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Teologia |
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di suor Maria Teresa |
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La sessualità, sacramento di Dio
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"Perchè sono nudo"
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Alla ricerca di un volto
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"Scimmia" a chi?!?
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Gli anelli dell'orefice
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La
sessualità, sacramento di Dio
- prima parte
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La
sessualità è stata ed è considerata, in ogni tempo luogo
cultura, il grande tabù dell’uomo. Lungo il corso della
storia l’imbarcazione dell’umanità ha oscillato tra la sponda
della libertà più sfrenata e quella della rigidità più
schiavizzante, dimostrandosi incapace di praticare il corso di
questo fiume in modo armonico.
Giovanni
Paolo II si trovò ad affrontare queste acque già nei primi anni
di sacerdozio: i suoi studenti dell’Università Cattolica di
Lublino, infatti, esponendogli le loro perplessità e
confidandogli esperienze personali, lo spinsero a ricercare con
essi e per essi la verità sulla vocazione all’amore
umano; << essi stessi furono i miei educatori in tale
campo>> dirà anni più tardi. Il giovane professor Wojtyla era
consapevole che i suoi studenti non si sarebbero accontentati
delle solite e vuote risposte: essi sentivano in cuor loro che
quello che affermava la dottrina della Chiesa era vero, ma erano
incapaci di seguire delle norme senza conoscerne la motivazione
fondante, soprattutto dato che l’amore umano sembrava (e sembra)
affermare, in qualche modo, l’esatto contrario. Il giovane
sacerdote polacco spinto dall’amore e dal desiderio di aiutarli
e guidarli, iniziò una ricerca che sarebbe durata anni meditando
sulle concrete esperienze umane alla luce dalla Sacra Scrittura:
sapeva infatti che la Verità si sarebbe svelata solo scrutando
il disegno eterno di Dio sull’uomo.
Quando la
divina Provvidenza decise di porlo al timone di
quell’imbarcazione che conduce l’umanità, iniziò il ministero
pontificale partendo proprio dal frutto di quella ricerca: un
dono inestimabile per tutti i cristiani, dalla ricchezza
inaudita e profondamente liberatrice. Le catechesi del mercoledì
divennero per quattro anni il pulpito dal quale esporla
dettagliatamente. Una “rivelazione antropologica” in grado di
estirpare definitivamente dal pensiero moderno ogni egoismo
autodistruttivo e, dalla morale cattolica, ogni condanna
immotivata della sessualità umana.
Giovanni
Paolo II la chiamerà
“TEOLOGIA DEL CORPO”.
Per
comprendere l’intenzione originaria dell’Artista inizieremo dal
passo della Scrittura che narra allegoricamente la plasmazione
dell’uomo, la genesi del più grande capolavoro divino.
La creazione dell’uomo
Tutta la
creazione è un’emanazione dell’essenza stessa di Dio; ma è
l’umanità, l’Adam (nome collettivo che successivamente
indicherà l’uomo-maschio), a racchiudere in sé l’immagine e la
somiglianza divina. Quindi, per comprendere l’essere umano è
necessario conoscere la sua Fonte Creatrice.
Il nostro
Dio-Trinità è condivisione: le tre Persone divine sono dono
totale e reciproco l’una per l’altra. Il padre gesuita Marko
Ivan Rupnik, in un suo celebre libro sul discernimento ,
afferma: << La relazione di Dio nelle sue Persone santissime è
una comunicazione non solo nel senso che le Persone divine
comunicano tra loro, ma anzitutto nel senso che si comunicano
nell’amore reciproco donando se stesse nell’amore>>. Di
conseguenza anche l’essere umano si realizzerà veramente come
tale solo nella comunicazione totale di se stessi all’altro.
Il
Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle
sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente.
Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi
collocò l’uomo che aveva plasmato. Poi il Signore Dio disse:
<<Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che
gli sia simile>>. Allora il Signore Dio plasmò dal suolo ogni
sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo e li
condusse all’uomo […] ma l’uomo non trovò un aiuto che gli fosse
simile.
(Gen 2,
7.8, 18-20)
Troviamo in
questo passo della Genesi la prima angoscia esistenziale umana,
la solitudine: l’uomo, non trovando nella creazione “qualcuno
che gli sia pari”, non può realizzare questa donazione e sente
incompleto il suo stesso essere. Sarà ponendo la diversità
negli esseri umani che Dio completerà finalmente la sua opera
creatrice: solo nel dono di sé l’uomo può essere felice.
Yves Semens,
l’antropologo francese che in un suo bellissimo libro commenta e
riassume tutta la teologia del corpo, afferma a tal proposito:
<< è la capacità di
dono a conferirci la nostra dignità di persona. Soltanto
una persona è capace di darsi, ed è nel libero dono di sé che la
persona realizza ciò per cui è fatta. Ed è il corpo a chiamarci
al dono, con tutto ciò che include: la nostra affettività, la
nostra sensibilità, la nostra psicologia, la nostra sessualità,
il tutto specificato in maniera maschile o femminile. […] Noi
dunque non abbiamo un corpo che sarebbe come un residuo di quel
mondo animale di cui l’umanità costituirebbe lo stadio più
evoluto. Ma se il corpo lo vediamo alla luce delle origini,
secondo la narrazione della Genesi, allora capiamo che esso è
fatto per essere dono e perché noi realizziamo la nostra
vocazione profonda di essere a immagine di Dio nel dono dei
corpi, che esprime il dono di tutta la persona>>.
Nel
febbraio del 1980 Giovanni Paolo II rivela che <<il corpo è il
primordiale sacramento. Soltanto esso è capace di
rendere visibile ciò che è invisibile: lo spirituale e il
divino. Esso è stato creato per trasferire nella realtà visibile
del mondo il mistero nascosto dall’eternità in Dio, e così
esserne segno>>.
La creazione dell’“uoma”
Allora
il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si
addormentò.
(Gen 2, 21)
Dio fa
scendere sull’uomo un torpore profondo che, nella simbologia
biblica, rappresenta la morte stessa. L’Adam per uscire dalla
sua solitudine e vivere nella gioia della comunione dovrà prima
morire.
Possiamo
illuminare questo passo dell’Antico Testamento con le parole di
Gesù riportate nel Vangelo di Giovanni: Se il chicco di grano
caduto in terra non muore, rimane solo . Questa
morte-donazione di sé è anche la prima profezia della relazione
tra Cristo e la sua Chiesa. I Padri della Chiesa dicono infatti
che come dal sonno di Adamo nacque Eva così dal cuore trafitto
di Cristo nacque la Chiesa.
Gli
tolse una delle costole e richiuse la carne al suo posto. Il
Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una
donna e la condusse all’uomo.
(Gen 2,
22)
Prima di
questo “completamento” della creazione, quindi, l’Adam
era ancora un essere asessuato. La diversità e l’unione creata
da Dio viene descritta dagli autori sacri attraverso l’utilizzo
di un eufemismo, ossia un modo attenuato per designare una
realtà forte. L’organo genitale maschile è creato togliendo
dall’uomo stesso una “costola” e su di essa viene plasmato il
corpo femminile. I due corpi divengono così complementari e allo
stesso tempo incompleti se non si uniscono.
Nasce così il primo canto d’amore della storia:
<<Essa è
carne della mia carne e osso delle mie ossa.
La si
chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta>>.
(Gen 2, 23)
L’uomo (’ish
in ebraico) ora non è più solo e vede nella donna la
realizzazione del suo essere; la chiamerà, infatti, ’ishhà,
cioè “uoma”, se così possiamo dire. Riconosce quindi, in
lei, qualcuno che gli è pari in dignità, nonostante le
caratteristiche differenti.
Nel maggio
del 1984 Giovanni Paolo chiude il suo ciclo di catechesi con un
commento originale al Cantico dei Cantici. Lungo il corso
della storia questo libro della Bibbia è stato spesso al centro
di grandi discussioni, sia nell’ambito della fede cattolica che
in quella ebraica. San Bernardo, San Giovanni della Croce e
molti altri lo leggono in chiave puramente allegorica: vedono
simbolicamente rappresentato in esso il matrimonio mistico tra
Dio e l’anima. Secondo il Pontefice, invece, non si dovrebbe
mutilare il testo staccandolo dal suo significato letterale, ma
fondere entrambe le dimensioni, poiché esso è sì un testo sacro
ma anche sessuale.
Wojtyla
vede il Cantico come lo sviluppo di quell’esultanza di Adamo
quando incontra la sua donna ed entra in intima comunione con
lei, con la sua sposa. Lo considera come una tracca rivelata
dell’amore delle origini: una celebrazione dell’amore puro non
ancora contaminato dal peccato, che lascia chiaramente intuire
il vero senso della sessualità umana nell’intenzione divina.
“Io vi
scongiuro, figlie di Gerusalemme, non destate, non scuotete dal
sonno l’amata, finché non lo voglia”.
(Ct 2,
7; = 3, 5; = 8, 4)
Per ben tre
volte ritornano queste parole, che in bocca allo Sposo sembrano
quasi rivelare che il Cantico sia stato composto nel sonno
degli amanti, fuori delle pieghe del tempo. Questo sonno,
durante il quale gli sposi cantano la loro donazione e unione
totale, richiama quello di Adamo dove incontriamo Dio plasmatore
della sessualità umana, creatore della femminilità e maschilità,
garante della fusione nell’amore coniugale. Un sonno dell’unità
d’amore che non dovrebbe aver fine, affinché l’amore puro non
venga contaminato dall’egoismo del peccato.
Per
questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie e i due saranno una sola carne.
(Gen
2,24)
G. Von Rad,
un famoso studioso tedesco dell’Antico Testamento, ha sostenuto
l’ipotesi che saranno una sola carne non si riferisca
solo all’unità coniugale nell’atto sessuale, ma l’unica carne è
il bambino che nasce dai due.
La
solitudine dell’Adam è sconfitta; l’immagine e la somiglianza
del Dio Tre e Uno è ormai completa: il tempo della creazione
dell’Artista può cessare. <<Dio, in un certo senso, il settimo
giorno si ritira e sulla terra lascia l’uomo e la donna con il
loro amore, perché essi efficacemente siano capaci di far
continuare questa creazione opera delle sue mani>> (G.Ravasi).
Ora
tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano
vergogna.
(Gen
2,24 - 25)
In
definitiva possiamo dire che l’unione sessuale è quindi il
sacramento per eccellenza della Trinità di Dio (sacramento
inteso come simbolo che rimanda ad un’altra realtà). Quindi,
come mai l’atto più sublime d’amore e di donazione che l’uomo
possa compiere è divenuto nella storia la sua più grande
vergogna?
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Febbraio / Marzo 2010 - Anno XIV - n° 1
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“
Perchè sono nudo”
- seconda parte -
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Nell’articolo precedente abbiamo iniziato a riflettere sulla
genesi dell’umanità presentando il corpo (e in particolare
l’unione carnale dei coniugi) come il primordiale sacramento,
l’unico capace di rendere visibile ciò che è invisibile: lo
spirituale e il divino. Esso è segno nel mondo della Trinità di
Dio. Nella conclusione ci siamo posti una domanda che questa
volta diventa il nostro punto di partenza: come mai l’atto più
sublime d’amore e di donazione che l’uomo possa compiere è
divenuto nella storia la sua più grande vergogna?
La verità
sull’uomo la può svelare solo Colui che lo ha creato, quindi per
trovare la risposta alla nostra domanda ci rivolgeremo ancora
alla Sacra Scrittura fiduciosi che chi cerca trova e a chi
bussa sarà aperto.
(Mt 7,
7)
Nell’udienza del 12 settembre 1979 Giovanni Paolo II dichiarava:
<<La creazione dell’uomo si distingue essenzialmente, nella
descrizione biblica, dalle precedenti opere di Dio.
L’eccezionale dignità dell’uomo viene messa in rilievo dalla
“somiglianza” con Dio di cui è immagine>>. Infatti il Testo
Sacro distingue l’uomo dagli altri esseri viventi (animalia)
affermando che questi ultimi sono creati da Dio secondo la
loro specie, l’uomo invece a immagine e somiglianza
di Dio, quindi secondo “la specie divina”. Questa grandissima
differenza non dobbiamo relegarla unicamente alla dimensione
spirituale e razionale. È vero che l’uomo ha in comune con gli
altri esseri viventi la corporeità (la benedizione della
fecondità è infatti donata ad entrambi) ma anche in essa vi è
una grandissima differenza.
Dio
disse: << Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra
somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del
cielo, sul bestiame e su tutti i rettili che strisciano sulla
terra. Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo
creò; maschio e femmina li creò.
(Gen
1,26-27)
Solamente
per la creazione dell’Adam viene sottolineata la
differenza sessuale. Qui Dio benedice il vincolo delle persone,
la relazione, la loro unione. <<L’uomo diventa immagine di Dio
non tanto nel momento della solitudine quanto nel momento della
comunione. Egli, infatti, è fin “da principio” immagine di una
imperscrutabile divina comunione di Persone>> (udienza del 14
novembre 1979). Tutto questo viene confermato anche dal verbo al
plurale utilizzato dal Creatore (facciamo). Sant’Agostino
afferma che in questo momento è come se Dio “rientrasse in se
stesso” e, contemplando la sua essenza trinitaria, il suo essere
Amore Relazionale, plasmasse il suo più grande capolavoro. Data
questa sua natura, non si può comprendere fino in fondo l’uomo
(e la sua corporeità) partendo dagli animalia e né
ridurlo ad essi.
La libertà del Paradiso
Abbiamo già
iniziato a meditare sul secondo capitolo della Genesi
(limitandoci a quegli aspetti utili alla nostra ricerca) dove
viene descritto il giardino piantato ad Eden dal Signore per
porvi l’uomo. L’autore sacro specifica che al suo centro
(letteralmente “nella sua parte più interna/intima”) vi è
l’albero della Vita, simbolo di Dio, creatore e principio
dell’esistenza. L’albero, stendendo le sue radici nel suolo e i
suoi rami verso l’alto, rappresenta anche la comunione profonda
e vitale tra l’uomo (la terra) e Dio (il cielo). In ultima
analisi, l’albero è simbolo anche dell’uomo stesso che realizza
totalmente il suo essere persona: la sua identità è data
dall’unione con Colui che lo ha creato e il suo essere gode e si
nutre dei frutti dell’albero della Vita, quindi di Dio e del suo
eterno amore.
La Bibbia
di Gerusalemme intitola questo capitolo “La prova della
libertà. Il Paradiso”: l’amore per essere autentico e totale
richiede la libertà, che è la condizione per una
volontaria adesione alla reciproca donazione. Questo aspetto è
simboleggiato dalla presenza di un altro albero, quello della
conoscenza del bene e del male, cioè della conoscenza del tôb
e del rach. Dio definì tôb, cioè bello/buono, ogni
essere vivente da lui creato (usando il superlativo per
qualificare la creazione dell’umanità). È solo Dio l’autore
della creazione e fuori di lui vi è il nulla, il non-essere;
rifiutare la Sorgente della vita è andare inevitabilmente verso
la morte:
Tu
potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero
della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché
quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.
(Gen
2, 16-17)
L’uomo, lo
ricordiamo, non è solo “immagine” ma è anche “somiglianza”:
immagine è selem,
cioè “statua/forma”: l’uomo è la “statua/forma di Dio” che
visualizza in modo veritiero e perfetto l’essenza divina;
somiglianza è invece demût
e si riferisce a qualcosa che è analoga ad un’altra realtà ma
non ne è totalmente conforme. In altre parole, Dio offre
all’uomo il dono totale di se stesso e del suo amore, solo una
cosa non gli dona: essere lui stesso Dio.
Ed è
proprio su quest’unico limite che farà leva il serpente, il
nuovo personaggio che si presenta all’apertura del capitolo 3:
Il
serpente era la più astuta di tutte le bestie selvatiche fatte
dal Signore Dio. Egli disse alla donna: <<È vero che Dio ha
detto: Non dovete mangiare di nessun albero del giardino?>>.
(Gen
3,1)
Lo spirito
maligno, padre della menzogna (Gv 8,44), come un abile
avvocato accusatore formula un’astuta domanda alla donna
presentando consapevolmente una situazione non vera ma in grado
di porre in evidenza l’unico limite nell’unione tra Dio e
l’uomo. La risposta della donna dimostra che ha già iniziato a
deformarsi in lei la conoscenza della realtà e che la sua
fiducia nell’amore infinito di Dio sta vacillando:
Rispose
la donna al serpente: <<Dei frutti degli alberi del giardino noi
possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al
giardino Dio ha detto: Non ne dovete mangiare e non lo dovete
toccare, altrimenti morirete>>.
(Gen
3, 2-3)
La donna
nomina un unico albero posto al centro del giardino, quello
della Vita e della comunione con Dio; non solo dice che non se
ne può nutrire ma afferma, ormai tentata nel suo limite, di non
poterlo neanche avvicinare, toccare, svelando il suo desiderio
di possesso. Ormai il sospetto è entrato nel suo cuore e
il serpente non fa altro che dare l’ultimo tocco alla sua opera,
aprendo l’illusoria possibilità all’umanità di essere lei stessa
l’autrice e il principio della vita, di essere il suo dio e
creatore:
<<Non
morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si
aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo
il bene e il male>>. Allora la donna vide che l’albero era buono
da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare
saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche
al marito che era con lei, e anch’egli ne mangiò.
(Gen
3, 4-6)
E così
l’umanità si nutre del frutto dell’albero della Vita per
impossessarsene, non più per amore.
Scoprirà
ben presto che l’albero che ha scelto di essere, in realtà, è il
nulla, non esiste, è come pula che il vento disperde (Sal.
1, 4), semplicemente perché l’uomo non potrà mai essere Dio.
Fuori di quella comunione si crede e si considera “il centro del
giardino” e vi si pone nascondendosi da Colui che è la verità
del suo essere:
L’uomo
con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo
agli alberi del giardino. Ma il Signore chiamò l’uomo e gli
disse: <<Dove sei?>>. Rispose: <<Ho udito il tuo passo nel
giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono
nascosto>>.
(Gen 3,
8-10)
La nudità del serpente
Il serpente
era la divinità pagana, minaccia continua di idolatria per il
debole popolo d’Israele. La Genesi, al primo versetto del
capitolo terzo, lo presenta come la creatura più astuta,
sapiente (’arum). Il versetto precedente affermava che i
progenitori erano nudi (’arûmîm) e non se ne
vergognavano. L’autore sacro gioca qui con le parole per
rivelarci un significato più nascosto: il passaggio tra
l’innocenza delle origini (status naturae integrae) e la
caduta (status naturae lapsae) sono collegati da questi
due termini -sapienza e nudità- che hanno la stessa radice
ebraica.
Cosa può
significare che il serpente era la “più nuda” delle creature? La
nudità delle divinità pagane era simbolo della fecondità e della
vita. Il serpente si presenta quindi come l’alter-ego di Dio e
il suo vero volto si svela nella condanna impostagli da Dio dopo
l’inganno ai progenitori:
<<Sii tu
maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie
selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per
tutti i giorni della tua vita>>.
(Gen
3, 14)
L’albero
della conoscenza del bene e del male, simbolo di quella sapienza
che si contrappone alla Sapienza eterna, si manifesta come
illusione e pura menzogna: nutrirsi dei suoi frutti in realtà
equivale a nutrirsi di polvere (che senza il soffio vitale di
Dio è il nulla); ed è proprio quella polvere a diventare
l’alimento (la vita, quindi) del serpente. E in lui, il ventre,
luogo generativo per eccellenza, diventa sede della morte
eterna.
Ma l’uomo e
la donna non ricevono la stessa condanna dello spirito maligno.
L’Adam, infatti, è stato sì libero di scegliere se vivere
in comunione o no con il suo Creatore, ma non potrà mai
cancellare quello che è per natura: la “statua/forma di Dio”
potrà deformarsi e sfigurarsi nutrendosi di un albero che non è
la sua Vita, ma rimarrà sempre e comunque quella statua.
Quindi,
quali sono le conseguenze del peccato originale nei nostri
progenitori e, a partire da loro, in ogni uomo? L’autore sacro
ce le presenta con un versetto molto singolare:
Allora
si aprirono gli occhi di tutti e due e si accorsero di essere
nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
(Gen
3, 7)
In un primo
momento potrebbe sembrare che questa apertura degli occhi
avvalli la parola del serpente che insinuava la volontà divina
di celare la conoscenza e la libertà. Credo invece che la
spiegazione sia molto più profonda: abbiamo già detto che
l’uomo, a differenza degli altri esseri, è stato creato “secondo
la specie di Dio”. La sua identità è teocentrica: ha il
suo fulcro, la sua parte centrale (interna/intima), il suo
albero della vita in Dio (allora in un certo senso fuori di sé).
La vista è l’organo che permette la conoscenza del mondo
circostante, quindi fino a questo momento non ha avuto gli occhi
chiusi ma, conoscendo unicamente la bellezza (tôb),
contemplava la creazione con gli occhi divini… e Dio vide
che era cosa buona.
Questo
cambiamento nello sguardo è ben espresso nella poesia Genesi
di A. Rita Mazzocco, della quale riporto solo un passo:
Potendo
pensare se stessa
l’immagine si riconobbe
creata
libera.
Allora
Dio
le
dischiuse gli occhi
perché
s’inondassero di bellezza
e l’uomo
poté contemplare la verità
e
l’armonia era la sua verità.
Ma ecco
che tanta bellezza
piacque
all’uomo!
E mentre
il Superbo ne insidiava la mente
egli,
libero,
distolse
lo sguardo dal suo Creatore
per
rubarne il segreto,
sicuro
di contenerlo,
lui come
il solo
lui come
l’unico.
(Il
Cantico di Tommaso. Morlacchi, Perugia 2006)
Nutrendosi
dei frutti di quella conoscenza menzognera, l’uomo apre i suoi
occhi diventando il perno centrale della propria esistenza
(ego-centrico). In realtà il suo sguardo è deformato e reso
incapace di vedere realmente quello che è e quello che è
chiamato ad essere: passerà infatti dallo sguardo limpido e
veritiero sulla nudità vissuta in Dio (che gli permetteva di
conoscersi e donarsi totalmente nell’amore) all’egocentrica
“nudità del serpente” che lo porterà al nascondimento ed alla
paura dell’altro/Altro.
La cintura di foglie di fico
L’albero di
fico era una pianta molto diffusa nell’area mediterranea
orientale e, dato l’uso abbondante dei suoi frutti
nell’alimentazione, era considerato simbolo di fecondità e vita.
Con il
peccato il significato della nudità come apertura totale alla
relazione e alla donazione di sé viene radicalmente mutato.
L’uomo per la prima volta si nasconde, ponendo dinanzi ai segni
sessuali del suo corpo una cintura di foglie di fico (il primo
abito dell’umanità!), rivelando che questa capacità di comunione
totale del suo essere ha ormai una barriera e una protezione
invalicabili. Dall’amore sponsale dell’Eden era assente la cupa
ombra dell’egoismo e del possesso, ora invece anche la visione
sul proprio corpo è deformata. L’umanità si allontana dalla sua
altissima dignità divina e si pone allo stesso livello del resto
degli animalia.
<<Nell’opacità dello sguardo dell’uomo peccatore, che ha perso
la comunione divina, è la sessualità animale a diventare il
riferimento biologico della propria sessualità. Scoprono insomma
di poter venir “cosificati”. I segni corporali, che erano invito
al dono, diventano virtualmente dei mezzi d’appropriazione,
d’uso dell’altro. Per scongiurare questa minaccia, la prima
reazione è sottrarre quei segni allo sguardo dell’altro, ansiosi
di proteggersi e preservare qualcosa del significato originale
di quei segni, significato di cui pur resta, nel cuore dell’uomo
e della donna, come una lontana eco>> (Y. Semens, La
sessualità secondo Giovanni Paolo II). Karol Wojtyla, nel
capitolo dedicato alla metafisica del pudore del suo celebre
libro Amore e responsabilità, afferma: << Il pudore
sessuale non è altro che un riflesso dell’essenza della persona;
è una rivelazione del suo carattere sopra-utilitario. Il valore
della persona è strettamente legato alla sua inviolabilità, al
fatto di essere qualcosa di più di un oggetto di godimento. Il
pudore sessuale è un moto istintivo di difesa, che protegge il
valore della persona>>.
Possiamo
affermare che l’esigenza umana di indossare un indumento rivela
una grandissima verità: il nostro essere di “altra specie”. Il
vestito dichiara la vergogna e la paura della nostra natura
decaduta e, di conseguenza, la presenza in noi di un’impronta
della natura originaria “divina”.
Le torture
che lungo la storia gli uomini infliggevano venivano spesso
attuate facendo spogliare il condannato (come avvenne a Gesù
durante la sua Passione). Mi passano davanti alla mente numerose
immagini della storia del secolo scorso, come ad esempio quelle
dei campi di concentramento nazisti dove gli ebrei erano
denudati e trattati come animali; mossa psicologica diabolica
per impedire qualsiasi forma di reazione, renderli impotenti e
senza alcuna difesa.
L’indumento
manifesta il continuo tentativo di riconquistare la dignità
perduta con il peccato; questa nostra “seconda pelle” ha il
compito di plasmare, in qualche modo, la nostra immagine.
Possiamo quindi affermare che il corpo “protetto dal pudore” è
alla ricerca instancabile di raggiungere il suo vero
significato, la sua immagine divina, il suo essere tôb
(bellezza) ai propri occhi, a quelli dell’atro e agli occhi di
Dio.
Come dopo
il peccato è vietato l’accesso alla parte più intima del
giardino, custodita dai cherubini, così ogni Adamo porta
ontologicamente in sé un’intimità inviolabile e sacra custodita
dal pudore. E l’indumento diventa il simbolo del desiderio
umano di appartenere nuovamente a quell’Amore infinito ed
eterno.
Che cosa si
inventerà l’instancabile Tessitore della dignità umana per
rivestire nuovamente l’amata creatura della Sua bellezza?
Il
Signore Dio fece all’uomo e alla donna tuniche di pelli e li
vestì.
(Gen 3,
21)
Le chiavi
di accesso al giardino e al corpo dell’uomo, come vedremo,
saranno concesse unicamente all’amore.
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Febbraio / Marzo 2011 - Anno XV - n° 1
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Alla ricerca di un volto
- terza parte
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Per comprendere l’amore umano e
l’autentica esperienza di esso, Giovanni Paolo II parte
dalle parole di Gesù per tracciare un itinerario che,
rispondendo ad una domanda sul matrimonio, si richiama alla
Genesi e all’esperienza originaria dei nostri Progenitori:
Non avete letto che il Creatore da principio li creò
maschio e femmina e disse: Per questo l’uomo lascerà suo
padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno
una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne
sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo
separi (Mt 19, 4-6).
Il percorso indicato da Papa
Wojtyla è composto da tre tappe: la SOLITUDINE ORIGINARIA e
l’UNITA’ ORIGINARIA (che abbiamo già affrontato nella
prima parte della nostra rubrica, consultabile anche sul
nostro sito), e la NUDITA’ ORIGINARIA (seconda parte).
Rivediamo molto brevemente questa triade:
-
l’uomo è stato plasmato
ad immagine e somiglianza di Dio e non riconosce nel resto
del creato nessuno che gli sia simile;
-
solo con la creazione
della donna comprende di essere “per-sona” che, attraverso
la comunione con l’altro, è chiamata a realizzarsi nel
creato come immagine del Dio-Trinità, che è Amore;
-
l’uomo delle origini
accoglieva e comprendeva la totalità del proprio essere
(corpo e anima) e di quello dell’altro, alla luce
dell’autentico amore che è libertà, e non possesso.
Nei precedenti articoli abbiamo
anche meditato sulle conseguenze del peccato originale sulla
comprensione del’autentico significato del corpo e
dell’amore umano: il peccato ha deformato il nostro vero
volto, lasciando in noi una struggente nostalgia di
quell’essere a Sua immagine e somiglianza. Nostalgia ben
descritta da A. Rita Mazzocco in una poesia della raccolta
“Il Cantico di Tommaso”, intitolata Il senso della vita:
La solitudine per essere
diverso.
Per essere di questo mondo
ma non fatto per lui.
Ecco mio Dio il vero dramma
la piaga che non rimargina
la sconfinata malinconia che
mi consuma.
Come il mendicante porta nel
cuore
il suo dolore muto
e se ne va per le strade
della terra
così anch’io
vado errando alla ricerca di
un senso
per questa mia vita
per questa mia morte.
Ospite della mia tristezza
nello scoprire che tutto è
vanità
e che nulla può appagare la
mia sete
vado ripetendo a me stesso
che comunque l’uomo
è cosa molto buona.
Ma mentre mi struggo nello
sforzo
d’innamorarmi di questo
mondo
respiro l’esilio
e il ricordo perduto delle
radici.
E intanto di soppiatto viene
ad abitarmi
la coscienza d’aver capito
che il senso della mia vita
sta proprio nell’attesa
di poter ritornare a casa.
(Il Cantico di Tommaso.
Morlacchi, Perugia 2006)
L’autrice propone l’esperienza di
Tommaso come esperienza dell’uomo di tutti i tempi, nel quale la
ricerca del proprio volto è la ricerca della propria casa, della
propria sorgente vitale, del ricordo perduto delle radici.
L’allontanamento di Adamo ed Eva
dal giardino dell’Eden dopo il peccato, è la causa primaria di
questa nostalgia che alberga nel cuore di ogni Tommaso della
storia: l’uomo, fuori della dimora dove Dio lo aveva posto,
luogo di intimità e unione con l’altro/Altro - nella piena
consapevolezza di essere unico (“solo”), persona (“unito”),
libero (“nudo”) - porterà sempre con sé quel germe di desiderio
della casa del Padre.
Lo scrittore bavarese Patrick
Süskind nel suo romanzo Storia del signor Sommer (Ed.
Tea) ci propone la figura eccentrica del signor Sommer che ci
può aiutare a comprendere meglio questo desiderio ontologico.
Il signor Sommer era davvero fuori
del comune: camminava speditamente ogni giorno, da mattina a
sera, d’estate e d’inverno, lungo kilometri e kilometri di
strada. “Tutt’intorno al lago non c’era persona, uomo, donna o
bambino - anzi, neppure un cane -, che non avesse conosciuto il
signor Sommer. […] Con la neve o con la grandine, con la
tempesta o con la pioggia a catinelle, con il sole implacabile o
con un uragano in arrivo, il signor Sommer andava in giro”. Se
qualcuno gli domandava dove andasse o da dove venisse,
farfugliava qualcosa di incomprensibile, senza fermarsi. Ad un
certo punto “faceva dietro-front e ricominciava a correre verso
casa o verso qualche altra meta”.
Le sue marce interminabili
rimangono sullo sfondo e accompagnano le avventure del
protagonista del romanzo, presentate dall’autore in prima
persona, e proprio al protagonista capiterà un giorno di
assistere, nascosto tra i rami di un albero, ad una sosta
dell’instancabile viaggiatore: “si stese a terra in tutta la sua
lunghezza tra le radici come in un letto. Ma in quel letto non
trovò pace, perché, non appena fu disteso, emise un lungo,
doloroso sospiro […], un gemito, un lamento, un suono doloroso
che usciva dal profondo del cuore, frammisto di disperazione e
desiderio di sollievo. E poi fece udire per una seconda volta
quel rumore da far drizzare i capelli, quel gemito supplice come
di un malato torturato dal dolore”.
In questa ricerca insaziabile il
Tommaso del Cantico e il signor Sommer trovano il
loro punto d’incontro: l’essere come un mendicante che
porta nel cuore / il suo dolore muto / e se ne va per le strade
della terra. Un punto però che divergerà in direzioni
opposte: Tommaso colmerà il suo cuore di speranza comprendendo
il senso di questa ricerca, il signor Sommer, invece, si
suiciderà, sopraffatto dal suo dolore. Si dirigerà verso
l’interno di quel lago le cui rive aveva tante volte calpestato,
credendo forse di aver trovato l’unico modo per porre fine a
quella frenetica marcia.
Mi risuona alla mente la domanda di
Dio nel giardino dell’Eden, dopo la ribellione dei Progenitori:
“Adamo dove sei?”. Domanda che traduce in parole quella
nostalgia dei cuori umani: la nostalgia che in realtà è lo
strumento privilegiato di Dio per richiamarci alla piena
comunione con lui. La domanda di Dio è CHIAMATA ALL’AMORE perché
Dio è amore (1 Gv 4,8). È il dubbio su questa verità
dell’amore divino la causa dei tentennamenti e del peccato di
Eva alle parole del serpente (cfr. Gen 3,4-6), peccato che
condurrà l’umanità alla disperazione e alla morte. Solo
rispondendo a quella domanda d’amore con l’amore, usciremo da
questo circolo di sofferenza, ritrovando il nostro vero volto,
quella Imago Dei che è promessa di felicità.
Le tre esperienze originarie che
abbiamo prima ricordato, ci consentono di comprendere se stiamo
costruendo la nostra vita sul vero amore o su qualche suo
surrogato, e ci orientano nel labirinto delle esperienze umane.
Ma possiamo superare il muro apparentemente invalicabile del
peccato originale per rivivere queste esperienze di amore
autentico? Giovanni Paolo II fa notare che, in quella risposta
sul matrimonio, è Gesù stesso che si richiama al Principio, è
lui la Via che riapre l’accesso al giardino creduto perduto per
sempre: Cristo è venuto a restituirci quel volto. Per “volto”
non intendo solo la dimensione spirituale dell’uomo, perché
anche la dimensione corporale chiede di essere realizzata. Il
nostro corpo è unico ed irripetibile e racchiude in sé un
significato che va cercato, una vocazione che interpella, una
missione che chiede compimento.
Il corpo del signor Sommer
esprimeva, con quelle marce interminabili, questa ricerca di
senso. Così farà anche Dante Alighieri nella sua Divina
Commedia, compiendo con il suo corpo un viaggio ultraterreno
che, iniziato dall’Inferno, lo condurrà fino a Dio: quel
Dio-Trinità che parvemi tre giri di tre colori e d’una
contenenza. Un grande stupore ci invade quando scopriamo chi
vede Dante nel “circolo riflesso”, nel Figlio:
Quella circulazion, che sì
concetta
pareva in te come lume reflesso,
da li occhi miei alquanto
circunspetta,
dentro da sé, del suo colore
stesso,
mi parve pinta de la nostra
effige;
perché ’l mio viso in lei tutto
era messo.
(Paradiso - Canto XXXIII,
v. 128-132)
In Dio Dante, Tommaso, il signor
Sommer incontrano finalmente, come riflesso in uno specchio - o
in un lago che sia - la meta sospirata nel lungo viaggio: il
loro vero volto.
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Aprile / Maggio 2011 - Anno XV - n° 2
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"Scimmia"
a chi?!?
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quarta parte
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<<Non c’è mai stata
un’epoca in cui l’uomo era un animale perché non c’è mai stata
una mucca con pantaloni e stivali>>. Questa grande verità
ironicamente affermata dallo grande scrittore cattolico G. K.
Chesterton, riassume brevemente i passi già compiuti nel nostro
studio sulla teologia del corpo. A commento delle sue parole vi
ripropongo alcuni stralci di articoli precedenti (tutti
consultabili nel nostro sito):
·
Noi non
abbiamo un corpo che sarebbe come un residuo di quel mondo
animale di cui l’umanità costituirebbe lo stadio più evoluto.
·
La Genesi
distingue l’uomo dagli altri esseri viventi (animalia)
affermando che questi ultimi sono creati da Dio “secondo la loro
specie”, l’uomo invece, a “immagine e somiglianza di Dio”,
secondo la “specie divina” […]. Data questa sua natura non si
può comprendere l’uomo fino in fondo (e la sua corporalità)
partendo dall’animalia e né ridurlo ad essa.
·
L’esigenza
umana -e solo umana- di indossare un abito rivela una
grandissima verità: il nostro essere di “altra specie” […]. Il
vestito dichiara la vergogna e la paura della nostra natura
decaduta e, di conseguenza, la presenza di un’impronta della
natura originaria divina.
Chi di noi non ha mai
sentito tra i banchi di scuola parole come “evoluzione”,
“casualità”, “selezione naturale”? Tutti ricorderemo la
simpatica giraffa che tenta, lungo il corso di milioni di anni,
di allungare il suo collo per raggiungere il nutrimento tra i
rami più alti e, tra le tante immagini che coloravano il nostro
libro di scienze, ricorderemo anche il classico disegno, in
stile metamorfosi kafkiana, della scimmia-uomo. Queste parole e
queste immagini sono legate alla teoria dell’evoluzione
biologica, espresse per la prima volta nel 1859 da Charles
Robert Darwin nel suo The Origin of Species, opera che il
naturalista britannico scrisse dopo aver studiato le somiglianze
e le differenze tra le diverse specie di animali nei paesi del
Sud America, visitati con la nave Beagle. Pochi sanno però che
quella dell’evoluzione (che Darwin chiamava trasmutazione) non è
una teoria scientifica, se per scienza intendiamo quella
disciplina ancorata ad una attività intellettuale rigorosa che
si fonda su basi di verità obbiettiva. L’unico metodo
riconosciuto dalla comunità internazionale degli scienziati è
quello galileiano, che corrisponde al primo dei tre livelli di
credibilità scientifica. Li elenco brevemente:
- il primo livello è
quello delle prove riproducibili (se voleste imitare Galileo
Galilei nel far cadere dalla torre di Pisa -o, con le dovute
precauzioni, dal balcone di casa vostra- un pezzo di legno e un
pezzo di piombo, otterrete i suoi stessi risultati,
sperimentando che corpi di massa differente toccano il suolo
nello stesso istante);
- il secondo livello
si ha quando non si possono studiare gli eventi sotto controllo
diretto (es. l’evoluzione stellare);
- il terzo livello,
invece, corrisponde alla serie di fenomeni che accade una sola
volta.
La teoria
dell’evoluzione biologica si troverebbe perfino al di sotto del
terzo livello di credibilità scientifica perché troppi anelli
mancanti, scomparse improvvise e sviluppi miracolosi, costellano
in realtà l’evoluzione della vita sulla terra.
Prima del Cambiano
(il periodo che intercorre tra 542 e 490 milioni di anni fa) non
vi sono resti fossili; all’inizio di esso, invece, se ne
attestano almeno 500 specie, appartenenti a sette tipi diversi,
senza traccia di antenati né di specie intermedie. E poi… come
si è evoluta la materia inorganica per trasformarsi in materia
portatrice di vita (vita che senza risultati gli scienziati
tentano di riprodurre in laboratorio)? Mai sono stati trovati
fossili di giraffe a collo “mezzo-lungo” e soprattutto, come
spiegare la nascita della ragione umana (con il cosiddetto
Big-Bang neurologico) dato che non esistono esseri dotati di
“mezza-ragione”?
Troppe domande senza
risposta per essere ritenuta scientifica una teoria e presentata
nella maggior parte delle nostre scuole come realtà obbiettiva e
certa.
E per chi ribatte
affermando che il codice genetico della scimmia è molto simile a
quello dell’uomo, sappia anche che non differisce di tanto
neanche da quello del topo e di tanti altri esseri viventi.
Antecedentemente si supponeva che il DNA contenesse tutte le
informazioni che riguardano l’individuo, oggi invece sappiamo
che, per comprendere la sua funzione, sarebbe meglio paragonarlo
alle lettere dell’alfabeto, con le quali possiamo scrivere una
poesia o un trattato scientifico: utilizzando le stesse lettere
posso cambiare radicalmente forma, contenuto, finalità di un
testo. Quindi non è il DNA il principale differenziatore delle
diverse specie degli esseri viventi, ma il modo in cui esso
viene letto. Non siamo simili al topo (per fortuna!) perché le
molecole che regolano il linguaggio genetico si comportano in
modo molto differente da specie a specie e perfino da individuo
a individuo.
Darwin sosteneva
inoltre che l’evoluzione seguiva il gioco cieco del caso e della
necessità, negando così che l’ordine naturale fosse il risultato
di un disegno divino e provvidenziale, escludendo che i processi
naturali avvengano per un fine, per uno scopo soprannaturale e
superiore. Pochi sanno che del suo trattato sulle origini vi è
anche una prima redazione, nella quale il naturalista non
escludeva l’esistenza di Dio; solo in un secondo momento Darwin
eliminerà ogni riferimento al Creatore, influenzato dal potere
politico e soprattutto dal dolore per la morte prematura
dell’amata figlia Annie, dolore che lo portò a dubitare sulla
finalità positiva dell’intera creazione e lo allontanò
gradualmente dalla sua fede.
San Tommaso d’Aquino,
invece, afferma che le cose naturali corporee, che di per sé non
hanno conoscenza, agiscono in maniera finalizzata per
raggiungere ciò che è bene per loro. Esse raggiungono il loro
fine non per caso, ma intenzionalmente. Però non lo raggiungono
a partire dalla propria intenzione, bensì da quella di un ente
conoscente, che le dirige verso il fine come un arciere la
freccia ( cfr. Summa theologiae q. 2, a. 3). Per spiegare
questo concetto utilizzerà anche la metafora della nave: <<come
se il costruttore di una nave potesse fornire ai pezzi di legno
la capacità di muoversi da sé per la produzione della forma
della nave>>.
Per quanto riguarda
la vita umana, invece, vorrei riportare un’affermazione semplice
e chiara che Benedetto XVI fece, durante la sua prima omelia da
Pontefice, in piazza S. Pietro: << Non siamo il prodotto casuale
e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è pensato, voluto
e amato da Dio>>.
La scienza
galileiana, quella di primo livello, ci permette invece di
comprendere che non siamo figli della casualità, ma di una
logica rigorosa. Il grande fisico siciliano Antonino Zichichi
chiarisce scientificamente questa verità: << Chi ha fatto il
mondo, meglio di così non avrebbe potuto. Il mondo che ci
circonda, dalle sue strutture più piccole - qual è il cuore di
un protone - alle sue estensioni più vaste - quali sono gli
insieme galattici - obbedisce alle stesse leggi, rigorose e
immutabili. […] La teoria dell’evoluzione biologica della specie
umana, pur essendo priva oggi di qualsiasi struttura matematica,
potrebbe un giorno divenire non certo una teoria fondamentale,
ma una delle innumerevoli applicazioni che si possono dedurre
dalle Leggi fondamentali della natura >> (A. Zichichi, Perché
io credo in Colui che ha fatto il mondo).
La Fisica in
quattrocento anni, dalla sua nascita con Galilei fino ad oggi,
ha fatto veramente passi da gigante, studiando e verificando con
rigore matematico e logico queste Leggi fondamentali. E se in
futuro l’uomo riuscirà a comprendere le sue origini biologiche,
non potrà che scoprire che esse sono conformi a quel
meraviglioso ordine posto da Colui che ha fatto il mondo.
Credo che la teoria
evoluzionistica si sia radicata nella cultura odierna
principalmente per due motivazioni. Innanzitutto a causa della
strumentalizzazione che subì questa teoria, con la conseguente
nascita del cosiddetto “darwinismo sociale”; basti pensare al
marxismo che fece leva sulle prove inconfutabili (?) della non
esistenza di Dio, o all’ideologia nazista per quanto riguarda la
selezione naturale. Vi riporto un passo di un'altra opera di
Darwin, The Origin of man (1871), dove il suo pensiero,
elaborato sicuramente con finalità scientifiche è -
evidentemente - facilmente manipolabile: <<L’uomo potrebbe,
mediante la selezione, fare qualcosa non solo per la
costituzione somatica dei suoi figli, ma anche per le loro
qualità intellettuali e morali. I due sessi dovrebbero star
lontano dal matrimonio, quando sono deboli di mente e di corpo,
ma queste speranze sono utopie, e non si realizzeranno mai,
neppure in parte, finché le leggi dell’ereditarietà non saranno
completamente conosciute. Chiunque coopererà in questo intento
renderà un buon servigio all’umanità>>. E il primo
“collaboratore” fu proprio il cugino di Darwin, lo scienziato
britannico Francis Galton (1822-1911), che sviluppò la teoria
della selezione della razza attraverso l’eugenetica che oggi,
come purtroppo sappiamo, è ritornata molto in voga (per chi non
lo sapesse, l’eugenetica è quella branca della genetica che
studia il patrimonio genetico umano per migliorarlo, anche
attraverso l’eliminazione o la sterilizzazione di portatori di
tare).
Come
seconda motivazione vorrei additare la nostra indolenza:
una teoria che risponde così facilmente alla domanda
sull’origine umana e che non cambia né interpella il mio vissuto
(come può invece fare l’impegnativa verità cristiana), fa
davvero comodo.
Anche se la teoria
evoluzionistica riuscisse a fornire prove scientifiche sulla sua
validità, questo non scalfirebbe affatto la grande verità che
Chesterton affermava in quella frase sulla mucca con gli
stivali. Infatti, una evidentissima linea di demarcazione separa
l’uomo da tutti gli altri esseri viventi, perché <<l’uomo - per
dirla ancora con parole del grande scrittore inglese - è una
rivoluzione, non una evoluzione>>. Ed anche se ponessimo
all’origine del corpo dell’uomo una scimmia, potremmo con
certezza affermare che quando era scimmia l’uomo non era affatto
uomo. Né divenuto uomo può essere considerato discendente dalle
scimmie dato che, ripetiamolo, l’uomo non è una evoluzione, ma
una rivoluzione di tutto il creato. Ed è anche partendo da
questa consapevolezza sull’ “immensamente altro” della natura
umana che nasce l’etica cristiana. Nei prossimi articoli,
infatti, ci impegneremo a comprendere come l’uomo è chiamato a
vivere in ogni stato della sua preziosissima esistenza alla luce
della teologia del corpo e dell’Amore, vero fine e realizzazione
dell’essere umano.
Concludendo, vorrei
chiarire una cosa per evitare di essere fraintesa: la finalità
di questo articolo non è quello di fornire una risposta alla
domanda fondamentale sull’origine dell’uomo. Anche perché, dal
punto di vista scientifico, la risposta non è stata ancora
trovata. Il libro della Genesi ha donato ai nostri quesiti
risposte teologiche, non scientifiche: gli Autori sacri non
avevano alcun interesse a scrivere un trattato di scienze. Penso
di aver voluto scrivere questo articolo principalmente per
accendere, in chi lo legge, il desiderio di conoscere,
perché vuote risposte mai soddisferanno la sete di verità
racchiusa nel nostro cuore; solo inoltrandoci nella vera
conoscenza potremo contemplare il volto di Dio, Sapienza eterna.
Dio è il Logos, la Ragione, afferma il Vangelo di San Giovanni.
E se il nostro Creatore ci ha donato una scintilla di questa
Ragione, noi possiamo e dobbiamo raggiungere la Sua Verità.
Termino evidenziando
un aspetto certamente esatto della teoria evoluzionistica: il
concetto di evoluzione: concetto, vorrei evidenziarlo,
prettamente cristiano. Su questo tema si potrebbe scrivere un
altro accurato articolo, ma lascio il compito a chi vorrà
approfondire questa grande verità storica, culturale, teologica,
filosofica e persino scientifica. A proposito vorrei solo citare
San Paolo che afferma, con straordinaria chiarezza e
lungimiranza: La creazione attende con impazienza la
rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa
alla caducità - non per suo volere, ma per volere di colui che
l’ha sottomessa - e nutre la speranza di essere lei pure
liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella
libertà della gloria dei figli di Dio (Rm 8, 19-21). Ecco la
verità: non ex-scimmie sballottate per caso nell’esistenza ma
figli di Dio, destinati ad un fine di gloria al quale
condurre l’intero universo.
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Anno XV - 2011 - n° 3
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Gli anelli dell'orefice
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quinta parte
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Ad ogni persona
che è esistita, esiste ed esisterà su questa terra, Dio ha
donato un disegno da realizzare; la vita di ogni essere umano è
infatti una tela bianca che, se docile all’azione del pennello
dell’Artista, vedrà compiersi in sé quell’opera d’arte che è
promessa di felicità.
Se tutto è così
semplice, come mai la storia dell’umanità abbonda di opere
d’arte incompiute? L’inizio della nostra infelicità risale alla
preistoria teologica
(così la definiva Giovanni Paolo II), quando quell’uomo che ci
racchiude tutti, l’Àdam, non ebbe fiducia nel suo Creatore e
volle superbamente prendere il suo posto, riuscendo solo a
rendere la propria vita un complicato - e perfino inutile -
scarabocchio.
Dove sei?
(Gen 3,9) domanda Dio ad ogni Adamo della storia, chiamandolo ad
instaurare nuovamente il rapporto con Lui; e se
Dio è Amore
(1 Gv 4,8), allora definirei quella domanda
la chiamata all’amore.
Tutto di noi ci rivela questa verità ontologica dell’uomo. Le
fibre della nostra tela bianca richiedono infatti di essere
tinte con i colori dell’amore: fin da bambini necessitiamo di
godere dell’amore dei nostri genitori, degli amici; da adulti,
desideriamo assaporare quell’amore con un altro essere umano per
poi donarlo anche alle nuove vite che quell’amore sponsale
plasmerà.
La mèta di ogni
uomo è quindi comune, ma la via per raggiungerla è per ognuno di
noi unica ed irripetibile. L’unicità di quell’opera d’arte è
rivelata visibilmente anche dal nostro corpo, anch’esso unico ed
irripetibile in tutta la storia dell’umanità. Queste
innumerevoli “vie” per raggiungere la mèta che è Dio-Amore
(tante quanti sono stati, sono e saranno gli esseri umani),
possiamo suddividerle in due grandi autostrade: quella della
vocazione alla consacrazione matrimoniale e quella della
vocazione alla consacrazione religiosa: suddivisione sommaria e
non esauriente, data l’esistenza di tante altre vocazioni
particolari.
In questa quinta
parte della nostra rubrica ci occuperemo dell’autostrada “più
praticata”, quella della chiamata a vivere la vita matrimoniale,
cioè ad instaurare il rapporto con Dio attraverso l’amore da
vivere e costruire con un altro essere umano.
Vorrei partire
con una domanda: il nostro alter-ego, la cosiddetta “anima
gemella”, esiste? Siamo esseri destinati a conoscersi e
avvicinarsi sballottati dalla casualità degli eventi, o vi è un
disegno più profondo che guida a far incontrare due strade
differenti e renderle un tutt’uno? Se tutto quello che abbiamo
detto fino ad ora è vero (l’essere chiamati a realizzare una
vocazione precisa, unica ed irripetibile, nata insieme a noi
dalle mani del Creatore) vuol dire che la risposta è:
sì,
esiste al mondo una persona donatami da Dio come compagna in
questa avventura chiamata vita. Persona che non ci verrà mai
incontro favolisticamente, vestita d’azzurro in groppa ad un
cavallo bianco, ma che la Provvidenza Divina affiancherà a noi,
chiedendoci di accoglierla con le sue povertà e fragilità per
crescere insieme.
Quindi dovremmo
vagare per il mondo intero alla ricerca di questa persona? No,
non credo proprio. Il compito della tela è quello di affidarsi a
Dio. Sarà Lui, Dio-Provvidente, a guidarci; quanto più a Lui ci
abbandoneremo (mi riferisco ad un abbandono attivo e
responsabile e non ad uno passivo e indolente) tanto più potremo
compiere la sua volontà che, come detto, è promessa di felicità.
Come riconoscere quest’anima gemella? Se quel disegno è
inscritto nel profondo di ognuno di noi, allora saremo in grado
di riconoscere i tratti del suo volto ascoltando il nostro cuore
in sincerità e verità.
ANDREA
Sono arrivato a Teresa per vie assai lunghe, non l’ho trovata
subito. / Forse non so neanche cosa voglia dire «l’amore a prima
vista». / Passato qualche tempo mi sono accorto che non usciva
più dal cerchio della mia attenzione; / evidentemente Teresa
aveva qualcosa che concordava con la mia personalità. / Non
cedevo solo all’impressione e all’incanto dei sensi / perché in
tal caso non sarei stato in grado di uscire dal mio io / e di
giungere all’altra persona. Questo non era facile. / Perché i
miei sensi ad ogni passo si nutrivano / del fascino delle donne
incontrate. / Ma quando talvolta cercavo di seguirle / trovavo
solamente isole deserte. / E così ho imparato man mano ad
apprezzare la bellezza / percepibile con la ragione, cioè la
verità. / Allora ho deciso di cercare una donna che fosse capace
di essere il mio alter ego, /affinché il ponte gettato tra noi
due / non diventasse una passerella vacillante tra canne e
ninfee. / Ho incontrato già qualche ragazza che ha colpito la
mia immaginazione / e ha riempito i miei pensieri - ma proprio
nei momenti / in cui mi pareva di essere più impegnato / mi
accorgevo d’un tratto che solo Teresa era presente nella mia
mente, nel mio ricordo / era lei la pietra di paragone con le
altre. / Tremo solamente pensando come era facile / perderla,
allora. / Mi rifiutavo di accettare quello / che oggi mi sembra
il dono più prezioso. / Oggi vedo che il mio mondo è anche il
suo. / Eppure sognavo soltanto di gettare un ponte.
Karol Wojtyla pubblicò nel 1960
un’opera teatrale (da cui è tratto il brano sopra riportato)
intitolata La Bottega
dell’orefice, opera che è
il frutto letterario delle sue profonde meditazioni
sull’amore umano e sulla relazione sponsale. Teresa e Andrea
sono i primi protagonisti che, intorno alla bottega
dell’orefice, ci svelano le loro vite. Andrea ha appena posto a
Teresa una domanda meditata a lungo:
Vuoi essere la compagna della mia vita?
Da tempo aveva compreso che i rapporti basati sull’incanto
dei sensi
erano come una
passerella vacillante tra canne e ninfee,
prendendo così la risoluzione di cercare il suo alter-ego.
Pensava semplicemente di
gettare un solido
ponte tra
lui e Teresa, ma incredibilmente scopriva che lei - e solo lei -
era già una parte di sé:
oggi vedo che il mio mondo è anche il suo.
I due giovani si sono impegnati a districare
la complicata mappa dei richiami e dei segni inscritti nei
loro cuori e hanno compreso la
bellezza
della
verità:
l’esistenza dell’uomo ha senso solo nell’impegno della
realizzazione di quell’opera d’arte. Entrando nella bottega i
due giovani hanno deciso di unirsi “per sempre”; sarà l’orefice,
che rappresenta Dio stesso, a suggellare la loro unione.
TERESA
Guardammo poi a lungo, insieme, / la vetrina dell’orefice. / Là,
negli astucci / foderati di velluto / brillavano dei gioielli. /
Tra gli altri - anche fedi nuziali. / Le guardammo un attimo
zitti, zitti. / Le fedi che stanno in vetrina / ci dicono
qualcosa con estrema fermezza. / Serviranno ad unirci
invisibilmente / come gli anelli estremi di una catena. / Non
siamo entrati subito. Il simbolo prese la parola.
ANDREA
L’orefice ci guardò a lungo negli occhi. / «Il peso di queste
fedi d’oro / - così disse - non è il peso del metallo. / Questo
è il peso specifico dell’essere umano, / di ognuno di voi e di
voi due insieme». / Il futuro è per noi ignoto, ma lo accettiamo
senza perplessità. L’amore ha vinto ogni perplessità. L’amore
determina il futuro.
(K. Wojtyla,
La bottega dell’orefice,
stralci dalla prima parte dell’opera
I richiami)
Sulla vetrina
della bottega vediamo ora riflessa un’altra coppia: Anna e
Stefano, da anni moglie e marito. O meglio, vi vediamo solo il
volto di Anna, che ha deciso di recarsi dall’orefice per vendere
la sua fede nuziale: le era
diventata inutile,
racconterà ad Adamo, una nuova figura che, affiancandosi ai vari
personaggi, cercherà di aiutarli a guardarsi nella verità e a
realizzare quella chiamata all’amore. Lei e suo marito Stefano
vivono, infatti, un periodo di profonda crisi e grande
sofferenza: una crepa fatta di incomprensioni e indifferenza si
è creata nel loro matrimonio.
Adamo rimane
stupito della fragilità dell’amore umano, della diffusa
incapacità di percorrere quella via dell’amore; comprende che
per Anna uscire dalla
propria strada
equivale ad uscire dalla propria tela. Ma si può vivere fuori da
se stessi senza sentirsi persi e vuoti? Lei gli descriverà così
il suo intimo:
ANNA
Come mi sentivo / estranea a me stessa! / Quasi mi fossi
disabituata alle pareti del mio intimo - / era così pieno di
Stefano / che senza di lui mi sembrava vuoto. / Ma non è forse
una cosa terribile /condannare così le pareti del tuo intimo / a
dare alloggio ad un unico abitante / che potrà sfrattarti /e
comunque cacciarti via da questo posto?
Forse è per
questa paura
terribile che oggi i
giovani non vogliono pronunciare quel “sì, per sempre” e il
matrimonio cristiano è andato così - passatemi il termine - in
disuso? La storia di Anna e Stefano sembra avvalorare questa
incapacità dell’uomo a donarsi ad un’altra persona per tutta la
vita (non è meglio una convivenza che lascia la porta socchiusa
per un’eventuale fuga?).
Adamo ci spiega
il perché di tutto questo.
ADAMO
La gente si lascia trascinare dall’amore come se fosse un
assoluto, anche se mancano le misure dell’assoluto. La gente
segue la propria illusione, senza cercare d’innestare questo
amore nell’Amore che ha una tale misura. Non hanno neanche il
sospetto di questa necessità perché sono accecati non tanto
dalla forza del sentimento quanto dalla mancanza d’umiltà. È una
mancanza d’umiltà verso quello che dovrebbe essere l’amore nella
sua essenza. L’uomo ha a disposizione una esistenza e un amore -
come farne un insieme che abbia senso? E poi questo insieme non
può essere mai chiuso in se stesso. Deve essere aperto perché da
un lato deve influire sugli altri esseri, dall’altro riflettere
sempre l’Essere e l’Amore assoluto.
L’uomo deve
giungere alla maturità nell’amore. Come fare?
La sensualità,
l’attrazione sessuale, se considerata fine a se stessa e ridotta
alla ricerca del mero piacere, implode e diventa sempre più
insaziabile e inappagante; essa, in realtà, è un dono di Dio,
che apre dinanzi a noi un cammino che conduce al mondo
dell’affettività, dove il volto dell’amato diventa unico e
prezioso. Ma i sentimenti sono ancora una tappa transitoria
perché soggetti ai movimenti ondulatori dell’emotività e
considerano l’amato partendo dai benefici che arreca la
relazione con lui. Gli amanti che hanno ritenuto questa la tappa
finale, sono
convinti di aver toccato il settimo cielo dell’amore - invece
non lo hanno sfiorato nemmeno. Ed è a questo
punto che l’amore di Anna e Stefano si era fermato, sfibrandosi
con il passare del tempo.
L’amore non è forse un fatto di sensi e di una certa atmosfera?,
aveva domandato Anna ad Adamo.
No,
l’amore è una sintesi di due esistenze / che convergono ad un
certo punto / e da due diventano una sola.
Adamo riuscirà, alla fine dell’opera, a risvegliare in loro il
desiderio di impegnarsi nuovamente per crescere verso l’Amore.
Bisogna
uscire dall’io per giungere all’altra persona,
ci spiega bene Andrea parlandoci del suo amore per Teresa. Ed è
proprio l’affermare il valore della persona, al di là delle
emozioni, ad essere la via maestra per giungere all’Amore. E
solo a questo punto che si è in grado di pronunciare il “per
sempre” nell’amore, per proiettarsi insieme verso quel futuro
che è colmo di mistero, ma anche di tanta fiducia in Dio.
Un teologo
americano ha detto che il matrimonio umanamente parlando è
impossibile, per questo necessitiamo del Sacramento: abbiamo
bisogno della Grazia di Dio per giungere all’amore maturo. Solo
Dio è l’Amore
Assoluto
che cerchiamo insaziabilmente e non il nostro partner, compagno
e non mèta della nostra esistenza.
Adamo ci dice
che la condizione fondamentale per comprendere nel profondo
queste grandi verità, è l’essere umili e consapevoli della
propria condizione di creature: con la Grazia apportata da
Cristo e donata sacramentalmente agli sposi, si sovvertirà il
peccato commesso dai nostri progenitori per ricreare quella
primigenia immagine di unità umana in Lui.
Lo
stupore è
la cartina di tornasole dell’umiltà: “Questa è carne della mia
carne e osso delle mie ossa!”, esclama, colmo di riconoscenza e
di gioia, il primo uomo a Dio-Creatore che gli presenta colei
che è una parte di sé (la ricordate, la famosa costola?) e
destinata ad essere la compagna della sua vita.
E qui sorge
spontanea una domanda: il matrimonio può finire?
ANNA
L’orefice guardò la vera, / la soppesò a lungo sul palmo, / mi
fissò negli occhi e la pose sulla bilancia… / poi disse: «Questa
fede non ha peso, / la lancetta sta sempre sullo zero / e non
posso ricavarne nemmeno / un milligrammo d’oro. / Suo marito
deve essere vivo - in tal caso / nessuna delle due fedi ha peso
da sola / - pesano solo tutte due insieme. / La mia bilancia
d’orefice / ha questa particolarità / che non pesa il metallo in
sé / ma tutto l’essere umano e il suo destino».
(K. Wojtyla,
stralci dalla seconda parte dell’opera
Lo Sposo)
No, l’unione
sacramentale del matrimonio non può finire, perché
gli sposi sono fatti l’uno dell’altro
e Dio ha posto nella loro unione il suo sigillo, intrecciando i
fili che formano le loro tele. È solo camminando tenendo
entrambi gli sguardi fissi in Lui che gli sposi vivranno nello
stupore, riconoscendosi sempre
dono di
Dio l’uno per l’altro. Rifiutare tale dono è condannarsi
all’infelicità, perché la sete d’Amore assoluto è parte di noi.
Anna negli occhi dell’Orefice, legge questo avvertimento:
Non devi mai scendere al di sotto del mio sguardo, / non devi
scivolare in basso, / poiché il peso della tua vita / deve
essere misurato sulla mia bilancia.
L’ultima coppia
ad entrare nella bottega dell’orefice intreccia ed unisce le due
precedenti: Monica, secondogenita di Anna e Stefano, e
Cristoforo, il figlio che Teresa ebbe da Andrea poco prima che
il marito morisse in guerra. Due giovani che vivono il loro
amore impregnati dell’eredità
dei loro genitori (non è così per ognuno di noi?): Monica, a
causa della sofferenza dovuta alla crisi del matrimonio dei suoi
genitori, aveva dubitato sulla capacità dell’amore
umano di durare quanto la vita di un uomo,
fino al suo incontro con Cristoforo: vicino a lui sentiva che
tutto poteva essere diverso; Cristoforo invece imparò ad amare e
a conoscere suo padre perché ancora vivo in Teresa; lui
incarnava il loro amore sponsale.
TERESA
La nostra unione è sopravvissuta in Cristoforo. / Andrea non era
morto in me, non è caduto su nessun fronte, / non doveva nemmeno
tornare - era come fosse sempre lì. / Mio figlio cresceva - e in
lui vedevo sempre più Andrea.
Monica e Cristoforo di nuovo rispecchiano in qualche modo /
l’Essere e l’Amore Assoluto. / Creare qualcosa che rispecchi
l’Essere e l’Amore assoluto è la cosa più straordinaria che
esista!
Ma si campa senza rendersene conto.
(K. Wojtyla,
stralci dalla terza e ultima parte dell’opera
I figli)
L’eredità
dell’amore dei genitori
influisce sugli altri esseri,
come ci spiegava bene Adamo, ma non determinerà invariabilmente
la sorte di questo nuovo amore che nasce: Monica e Cristoforo
sono pienamente responsabili di come si porranno dinanzi alla
costruzione della loro nuova famiglia, e di come accoglieranno
la Grazia sacramentale che li conduce alla pienezza della loro
vocazione.
L’Artista
divino, umilmente colmo di fiducia nell’uomo, inizia nuovamente
il suo più grande capolavoro: intinge con determinazione il
pennello nel colore dorato e, con una sola pennellata, traccia
ed unisce per sempre due cerchi d’oro.
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Anno XVI - 2012 - n° 2
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