altri esseri, è stato creato “secondo la specie di Dio”. La sua identità è teocentrica: ha il suo fulcro, la sua parte centrale (interna/intima), il suo albero della vita in Dio (allora in un certo senso fuori di sé). La vista è l’organo che permette la conoscenza del mondo circostante, quindi fino a questo momento non ha avuto gli occhi chiusi ma, conoscendo unicamente la bellezza (tôb), contemplava la creazione con gli occhi divini… e Dio vide che era cosa buona.

Questo cambiamento nello sguardo è ben espresso nella poesia Genesi di A. Rita Mazzocco, della quale riporto solo un passo:

 

Potendo pensare se stessa

l’immagine si riconobbe

creata libera.

Allora Dio

le dischiuse gli occhi

perché s’inondassero di bellezza

e l’uomo poté contemplare la verità

e l’armonia era la sua verità.

Ma ecco che tanta bellezza

piacque all’uomo!

E mentre il Superbo ne insidiava la mente

egli, libero,

distolse lo sguardo dal suo Creatore

per rubarne il segreto,

sicuro di contenerlo,

lui come il solo

lui come l’unico.

 

(Il Cantico di Tommaso. Morlacchi, Perugia 2006)

 

Nutrendosi dei frutti di quella conoscenza menzognera, l’uomo apre i suoi occhi diventando il perno centrale della propria esistenza (ego-centrico). In realtà il suo sguardo è deformato e reso incapace di vedere realmente quello che è e quello che è chiamato ad essere: passerà infatti dallo sguardo limpido e veritiero sulla nudità vissuta in Dio (che gli permetteva di conoscersi e donarsi totalmente nell’amore) all’egocentrica “nudità del serpente” che lo porterà al nascondimento ed alla paura dell’altro/Altro.

 

La cintura di foglie di fico

 

L’albero di fico era una pianta molto diffusa nell’area mediterranea orientale e, dato l’uso abbondante dei suoi frutti nell’alimentazione, era considerato simbolo di fecondità e vita.

Con il peccato il significato della nudità come apertura totale alla relazione e alla donazione di sé viene radicalmente mutato. L’uomo per la prima volta si nasconde, ponendo dinanzi ai segni sessuali del suo corpo una cintura di foglie di fico (il primo abito dell’umanità!), rivelando che questa capacità di comunione totale del suo essere ha ormai una barriera e una protezione invalicabili. Dall’amore sponsale dell’Eden era assente la cupa ombra dell’egoismo e del possesso, ora invece anche la visione sul proprio corpo è deformata. L’umanità si allontana dalla sua altissima dignità divina e si pone allo stesso livello del resto degli animalia.

<<Nell’opacità dello sguardo dell’uomo peccatore, che ha perso la comunione divina, è la sessualità animale a diventare il riferimento biologico della propria sessualità. Scoprono insomma di poter venir “cosificati”. I segni corporali, che erano invito al dono, diventano virtualmente dei mezzi d’appropriazione, d’uso dell’altro. Per scongiurare questa minaccia, la prima reazione è sottrarre quei segni allo sguardo dell’altro, ansiosi di proteggersi e preservare qualcosa del significato originale di quei segni, significato di cui pur resta, nel cuore dell’uomo e della donna, come una lontana eco>> (Y. Semens, La sessualità secondo Giovanni Paolo II). Karol Wojtyla, nel capitolo dedicato alla metafisica del pudore del suo celebre libro Amore e responsabilità, afferma: << Il pudore sessuale non è altro che un riflesso dell’essenza della persona; è una rivelazione del suo carattere sopra-utilitario. Il valore della persona è strettamente legato alla sua inviolabilità, al fatto di essere qualcosa di più di un oggetto di godimento. Il pudore sessuale è un moto istintivo di difesa, che protegge il valore della persona>>.

Possiamo affermare che l’esigenza umana di indossare un indumento rivela una grandissima verità: il nostro essere di “altra specie”. Il vestito dichiara la vergogna e la paura della nostra natura decaduta e, di conseguenza, la presenza in noi di un’impronta della natura originaria “divina”.

Le torture che lungo la storia gli uomini infliggevano venivano spesso attuate facendo spogliare il condannato (come avvenne a Gesù durante la sua Passione). Mi passano davanti alla mente numerose immagini della storia del secolo scorso, come ad esempio quelle dei campi di concentramento nazisti dove gli ebrei erano denudati e trattati come animali; mossa psicologica diabolica per impedire qualsiasi forma di reazione, renderli impotenti e senza alcuna difesa.

L’indumento manifesta il continuo tentativo di riconquistare la dignità perduta con il peccato; questa nostra “seconda pelle” ha il compito di plasmare, in qualche modo, la nostra immagine. Possiamo quindi affermare che il corpo “protetto dal pudore” è alla ricerca instancabile di raggiungere il suo vero significato, la sua immagine divina, il suo essere tôb (bellezza) ai propri occhi, a quelli dell’atro e agli occhi di Dio.

Come dopo il peccato è vietato l’accesso alla parte più intima del giardino, custodita dai cherubini, così ogni Adamo porta ontologicamente in sé un’intimità inviolabile e sacra custodita dal pudore. E l’indumento diventa il simbolo del desiderio umano di appartenere nuovamente a quell’Amore infinito ed eterno.

Che cosa si inventerà l’instancabile Tessitore della dignità umana per rivestire nuovamente l’amata creatura della Sua bellezza?

Il Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li vestì.

(Gen 3, 21)

 

Le chiavi di accesso al giardino e al corpo dell’uomo, come vedremo, saranno concesse unicamente all’amore.

 

Febbraio / Marzo 2011 - Anno XV - n° 1


 

Alla ricerca di un volto

- terza parte -

 

Per comprendere l’amore umano e l’autentica esperienza di esso, Giovanni Paolo II parte dalle parole di Gesù per tracciare un itinerario che, rispondendo ad una domanda sul matrimonio, si richiama alla Genesi e all’esperienza originaria dei nostri Progenitori: Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi (Mt 19, 4-6).

Il percorso indicato da Papa Wojtyla è composto da tre tappe: la SOLITUDINE ORIGINARIA e l’UNITA’ ORIGINARIA (che abbiamo già affrontato nella prima parte della nostra rubrica, consultabile anche sul nostro sito), e la NUDITA’ ORIGINARIA (seconda parte). Rivediamo molto brevemente questa triade:

-      l’uomo è stato plasmato ad immagine e somiglianza di Dio e non riconosce nel resto del creato nessuno che gli sia simile;

-      solo con la creazione della donna comprende di essere “per-sona” che, attraverso la comunione con l’altro, è chiamata a realizzarsi nel creato come immagine del Dio-Trinità, che è Amore;

-      l’uomo delle origini accoglieva e comprendeva la totalità del proprio essere (corpo e anima) e di quello dell’altro, alla luce dell’autentico amore che è libertà, e non possesso.

Nei precedenti articoli abbiamo anche meditato sulle conseguenze del peccato originale sulla comprensione del’autentico significato del corpo e dell’amore umano: il peccato ha deformato il nostro vero volto, lasciando in noi una struggente nostalgia di quell’essere a Sua immagine e somiglianza. Nostalgia ben descritta da A. Rita Mazzocco in una poesia della raccolta “Il Cantico di Tommaso”, intitolata Il senso della vita:

 

La solitudine per essere diverso.

Per essere di questo mondo

ma non fatto per lui.

Ecco mio Dio il vero dramma

la piaga che non rimargina

la sconfinata malinconia che mi consuma.

Come il mendicante porta nel cuore

il suo dolore muto

e se ne va per le strade della terra

così anch’io

vado errando alla ricerca di un senso

per questa mia vita

per questa mia morte.

Ospite della mia tristezza

nello scoprire che tutto è vanità

e che nulla può appagare la mia sete

vado ripetendo a me stesso

che comunque l’uomo

è cosa molto buona.

Ma mentre mi struggo nello sforzo

d’innamorarmi di questo mondo

respiro l’esilio

e il ricordo perduto delle radici.

E intanto di soppiatto viene ad abitarmi

la coscienza d’aver capito

che il senso della mia vita

sta proprio nell’attesa

di poter ritornare a casa.

 

(Il Cantico di Tommaso. Morlacchi, Perugia 2006)

 

L’autrice propone l’esperienza di Tommaso come esperienza dell’uomo di tutti i tempi, nel quale la ricerca del proprio volto è la ricerca della propria casa, della propria sorgente vitale, del ricordo perduto delle radici.

L’allontanamento di Adamo ed Eva dal giardino dell’Eden dopo il peccato, è la causa primaria di questa nostalgia che alberga nel cuore di ogni Tommaso della storia: l’uomo, fuori della dimora dove Dio lo aveva posto, luogo di intimità e unione con l’altro/Altro - nella piena consapevolezza di essere unico (“solo”), persona (“unito”), libero (“nudo”) - porterà sempre con sé quel germe di desiderio della casa del Padre.

Lo scrittore bavarese Patrick Süskind nel suo romanzo Storia del signor Sommer (Ed. Tea) ci propone la figura eccentrica del signor Sommer che ci può aiutare a comprendere meglio questo desiderio ontologico.

Il signor Sommer era davvero fuori del comune: camminava speditamente ogni giorno, da mattina a sera, d’estate e d’inverno, lungo kilometri e kilometri di strada. “Tutt’intorno al lago non c’era persona, uomo, donna o bambino - anzi, neppure un cane -, che non avesse conosciuto il signor Sommer. […] Con la neve o con la grandine, con la tempesta o con la pioggia a catinelle, con il sole implacabile o con un uragano in arrivo, il signor Sommer andava in giro”. Se qualcuno gli domandava dove andasse o da dove venisse, farfugliava qualcosa di incomprensibile, senza fermarsi. Ad un certo punto “faceva dietro-front e ricominciava a correre verso casa o verso qualche altra meta”.

Le sue marce interminabili rimangono sullo sfondo e accompagnano le avventure del protagonista del romanzo, presentate dall’autore in prima persona, e proprio al protagonista capiterà un giorno di assistere, nascosto tra i rami di un albero, ad una sosta dell’instancabile viaggiatore: “si stese a terra in tutta la sua lunghezza tra le radici come in un letto. Ma in quel letto non trovò pace, perché, non appena fu disteso, emise un lungo, doloroso sospiro […], un gemito, un lamento, un suono doloroso che usciva dal profondo del cuore, frammisto di disperazione e desiderio di sollievo. E poi fece udire per una seconda volta quel rumore da far drizzare i capelli, quel gemito supplice come di un malato torturato dal dolore”.

In questa ricerca insaziabile il Tommaso del Cantico e il signor Sommer trovano il loro punto d’incontro: l’essere come un mendicante che porta nel cuore / il suo dolore muto / e se ne va per le strade della terra. Un punto però che divergerà in direzioni opposte: Tommaso colmerà il suo cuore di speranza comprendendo il senso di questa ricerca, il signor Sommer, invece, si suiciderà, sopraffatto dal suo dolore. Si dirigerà verso l’interno di quel lago le cui rive aveva tante volte calpestato, credendo forse di aver trovato l’unico modo per porre fine a quella frenetica marcia.

Mi risuona alla mente la domanda di Dio nel giardino dell’Eden, dopo la ribellione dei Progenitori: “Adamo dove sei?”. Domanda che traduce in parole quella nostalgia dei cuori umani: la nostalgia che in realtà è lo strumento privilegiato di Dio per richiamarci alla piena comunione con lui. La domanda di Dio è CHIAMATA ALL’AMORE perché Dio è amore (1 Gv 4,8). È il dubbio su questa verità dell’amore divino la causa dei tentennamenti e del peccato di Eva alle parole del serpente (cfr. Gen 3,4-6), peccato che condurrà l’umanità alla disperazione e alla morte. Solo rispondendo a quella domanda d’amore con l’amore, usciremo da questo circolo di sofferenza, ritrovando il nostro vero volto, quella Imago Dei che è promessa di felicità.

Le tre esperienze originarie che abbiamo prima ricordato, ci consentono di comprendere se stiamo costruendo la nostra vita sul vero amore o su qualche suo surrogato, e ci orientano nel labirinto delle esperienze umane. Ma possiamo superare il muro apparentemente invalicabile del peccato originale per rivivere queste esperienze di amore autentico? Giovanni Paolo II fa notare che, in quella risposta sul matrimonio, è Gesù stesso che si richiama al Principio, è lui la Via che riapre l’accesso al giardino creduto perduto per sempre: Cristo è venuto a restituirci quel volto. Per “volto” non intendo solo la dimensione spirituale dell’uomo, perché anche la dimensione corporale chiede di essere realizzata. Il nostro corpo è unico ed irripetibile e racchiude in sé un significato che va cercato, una vocazione che interpella, una missione che chiede compimento.

Il corpo del signor Sommer esprimeva, con quelle marce interminabili, questa ricerca di senso. Così farà anche Dante Alighieri nella sua Divina Commedia, compiendo con il suo corpo un viaggio ultraterreno che, iniziato dall’Inferno, lo condurrà fino a Dio: quel Dio-Trinità che parvemi tre giri di tre colori e d’una contenenza. Un grande stupore ci invade quando scopriamo chi vede Dante nel “circolo riflesso”, nel Figlio:

 

Quella circulazion, che sì concetta

pareva in te come lume reflesso,

da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,

mi parve pinta de la nostra effige;

perché ’l mio viso in lei tutto era messo.

(Paradiso - Canto XXXIII, v. 128-132)

 

In Dio Dante, Tommaso, il signor Sommer incontrano finalmente, come riflesso in uno specchio - o in un lago che sia -  la meta sospirata nel lungo viaggio: il loro vero volto.

 

Aprile / Maggio 2011 - Anno XV - n° 2


 

"Scimmia" a chi?!?

- quarta parte -

 

<<Non c’è mai stata un’epoca in cui l’uomo era un animale perché non c’è mai stata una mucca con pantaloni e stivali>>. Questa grande verità ironicamente affermata dallo grande scrittore cattolico G. K. Chesterton, riassume brevemente i passi già compiuti nel nostro studio sulla teologia del corpo. A commento delle sue parole vi ripropongo alcuni stralci di articoli precedenti (tutti consultabili nel nostro sito):

·        Noi non abbiamo un corpo che sarebbe come un residuo di quel mondo animale di cui l’umanità costituirebbe lo stadio più evoluto.

·        La Genesi distingue l’uomo dagli altri esseri viventi (animalia) affermando che questi ultimi sono creati da Dio “secondo la loro specie”, l’uomo invece, a “immagine e somiglianza di Dio”, secondo la “specie divina” […]. Data questa sua natura non si può comprendere l’uomo fino in fondo (e la sua corporalità) partendo dall’animalia e né ridurlo ad essa.

·        L’esigenza umana -e solo umana- di indossare un abito rivela una grandissima verità: il nostro essere di “altra specie” […]. Il vestito dichiara la vergogna e la paura della nostra natura decaduta e, di conseguenza, la presenza di un’impronta della natura originaria divina.

 

Chi di noi non ha mai sentito tra i banchi di scuola parole come “evoluzione”, “casualità”, “selezione naturale”? Tutti ricorderemo la simpatica giraffa che tenta, lungo il corso di milioni di anni, di allungare il suo collo per raggiungere il nutrimento tra i rami più alti e, tra le tante immagini che coloravano il nostro libro di scienze, ricorderemo anche il classico disegno, in stile metamorfosi kafkiana, della scimmia-uomo. Queste parole e queste immagini sono legate alla teoria dell’evoluzione biologica, espresse per la prima volta nel 1859 da Charles Robert Darwin nel suo The Origin of Species, opera che il naturalista britannico scrisse dopo aver studiato le somiglianze e le differenze tra le diverse specie di animali nei paesi del Sud America, visitati con la nave Beagle. Pochi sanno però che quella dell’evoluzione (che Darwin chiamava trasmutazione) non è una teoria scientifica, se per scienza intendiamo quella disciplina ancorata ad una attività intellettuale rigorosa che si fonda su basi di verità obbiettiva. L’unico metodo riconosciuto dalla comunità internazionale degli scienziati è quello galileiano, che corrisponde al primo dei tre livelli di credibilità scientifica. Li elenco brevemente:

- il primo livello è quello delle prove riproducibili (se voleste imitare Galileo Galilei nel far cadere dalla torre di Pisa -o, con le dovute precauzioni, dal balcone di casa vostra- un pezzo di legno e un pezzo di piombo, otterrete i suoi stessi risultati, sperimentando che corpi di massa differente toccano il suolo nello stesso istante);

- il secondo livello si ha quando non si possono studiare gli eventi sotto controllo diretto (es. l’evoluzione stellare);

- il terzo livello, invece, corrisponde alla serie di fenomeni che accade una sola volta.

La teoria dell’evoluzione biologica si troverebbe perfino al di sotto del terzo livello di credibilità scientifica perché troppi anelli mancanti, scomparse improvvise e sviluppi miracolosi, costellano in realtà l’evoluzione della vita sulla terra.

Prima del Cambiano (il periodo che intercorre tra 542 e 490 milioni di anni fa) non vi sono resti fossili; all’inizio di esso, invece, se ne attestano almeno 500 specie, appartenenti a sette tipi diversi, senza traccia di antenati né di specie intermedie. E poi… come si è evoluta la materia inorganica per trasformarsi in materia portatrice di vita (vita che senza risultati gli scienziati tentano di riprodurre in laboratorio)? Mai sono stati trovati fossili di giraffe a collo “mezzo-lungo” e soprattutto, come spiegare la nascita della ragione umana (con il cosiddetto Big-Bang neurologico) dato che non esistono esseri dotati di “mezza-ragione”?

Troppe domande senza risposta per essere ritenuta scientifica una teoria e presentata nella maggior parte delle nostre scuole come realtà obbiettiva e certa.

E per chi ribatte affermando che il codice genetico della scimmia è molto simile a quello dell’uomo, sappia anche che non differisce di tanto neanche da quello del topo e di tanti altri esseri viventi. Antecedentemente si supponeva che il DNA contenesse tutte le informazioni che riguardano l’individuo, oggi invece sappiamo che, per comprendere la sua funzione, sarebbe meglio paragonarlo alle lettere dell’alfabeto, con le quali possiamo scrivere una poesia o un trattato scientifico: utilizzando le stesse lettere posso cambiare radicalmente forma, contenuto, finalità di un testo. Quindi non è il DNA il principale differenziatore delle diverse specie degli esseri viventi, ma il modo in cui esso viene letto. Non siamo simili al topo (per fortuna!) perché le molecole che regolano il linguaggio genetico si comportano in modo molto differente da specie a specie e perfino da individuo a individuo.

Darwin sosteneva inoltre che l’evoluzione seguiva il gioco cieco del caso e della necessità, negando così che l’ordine naturale fosse il risultato di un disegno divino e provvidenziale, escludendo che i processi naturali avvengano per un fine, per uno scopo soprannaturale e superiore. Pochi sanno che del suo trattato sulle origini vi è anche una prima redazione, nella quale il naturalista non escludeva l’esistenza di Dio; solo in un secondo momento Darwin eliminerà ogni riferimento al Creatore, influenzato dal potere politico e soprattutto dal dolore per la morte prematura dell’amata figlia Annie, dolore che lo portò a dubitare sulla finalità positiva dell’intera creazione e lo allontanò gradualmente dalla sua fede.

San Tommaso d’Aquino, invece, afferma che le cose naturali corporee, che di per sé non hanno conoscenza, agiscono in maniera finalizzata per raggiungere ciò che è bene per loro. Esse raggiungono il loro fine non per caso, ma intenzionalmente. Però non lo raggiungono a partire dalla propria intenzione, bensì da quella di un ente conoscente, che le dirige verso il fine come un arciere la freccia ( cfr. Summa theologiae q. 2, a. 3). Per spiegare questo concetto utilizzerà anche la metafora della nave: <<come se il costruttore di una nave potesse fornire ai pezzi di legno la capacità di muoversi da sé per la produzione della forma della nave>>.

Per quanto riguarda la vita umana, invece, vorrei riportare un’affermazione semplice e chiara che Benedetto XVI fece, durante la sua prima omelia da Pontefice, in piazza S. Pietro: << Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è pensato, voluto e amato da Dio>>.

La scienza galileiana, quella di primo livello, ci permette invece di comprendere che non siamo figli della casualità, ma di una logica rigorosa. Il grande fisico siciliano Antonino Zichichi chiarisce scientificamente questa verità: << Chi ha fatto il mondo, meglio di così non avrebbe potuto. Il mondo che ci circonda, dalle sue strutture più piccole - qual è il cuore di un protone - alle sue estensioni più vaste - quali sono gli insieme galattici - obbedisce alle stesse leggi, rigorose e immutabili. […] La teoria dell’evoluzione biologica della specie umana, pur essendo priva oggi di qualsiasi struttura matematica, potrebbe un giorno divenire non certo una teoria fondamentale, ma una delle innumerevoli applicazioni che si possono dedurre dalle Leggi fondamentali della natura >> (A. Zichichi, Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo).

La Fisica in quattrocento anni, dalla sua nascita con Galilei fino ad oggi, ha fatto veramente passi da gigante, studiando e verificando con rigore matematico e logico queste Leggi fondamentali. E se in futuro l’uomo riuscirà a comprendere le sue origini biologiche, non potrà che scoprire che esse sono conformi a quel meraviglioso ordine posto da Colui che ha fatto il mondo.

Credo che la teoria evoluzionistica si sia radicata nella cultura odierna principalmente per due motivazioni. Innanzitutto a causa della strumentalizzazione che subì questa teoria, con la conseguente nascita del cosiddetto “darwinismo sociale”; basti pensare al marxismo che fece leva sulle prove inconfutabili (?) della non esistenza di Dio, o all’ideologia nazista per quanto riguarda la selezione naturale. Vi riporto un passo di un'altra opera di Darwin, The Origin of man (1871), dove il suo pensiero, elaborato sicuramente con finalità scientifiche è - evidentemente - facilmente manipolabile: <<L’uomo potrebbe, mediante la selezione, fare qualcosa non solo per la costituzione somatica dei suoi figli, ma anche per le loro qualità intellettuali e morali. I due sessi dovrebbero star lontano dal matrimonio, quando sono deboli di mente e di corpo, ma queste speranze sono utopie, e non si realizzeranno mai, neppure in parte, finché le leggi dell’ereditarietà non saranno completamente conosciute. Chiunque coopererà in questo intento renderà un buon servigio all’umanità>>. E il primo “collaboratore” fu proprio il cugino di Darwin, lo scienziato britannico Francis Galton (1822-1911), che sviluppò la teoria della selezione della razza attraverso l’eugenetica che oggi, come purtroppo sappiamo, è ritornata molto in voga (per chi non lo sapesse, l’eugenetica è quella branca della genetica che studia il patrimonio genetico umano per migliorarlo, anche attraverso l’eliminazione o la sterilizzazione di portatori di tare).

Come seconda motivazione vorrei additare la nostra indolenza: una teoria che risponde così facilmente alla domanda sull’origine umana e che non cambia né interpella il mio vissuto (come può invece fare l’impegnativa verità cristiana), fa davvero comodo.

Anche se la teoria evoluzionistica riuscisse a fornire prove scientifiche sulla sua validità, questo non scalfirebbe affatto la grande verità che Chesterton affermava in quella frase sulla mucca con gli stivali. Infatti, una evidentissima linea di demarcazione separa l’uomo da tutti gli altri esseri viventi, perché <<l’uomo - per dirla ancora con parole del grande scrittore inglese - è una rivoluzione, non una evoluzione>>. Ed anche se ponessimo all’origine del corpo dell’uomo una scimmia, potremmo con certezza affermare che quando era scimmia l’uomo non era affatto uomo. Né divenuto uomo può essere considerato discendente dalle scimmie dato che, ripetiamolo, l’uomo non è una evoluzione, ma una rivoluzione di tutto il creato. Ed è anche partendo da questa consapevolezza sull’ “immensamente altro” della natura umana che nasce l’etica cristiana. Nei prossimi articoli, infatti, ci impegneremo a comprendere come l’uomo è chiamato a vivere in ogni stato della sua preziosissima esistenza alla luce della teologia del corpo e dell’Amore, vero fine e realizzazione dell’essere umano.

Concludendo, vorrei chiarire una cosa per evitare di essere fraintesa: la finalità di questo articolo non è quello di fornire una risposta alla domanda fondamentale sull’origine dell’uomo. Anche perché, dal punto di vista scientifico, la risposta non è stata ancora trovata. Il libro della Genesi ha donato ai nostri quesiti risposte teologiche, non scientifiche: gli Autori sacri non avevano alcun interesse a scrivere un trattato di scienze. Penso di aver voluto scrivere questo articolo principalmente per accendere, in chi lo legge, il desiderio di conoscere, perché vuote risposte mai soddisferanno la sete di verità racchiusa nel nostro cuore; solo inoltrandoci nella vera conoscenza potremo contemplare il volto di Dio, Sapienza eterna. Dio è il Logos, la Ragione, afferma il Vangelo di San Giovanni. E se il nostro Creatore ci ha donato una scintilla di questa Ragione, noi possiamo e dobbiamo raggiungere la Sua Verità.

Termino evidenziando un aspetto certamente esatto della teoria evoluzionistica: il concetto di evoluzione: concetto, vorrei evidenziarlo, prettamente cristiano. Su questo tema si potrebbe scrivere un altro accurato articolo, ma lascio il compito a chi vorrà approfondire questa grande verità storica, culturale, teologica, filosofica e persino scientifica. A proposito vorrei solo citare San Paolo che afferma, con straordinaria chiarezza e lungimiranza: La creazione attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio (Rm 8, 19-21). Ecco la verità: non ex-scimmie sballottate per caso nell’esistenza ma figli di Dio, destinati ad un fine di gloria al quale condurre l’intero universo.

 

Anno XV - 2011 - n° 3


 

 

Gli anelli dell'orefice

- quinta parte -

 

Ad ogni persona che è esistita, esiste ed esisterà su questa terra, Dio ha donato un disegno da realizzare; la vita di ogni essere umano è infatti una tela bianca che, se docile all’azione del pennello dell’Artista, vedrà compiersi in sé quell’opera d’arte che è promessa di felicità.

Se tutto è così semplice, come mai la storia dell’umanità abbonda di opere d’arte incompiute? L’inizio della nostra infelicità risale alla preistoria teologica (così la definiva Giovanni Paolo II), quando quell’uomo che ci racchiude tutti, l’Àdam, non ebbe fiducia nel suo Creatore e volle superbamente prendere il suo posto, riuscendo solo a rendere la propria vita un complicato - e perfino inutile - scarabocchio.

Dove sei? (Gen 3,9) domanda Dio ad ogni Adamo della storia, chiamandolo ad instaurare nuovamente il rapporto con Lui; e se Dio è Amore (1 Gv 4,8), allora definirei quella domanda la chiamata all’amore. Tutto di noi ci rivela questa verità ontologica dell’uomo. Le fibre della nostra tela bianca richiedono infatti di essere tinte con i colori dell’amore: fin da bambini necessitiamo di godere dell’amore dei nostri genitori, degli amici; da adulti, desideriamo assaporare quell’amore con un altro essere umano per poi donarlo anche alle nuove vite che quell’amore sponsale plasmerà.

La mèta di ogni uomo è quindi comune, ma la via per raggiungerla è per ognuno di noi unica ed irripetibile. L’unicità di quell’opera d’arte è rivelata visibilmente anche dal nostro corpo, anch’esso unico ed irripetibile in tutta la storia dell’umanità. Queste innumerevoli “vie” per raggiungere la mèta che è Dio-Amore (tante quanti sono stati, sono e saranno gli esseri umani), possiamo suddividerle in due grandi autostrade: quella della vocazione alla consacrazione matrimoniale e quella della vocazione alla consacrazione religiosa: suddivisione sommaria e non esauriente, data l’esistenza di tante altre vocazioni particolari.

In questa quinta parte della nostra rubrica ci occuperemo dell’autostrada “più praticata”, quella della chiamata a vivere la vita matrimoniale, cioè ad instaurare il rapporto con Dio attraverso l’amore da vivere e costruire con un altro essere umano.

Vorrei partire con una domanda: il nostro alter-ego, la cosiddetta “anima gemella”, esiste? Siamo esseri destinati a conoscersi e avvicinarsi sballottati dalla casualità degli eventi, o vi è un disegno più profondo che guida a far incontrare due strade differenti e renderle un tutt’uno? Se tutto quello che abbiamo detto fino ad ora è vero (l’essere chiamati a realizzare una vocazione precisa, unica ed irripetibile, nata insieme a noi dalle mani del Creatore) vuol dire che la risposta è: sì, esiste al mondo una persona donatami da Dio come compagna in questa avventura chiamata vita. Persona che non ci verrà mai incontro favolisticamente, vestita d’azzurro in groppa ad un cavallo bianco, ma che la Provvidenza Divina affiancherà a noi, chiedendoci di accoglierla con le sue povertà e fragilità per crescere insieme.

Quindi dovremmo vagare per il mondo intero alla ricerca di questa persona? No, non credo proprio. Il compito della tela è quello di affidarsi a Dio. Sarà Lui, Dio-Provvidente, a guidarci; quanto più a Lui ci abbandoneremo (mi riferisco ad un abbandono attivo e responsabile e non ad uno passivo e indolente) tanto più potremo compiere la sua volontà che, come detto, è promessa di felicità. Come riconoscere quest’anima gemella? Se quel disegno è inscritto nel profondo di ognuno di noi, allora saremo in grado di riconoscere i tratti del suo volto ascoltando il nostro cuore in sincerità e verità.

 

ANDREA

Sono arrivato a Teresa per vie assai lunghe, non l’ho trovata subito. / Forse non so neanche cosa voglia dire «l’amore a prima vista». / Passato qualche tempo mi sono accorto che non usciva più dal cerchio della mia attenzione; / evidentemente Teresa aveva qualcosa che concordava con la mia personalità. / Non cedevo solo all’impressione e all’incanto dei sensi / perché in tal caso non sarei stato in grado di uscire dal mio io / e di giungere all’altra persona. Questo non era facile. / Perché i miei sensi ad ogni passo si nutrivano / del fascino delle donne incontrate. / Ma quando talvolta cercavo di seguirle  / trovavo solamente isole deserte. / E così ho imparato man mano ad apprezzare la bellezza / percepibile con la ragione, cioè la verità. / Allora ho deciso di cercare una donna che fosse capace di essere il mio alter ego, /affinché il ponte gettato tra noi due / non diventasse una passerella vacillante tra canne e ninfee. / Ho incontrato già qualche ragazza che ha colpito la mia immaginazione / e ha riempito i miei pensieri - ma proprio nei momenti / in cui mi pareva di essere più impegnato / mi accorgevo d’un tratto che solo Teresa era presente nella mia mente, nel mio ricordo / era lei la pietra di paragone con le altre. / Tremo solamente pensando come era facile / perderla, allora. / Mi rifiutavo di accettare quello / che oggi mi sembra il dono più prezioso. / Oggi vedo che il mio mondo è anche il suo. / Eppure sognavo soltanto di gettare un ponte.

 

Karol Wojtyla pubblicò nel 1960 un’opera teatrale (da cui è tratto il brano sopra riportato) intitolata La Bottega dell’orefice, opera che è il frutto letterario delle sue profonde meditazioni sull’amore umano e sulla relazione sponsale. Teresa e Andrea sono i primi protagonisti che, intorno alla bottega dell’orefice, ci svelano le loro vite. Andrea ha appena posto a Teresa una domanda meditata a lungo: Vuoi essere la compagna della mia vita? Da tempo aveva compreso che i rapporti basati sull’incanto dei sensi erano come una passerella vacillante tra canne e ninfee, prendendo così la risoluzione di cercare il suo alter-ego. Pensava semplicemente di gettare un solido ponte tra lui e Teresa, ma incredibilmente scopriva che lei - e solo lei - era già una parte di sé: oggi vedo che il mio mondo è anche il suo. I due giovani si sono impegnati a districare la complicata mappa dei richiami e dei segni inscritti nei loro cuori e hanno compreso la bellezza della verità: l’esistenza dell’uomo ha senso solo nell’impegno della realizzazione di quell’opera d’arte. Entrando nella bottega i due giovani hanno deciso di unirsi “per sempre”; sarà l’orefice, che rappresenta Dio stesso, a suggellare la loro unione.

 

TERESA

Guardammo poi a lungo, insieme, / la vetrina dell’orefice. / Là, negli astucci / foderati di velluto / brillavano dei gioielli. / Tra gli altri - anche fedi nuziali. / Le guardammo un attimo zitti, zitti. / Le fedi che stanno in vetrina / ci dicono qualcosa con estrema fermezza. / Serviranno ad unirci invisibilmente / come gli anelli estremi di una catena. / Non siamo entrati subito. Il simbolo prese la parola.

 

ANDREA

L’orefice ci guardò a lungo negli occhi. / «Il peso di queste fedi d’oro / - così disse - non è il peso del metallo. / Questo è il peso specifico dell’essere umano, / di ognuno di voi e di voi due insieme». / Il futuro è per noi ignoto, ma lo accettiamo senza perplessità. L’amore ha vinto ogni perplessità. L’amore determina il futuro.

 

(K. Wojtyla, La bottega dell’orefice, stralci dalla prima parte dell’opera I richiami)

 

Sulla vetrina della bottega vediamo ora riflessa un’altra coppia: Anna e Stefano, da anni moglie e marito. O meglio, vi vediamo solo il volto di Anna, che ha deciso di recarsi dall’orefice per vendere la sua fede nuziale: le era diventata inutile, racconterà ad Adamo, una nuova figura che, affiancandosi ai vari personaggi, cercherà di aiutarli a guardarsi nella verità e a realizzare quella chiamata all’amore. Lei e suo marito Stefano vivono, infatti, un periodo di profonda crisi e grande sofferenza: una crepa fatta di incomprensioni e indifferenza si è creata nel loro matrimonio.

Adamo rimane stupito della fragilità dell’amore umano, della diffusa incapacità di percorrere quella via dell’amore; comprende che per Anna uscire dalla propria strada equivale ad uscire dalla propria tela. Ma si può vivere fuori da se stessi senza sentirsi persi e vuoti? Lei gli descriverà così il suo intimo:

 

ANNA

Come mi sentivo / estranea a me stessa! / Quasi mi fossi disabituata alle pareti del mio intimo - / era così pieno di Stefano / che senza di lui mi sembrava vuoto. / Ma non è forse una cosa terribile /condannare così le pareti del tuo intimo / a dare alloggio ad un unico abitante / che potrà sfrattarti /e comunque cacciarti via da questo posto?

 

Forse è per questa paura terribile che oggi i giovani non vogliono pronunciare quel “sì, per sempre” e il matrimonio cristiano è andato così - passatemi il termine - in disuso? La storia di Anna e Stefano sembra avvalorare questa incapacità dell’uomo a donarsi ad un’altra persona per tutta la vita (non è meglio una convivenza che lascia la porta socchiusa per un’eventuale fuga?).

Adamo ci spiega il perché di tutto questo.

 

ADAMO

La gente si lascia trascinare dall’amore come se fosse un assoluto, anche se mancano le misure dell’assoluto. La gente segue la propria illusione, senza cercare d’innestare questo amore nell’Amore che ha una tale misura. Non hanno neanche il sospetto di questa necessità perché sono accecati non tanto dalla forza del sentimento quanto dalla mancanza d’umiltà. È una mancanza d’umiltà verso quello che dovrebbe essere l’amore nella sua essenza. L’uomo ha a disposizione una esistenza e un amore - come farne un insieme che abbia senso? E poi questo insieme non può essere mai chiuso in se stesso. Deve essere aperto perché da un lato deve influire sugli altri esseri, dall’altro riflettere sempre l’Essere e l’Amore assoluto.

 

L’uomo deve giungere alla maturità nell’amore. Come fare?

La sensualità, l’attrazione sessuale, se considerata fine a se stessa e ridotta alla ricerca del mero piacere, implode e diventa sempre più insaziabile e inappagante; essa, in realtà, è un dono di Dio, che apre dinanzi a noi un cammino che conduce al mondo dell’affettività, dove il volto dell’amato diventa unico e prezioso. Ma i sentimenti sono ancora una tappa transitoria perché soggetti ai movimenti ondulatori dell’emotività e considerano l’amato partendo dai benefici che arreca la relazione con lui. Gli amanti che hanno ritenuto questa la tappa finale, sono convinti di aver toccato il settimo cielo dell’amore - invece non lo hanno sfiorato nemmeno. Ed è a questo punto che l’amore di Anna e Stefano si era fermato, sfibrandosi con il passare del tempo. L’amore non è forse un fatto di sensi e di una certa atmosfera?, aveva domandato Anna ad Adamo. No, l’amore è una sintesi di due esistenze / che convergono ad un certo punto / e da due diventano una sola. Adamo riuscirà, alla fine dell’opera, a risvegliare in loro il desiderio di impegnarsi nuovamente per crescere verso l’Amore.

Bisogna uscire dall’io per giungere all’altra persona, ci spiega bene Andrea parlandoci del suo amore per Teresa. Ed è proprio l’affermare il valore della persona, al di là delle emozioni, ad essere la via maestra per giungere all’Amore. E solo a questo punto che si è in grado di pronunciare il “per sempre” nell’amore, per proiettarsi insieme verso quel futuro che è colmo di mistero, ma anche di tanta fiducia in Dio.

Un teologo americano ha detto che il matrimonio umanamente parlando è impossibile, per questo necessitiamo del Sacramento: abbiamo bisogno della Grazia di Dio per giungere all’amore maturo. Solo Dio è l’Amore Assoluto che cerchiamo insaziabilmente e non il nostro partner, compagno e non mèta della nostra esistenza.

Adamo ci dice che la condizione fondamentale per comprendere nel profondo queste grandi verità, è l’essere umili e consapevoli della propria condizione di creature: con la Grazia apportata da Cristo e donata sacramentalmente agli sposi, si sovvertirà il peccato commesso dai nostri progenitori per ricreare quella primigenia immagine di unità umana in Lui.

Lo stupore è la cartina di tornasole dell’umiltà: “Questa è carne della mia carne e osso delle mie ossa!”, esclama, colmo di riconoscenza e di gioia, il primo uomo a Dio-Creatore che gli presenta colei che è una parte di sé (la ricordate, la famosa costola?) e destinata ad essere la compagna della sua vita.

E qui sorge spontanea una domanda: il matrimonio può finire?

 

ANNA

L’orefice guardò la vera, / la soppesò a lungo sul palmo, / mi fissò negli occhi e la pose sulla bilancia… / poi disse: «Questa fede non ha peso, / la lancetta sta sempre sullo zero / e non posso ricavarne nemmeno / un milligrammo d’oro. / Suo marito deve essere vivo - in tal caso / nessuna delle due fedi ha peso da sola / - pesano solo tutte due insieme. / La mia bilancia d’orefice / ha questa particolarità / che non pesa il metallo in sé / ma tutto l’essere umano e il suo destino».

 

(K. Wojtyla, stralci dalla seconda parte dell’opera Lo Sposo)

 

No, l’unione sacramentale del matrimonio non può finire, perché gli sposi sono fatti l’uno dell’altro e Dio ha posto nella loro unione il suo sigillo, intrecciando i fili che formano le loro tele. È solo camminando tenendo entrambi gli sguardi fissi in Lui che gli sposi vivranno nello stupore, riconoscendosi sempre dono di Dio l’uno per l’altro. Rifiutare tale dono è condannarsi all’infelicità, perché la sete d’Amore assoluto è parte di noi. Anna negli occhi dell’Orefice, legge questo avvertimento: Non devi mai scendere al di sotto del mio sguardo, / non devi scivolare in basso, / poiché il peso della tua vita / deve essere misurato sulla mia bilancia.

 

L’ultima coppia ad entrare nella bottega dell’orefice intreccia ed unisce le due precedenti: Monica, secondogenita di Anna e Stefano, e Cristoforo, il figlio che Teresa ebbe da Andrea poco prima che il marito morisse in guerra. Due giovani che vivono il loro amore impregnati dell’eredità dei loro genitori (non è così per ognuno di noi?): Monica, a causa della sofferenza dovuta alla crisi del matrimonio dei suoi genitori, aveva dubitato sulla capacità dell’amore umano di durare quanto la vita di un uomo, fino al suo incontro con Cristoforo: vicino a lui sentiva che tutto poteva essere diverso; Cristoforo invece imparò ad amare e a conoscere suo padre perché ancora vivo in Teresa; lui incarnava il loro amore sponsale.

 

TERESA

La nostra unione è sopravvissuta in Cristoforo. / Andrea non era morto in me, non è caduto su nessun fronte, / non doveva nemmeno tornare - era come fosse sempre lì. / Mio figlio cresceva - e in lui vedevo sempre più Andrea.

Monica e Cristoforo di nuovo rispecchiano in qualche modo / l’Essere e l’Amore Assoluto. / Creare qualcosa che rispecchi l’Essere e l’Amore assoluto è la cosa più straordinaria che esista!

Ma si campa senza rendersene conto.

 

(K. Wojtyla, stralci dalla terza e ultima parte dell’opera I figli)

 

L’eredità dell’amore dei genitori influisce sugli altri esseri, come ci spiegava bene Adamo, ma non determinerà invariabilmente la sorte di questo nuovo amore che nasce: Monica e Cristoforo sono pienamente responsabili di come si porranno dinanzi alla costruzione della loro nuova famiglia, e di come accoglieranno la Grazia sacramentale che li conduce alla pienezza della loro vocazione.

L’Artista divino, umilmente colmo di fiducia nell’uomo, inizia nuovamente il suo più grande capolavoro: intinge con determinazione il pennello nel colore dorato e, con una sola pennellata, traccia ed unisce per sempre due cerchi d’oro.

 

Anno XVI - 2012 - n° 2

 
 
Continua...
   

 

 

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