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Catechismo |
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di suor Maria Lucia |
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La nostra fede
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La Rivelazione e la Fede
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Il Credo Apostolico
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<<Credo in Gesù Cristo, unico Figlio
di Dio, Nostro Signore...
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Credo in Gesù Cristo, nato da Maria
Vergine
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Patì sotto Ponzio Pilato, il terzo
giorno risuscitò da morte
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Credo nello Spirito Santo
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La vita nello Spirito: le Virtù
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Credo la Chiesa
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L'identità della Chiesa
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La Chiesa, Comunità di Santi
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Credo la Resurrezione della carne, la
vita eterna. Amen.
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La nostra fede
- prima parte
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Sono
ormai parecchi anni che Papa Giovanni Paolo II prima e Benedetto
XVI ora, esortano i cristiani d’Europa, i governanti e i
responsabili delle nazioni “in primis”, a riscoprire le radici
cristiane del continente e a tenere conto di esse nella
formulazione della costituzione europea. Il motivo è presto
detto: nessuno può essere pienamente se stesso se non sa chi è,
se non conosce le proprie origini etniche, culturali e
religiose. Se è vero che non posso dire “io” senza un “tu” che
mi sta davanti, è anche vero il contrario: non posso dire “tu”
senza affermare “io”. Quindi quando si parla di dialogo tra le
religioni e tra le culture è indispensabile porsi uno di fronte
all’altro con un nome e un volto precisi, senza per questo
violentare o mancare di rispetto a nessuno. Se non esiste questa
base identitaria il «…dialogo senza fondamenti sarebbe destinato
a degenerare in una vuota verbosità», come ebbe a dire Giovanni
Paolo in un suo discorso (Angelus del 1 ottobre 2000).
Con
questi appunti di base cercheremo di ritornare alle radici della
nostra fede cristiana per riscoprirle, perché diventiamo sempre
più consapevoli del tesoro che ci è stato consegnato il giorno
del nostro battesimo e perché ogni cristiano possa trovare
proprio in tali radici la sua vera identità.
Purtroppo c’è tanta ignoranza anche se non ci sono scuse, poiché
la Chiesa si è adoperata a far conoscere a tutti il bene che le
è stato affidato; pensiamo solamente al Catechismo della Chiesa
Cattolica del 1992 e al Compendio del 2005, senza contare gli
innumerevoli documenti e testi editi in questi quarant’anni dopo
il Concilio Vaticano II e il grande rinnovamento biblico che ha
messo il tesoro della Sacra Scrittura nelle nostre mani.
Ma
quanti cristiani conoscono la propria fede? Sanno in quale Dio
credono?
Come
punto di riferimento per il nostro cammino ci affideremo proprio
al Catechismo (CCC nel testo), cogliendo così l’occasione per
approfondirne il contenuto. Non abbiamo certo la pretesa di
esaurirlo, tantomeno di spiegarlo nei minimi particolari; il
nostro itinerario sarà semplicemente un attingere da esso i
punti principali, come da fonte sicura per conoscere ed amare
Dio Trinità e il mistero della sua rivelazione agli uomini.
Prima di tutto una precisazione:
quando si parla di catechismo spesso si pensa ad un insieme di
formule, magari più accessibili se esposte a mo’ di domanda e di
risposta da imparare a memoria. E i più grandi se lo ricordano
così. Noi cristiani, però, non crediamo nelle formule ma nel
contenuto che esse racchiudono: le verità della fede,
come ebbe a dire Papa Giovanni Paolo II nel documento Novo
millennio ineunte: «Non una formula ci salverà ma una
Persona e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi!».
Infatti le formule che non esprimessero un contenuto sarebbero
sterili e rischierebbero di esaurirsi in se stesse senza
incidere minimamente nella vita dei credenti; ma se queste mi
trasmettono un contenuto che dà senso alla mia vita, ben
vengano. Per esempio, che rapporto c’è fra un bel vaso e ciò che
c’è dentro? È la preziosità del contenuto a dar spicco al vaso e
non viceversa, per cui se ho a cuore ciò che il vaso racchiude,
mia premura sarà quella di custodire il recipiente e renderlo
sempre più bello. Così è per la formula e ciò che esprime; il
cristiano crede al contenuto delle formule.
Il nostro Dio si fa conoscere: la Rivelazione
«Per
una decisione del tutto libera, Dio si rivela e si dona all’uomo
svelando il suo Mistero, il suo disegno di benevolenza
prestabilito da tutta l’eternità in Cristo a favore di tutti gli
uomini» (CCC 50).
Abbiamo accennato all’importanza dell’identità personale;
ebbene, anche Dio per dialogare si pone davanti all’uomo non
come ente astratto ma con il suo nome, come si dice, facendo le
presentazioni. Egli ha rotto l’eterno silenzio che lo
circondava, si è rivolto all’uomo e gli ha svelato i segreti
della sua vita intima, fonte di felicità e beatitudine. D’ora
innanzi possiamo chiamare Dio con un nome personale perché egli
ce lo ha fatto conoscere; per il grande amore verso la sua
creatura Dio non ha voluto rimanere “lassù in cielo”, luogo dove
spesso lo releghiamo come oggetto di contemplazione filosofica o
addirittura come divinità da tener buona con preghierine e
candele accese… Dio ha detto: Eccomi, io sono Colui che è,
Io sono la via, la verità, la vita. Egli ha
voluto entrare in contatto con l’uomo pronunziando una
parola e ogni
parola presuppone l’intenzione di essere udita e accolta, un Io
che parla e un Tu che risponde e in questo caso parola e
risposta diventano un dialogo autentico, reciprocità, comunione.
Nella Rivelazione di Dio l’uomo risponde con la
Fede nella
quale soltanto, come atto libero e personale, la Parola di Dio
trova accoglienza e riconoscimento. Dio e l’uomo si incontrano e
cessano di essere due estranei.
La
caratteristica di questo incontro è che Dio “parte per primo”
prendendo l’iniziativa e… lo fa da Dio! Dice san Giovanni:
Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo (1 Gv 4, 19);
nella Rivelazione tutto è
grazia e
prevenienza. È Dio che dà inizio a questo stupendo movimento di
reciprocità con l’uomo, il quale rimane sempre libero di
accoglierlo. La risposta della fede (di cui si parlerà in
seguito) non può essere allora una ammissione astratta della
divinità, né una noncurante coscienza del suo esserci (se Dio
c’è o non c’è fa lo stesso, non cambia la mia vita), ma può solo
consistere in una risposta d’amore alla seduzione d’amore che la
Parola di Dio suscita in me.
Ciò
che Dio svela di se stesso è uno scenario inimmaginabile, che
appare come quando si apre il sipario di un palcoscenico per una
prima assoluta: ci troviamo davanti all’infinità del suo Amore
per noi e l’uomo non può che dire: grazie. Proprio perché Dio è
Amore, la Parola di Dio riesce ad ottenere il consenso umano
della fede che non è sottomissione servile al suo arbitrio,
piuttosto è il riconoscimento amoroso e grato
all’incommensurabile amore che chiama l’uomo alla sua amicizia e
alla comunione.
Rivelazione di Dio e fede dell’uomo sono solo opera d’amore.
Un abisso colmato
È
proprio vero che Dio è inaccessibile, irraggiungibile, il
Totalmente Altro da noi tanto che i nostri processi mentali
lasciati a se stessi non arrivano ad afferrarlo. Sant’Agostino
conferma: «Se comprendi, non è Dio». Tra noi e lui c’è un abisso
che da parte nostra è assolutamente invalicabile, ma non da
parte sua; se l’abisso è profondo non lo è più della sua
infinita misericordia che ha liberamente deciso di
oltrepassarlo, e lo ha fatto per ben due volte: nel mistero
della creazione, quando per mezzo del Figlio sono state
fatte tutte le cose e il prodigio dell’esistenza è giunto fino a
noi, e nel mistero della redenzione, quando il Verbo si è
fatto carne e ha posto la sua tenda fra noi.
La pedagogia di Dio nella storia
Quando Dio decide di rivelarsi all’uomo non lo fa in un modo
qualsiasi, ma adopera una tattica pedagogica di infinita
sapienza.
«Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del
Verbo, offre agli uomini nelle cose create una perenne
testimonianza di sé; inoltre, volendo aprire la via di una
salvezza superiore, fin dal principio manifestò se stesso ai
progenitori: dopo la loro caduta, con la promessa della
redenzione, li risollevò alla speranza della salvezza ed ebbe
assidua cura del genere umano per dare la vita eterna a tutti
coloro i quali cercano la salvezza con la pratica del bene». (Dei
Verbum 3). All’inizio Adamo ed Eva erano i destinatari di
tutti i doni di Dio; quando essi con il peccato infransero il
sogno che egli aveva su di loro, non si diede per vinto ma
promise la salvezza (il Redentore) ed ebbe costante cura del
genere umano. Dopo il peccato Dio cerca di salvare l’umanità
stipulando l’alleanza con Noè dopo il diluvio, per significare
il piano divino di salvezza verso le nazioni, come uomini uniti
in piccoli gruppi, ciascuno secondo la propria lingua. Questo
disegno di salvezza fu costantemente minacciato dall’idolatria e
dal politeismo, da un’umanità che da sola avrebbe voluto
compiere la propria unità (torre di Babele) senza riuscirci.
In
seguito, per riunire l’umanità così dispersa Dio sceglie Abramo
chiamandolo fuori dal suo paese e dalla casa di suo padre per
essere il capostipite di un popolo eletto e - in questo – di
tutti i popoli della terra. Il popolo discendente di Abramo sarà
il depositario della promessa, il popolo eletto e la radice in
cui verranno innestati i pagani. Nel tempo Dio plasmò il suo
popolo liberandolo dalla schiavitù egiziana, concluse con lui
l’alleanza sul monte Sinai e per mezzo di Mosè gli donò la
legge, onore e vanto di fronte agli altri popoli. Nella sua
pedagogia Dio si adattò all’evoluzione storico-culturale delle
civiltà delle genti, rivelandosi gradualmente a seconda di come
il messaggio poteva essere recepito.
Poi
attraverso i profeti Dio diede sempre più consistenza al suo
popolo nella speranza della salvezza nuova ed eterna, destinata
non più solo a Israele ma a tutti i popoli, non più con una
legge scritta su tavole di pietra ma nei cuori degli uomini (CCC
50-64).
La pienezza di tutta la Rivelazione
Attraverso la sua pedagogia divina, quindi, Dio prepara
l’umanità a ricevere la rivelazione soprannaturale che fa di se
stesso e che conclude nella missione e nella persona del Verbo
incarnato, il Figlio Gesù Cristo (CCC 53). È Lui la pienezza
della rivelazione divina, il culmine a cui tende tutta la storia
della salvezza. In Cristo, unica Parola del Padre, perfetta e
definitiva, Dio ci ha dato tutto e ci ha detto tutto; è il
temine della Rivelazione per cui «… non è da aspettarsi
alcun’altra Rivelazione pubblica fino alla manifestazione
gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo» (DV 4).
In
conclusione possiamo descrivere sinteticamente alcune
caratteristiche della rivelazione divina:
-
essa non avviene fuori del tempo, tantomeno in un
tempo mitico, ma è un avvenimento reperibile nel tempo. Con
la rivelazione Dio entra nella storia umana e il suo
ingresso ha una data storica;
-
non si presenta come un punto isolato
od unico nell’evolversi del tempo, ma con una successione
armonica di interventi di Dio. È un avvenimento progressivo,
è una storia che ha come vertice la venuta di Dio in mezzo a
noi nella persona di Cristo. Tale vertice non si comprende
se non nella preparazione attraverso i secoli; gli
avvenimenti che si succedono ne preparano altri in cui Dio
si fa prossimo all’uomo e viceversa;
la rivelazione si compie mediante la storia, attraverso
«… parole ed eventi intimamente connessi in modo che le opere,
compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e
rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole,
mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in
esse contenute» (DV 2). La rivelazione è nello stesso tempo
storia e dottrina; la parola di Dio opera ciò che dice, è parola
efficace, attua ciò che promette. E la promessa finalmente
compiuta per noi è Cristo Gesù.
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Gennaio / Febbraio 2007 - Anno XI - n° 1
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La
Rivelazione e la Fede
- seconda parte -
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La
rivelazione cioè, come Dio abbia voluto svelare i suoi
intimi segreti all’uomo e si sia fatto conoscere personalmente,
è avvenuta nella storia
fino alla manifestazione suprema, assoluta e
definitiva di Cristo Verbo eterno, fatto uomo nel tempo.
Proseguendo vediamo ora come si trasmette la Rivelazione e quali
sono i canali attraverso i quali è giunta fino a noi. Ci viene
in aiuto il Concilio Vaticano II che, nella costituzione
dogmatica Dei Verbum sulla Divina Rivelazione, enuncia i
canali privilegiati ed unici di questa trasmissione: la
Tradizione apostolica e la Sacra Scrittura. Dice il
testo del documento:
«Dio
con somma benignità dispose che quanto egli aveva rivelato per
la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e
venisse trasmesso a tutte le generazioni» (DV 7). È Dio, il
quale … vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano
alla conoscenza della verità (1 Tm 2, 4), che desidera far
giungere a tutti il messaggio della salvezza. È Cristo Gesù che
attua questa volontà del Padre attraverso il comando dato ai
suoi apostoli di predicare a tutti gli uomini il vangelo,
promesso per mezzo dei profeti e da lui stesso attuato e
promulgato con la sua bocca, come sorgente di verità che salva.
Il Signore Gesù, compimento di tutta la Rivelazione, ha attuato
in pieno il Vangelo promesso e - prosegue il documento - il
comando dato ai suoi apostoli di predicarlo si estende alla
totalità della rivelazione, sia all’Antico come al Nuovo
Testamento (DV 7). Il comando di Cristo è stato osservato
fedelmente con la predicazione degli apostoli che includeva non
soltanto le parole ma anche gli esempi, modi di agire, pratiche,
istituzioni, riti ricevuti e appresi dallo stesso Gesù per mezzo
delle opere e dell’amicizia stretta con lui. La testimonianza
apostolica, inoltre, va al di là della predicazione propriamente
detta; essa comprende tutto il campo del culto, dei sacramenti,
il campo della condotta morale e del governo delle comunità
cristiane. In questa opera di trasmissione poi lo Spirito Santo
ha avuto e ha un ruolo di primaria importanza, perché è lui che
ha guidato e sorretto gli apostoli, permettendo loro di essere
fedeli trasmettitori del messaggio salvifico.
Affinché il vangelo si conservasse sempre integro e vivo nella
Chiesa, gli Apostoli lasciarono come successori i vescovi
affidando ad essi il compito di magistero, cioè di
interpretare – alla luce dello Spirito Santo – il deposito della
fede (depositum fidei) contenuto nella Tradizione e nella
Scrittura.
Questa trasmissione viva è chiamata Tradizione in quanto
distinta dalla Sacra Scrittura, sebbene ad essa
strettamente collegata e congiunta (cfr CCC 77-79) come ad altro
canale attraverso cui Dio parla all’uomo e gli comunica se
stesso. Nella Scrittura, che è Parola di Dio che la
Chiesa sempre ha venerato come venera il Corpo di Cristo, essa
trova il suo nutrimento e il suo vigore; infatti attraverso la
Scrittura essa non accoglie soltanto una parola umana, ma quello
che è realmente: Parola di Dio (1 Ts 2, 13). La santa Chiesa,
per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i
libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, perché scritti
sotto l’ispirazione dello Spirito Santo e come tali sono stati
consegnati alla Chiesa. È Dio l’autore della Sacra
Scrittura; egli ha ispirato quegli estensori dei Libri sacri da
lui scelti e di cui si servì nel possesso delle loro facoltà e
capacità umane affinché, agendo egli stesso in essi e per loro
mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose
che lui voleva (cfr DV 21). I libri della Scrittura quindi,
ispirati dallo Spirito, insegnano fermamente, fedelmente e senza
errore la verità che Dio volle fosse scritta per la nostra
salvezza.
Tradizione
e Scrittura quindi, sono due sorelle che vanno a
braccetto nella trasmissione della Rivelazione, così unite che
non sussiste l’una senza l’altra e non è consentito separarle
poiché sono interdipendenti. Entrambe sono degne di rispetto,
venerazione e fede da parte della Chiesa e dei fedeli.
A
Dio che si rivela l’uomo risponde con l’assenso della
fede, con la
quale sottomette a Dio la propria intelligenza e volontà. Con
tutto il suo essere l’uomo dà l’adesione a Dio con l’obbedienza
della fede, come la chiama la Scrittura.
La
fede è un consenso personale dell’uomo a Dio, è adesione
libera a tutta la verità che Dio rivela, non perché egli ha
capito con la ragione tutto di Dio, ma perché la fede a lui
prestata differisce radicalmente da quella data ad una persona
umana: è bene e giusto, infatti, affidarsi a Dio, fidarsi di lui
e credere a ciò che dice perché… egli è Dio, non può ingannarsi
né mai indurrebbe l’uomo a sbagliare.
Per
noi cristiani il credere in Dio è inseparabilmente legato alla
fede in Gesù Cristo, Figlio diletto che Dio ha mandato
nel mondo. Possiamo credere in Gesù perché egli stesso è Dio,
Verbo eterno fatto carne nel tempo e nato dalla Vergine Maria.
Non si può, inoltre, credere in Gesù Cristo se non si ha parte
al suo Spirito, che rivela agli uomini chi egli è (1 Cor 12,
3). Noi crediamo nello Spirito Santo perché è Dio.
Ecco
allora che la Chiesa, e noi con lei, non cessa mai di confessare
la propria fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, la
Santissima Trinità (cfr CCC 142-152).
La
fede cristiana ha alcune caratteristiche che le danno una
fisionomia tutta particolare, quelle che la differenziano da una
qualsiasi fede umana.
-
La fede è una
grazia: la fede è un dono di Dio, una virtù
soprannaturale infusa e donata a noi nel Battesimo come un
seme da far germogliare, da curare gelosamente e accrescere
continuamente. Ogni battezzato ha il dovere di custodire il
germe depostogli nel cuore da Dio e non può trascurarlo con
superficialità.
-
La fede è un atto
umano: se è vero che credere è una grazia non è
meno vero che è anche un atto autenticamente umano, libero,
pienamente consono all’intelligenza dell’uomo, perché non
sminuisce la dignità umana dar credito a Dio e aderire alle
verità da lui rivelate. Anche nelle relazioni fra gli uomini
noi prestiamo gli uni agli altri fede e fiducia continua
(per es. al coniuge, ai familiari, agli amici, ai
conoscenti) e non solo: spesso e volentieri siamo disposti a
ritenere vero ciò che dicono i giornali e i mass-media in
genere, senza che ci preoccupiamo tanto di verificarne la
veridicità. Non è forse vero che stimiamo attendibile una
notizia solo per il fatto che l’hanno detta in televisione?
Se siamo disposti a credere anche a chi ci prende per il
naso, non sarà allora contrario alla dignità umana dar
fiducia a Dio, “prestare - con la fede - piena sottomissione
della nostra intelligenza e volontà a Lui quando si rivela”
(Conc. Vat. I) e instaurare una profonda comunione.
-
Altra caratteristica della fede è il
motivo per
cui crediamo. Esso non consiste nel fatto che le verità
rivelate – come si diceva poco sopra - sono comprese
totalmente e non perché capiamo tutto quello che Dio dice di
sé, ma per l’autorità di Colui che le rivela. La
fede è più certa
di ogni conoscenza umana in quanto si fonda sulla Parola di
Dio, il quale – abbiamo detto – non può mentire, altrimenti
non sarebbe la Verità.
-
“Credo per comprendere e comprendo per meglio credere”
(Credo ut intellegam, intellego ut credam). Questa
espressione di sant’Agostino (Disc. 43, 7, 9) è stata
ripresa dal Catechismo perchè sottolinea molto bene il senso
del credere. È caratteristico della fede, infatti, che il
credente desideri conoscere e amare sempre meglio e sempre
più le verità rivelate. Il credere è via ad una comprensione
intellettiva delle verità, le rende immediatamente
accessibili, amabili, e nello stesso tempo è importante
capire intellettualmente ciò che si crede per non essere
come oche imbeccate. Dovrebbe essere un dovere ed oggetto di
desiderio conoscere e approfondire sempre più e meglio la
fede, per conoscere ed amare maggiormente Dio Padre che si
rivela a noi.
-
la fede deve essere volontaria e libera,
nessuno può dunque costringere un altro ad abbracciarla
contro la propria volontà. Questa libertà di credere è alla
base della dignità umana, come è umano e dignitoso
riconoscere la “libertà di coscienza” di ogni uomo della
terra. Quando recitiamo il Credo nella Messa o rispondiamo
alla domande del sacerdote nella rinnovazione delle promesse
battesimali diciamo: Io credo, come atto umano,
libero, volontario e personale.
-
La fede è necessaria alla salvezza,
per cui nessuno può essere giustificato senza essa e nessuno
entrerà nella vita eterna se non vi persevererà. Rimanere
saldi nella fede fino alla fine (perseveranza finale) è un
dono dello Spirito Santo e non attribuibile alle forze o ai
meriti umani; bisogna sempre implorarla da Dio nella
preghiera.
La
fede allora non è mai un atto isolato, come da soli non ci si è
dati la vita. Se la fede è un atto personale e libero è anche
vero che noi professiamo una fede “ricevuta” da altri, da
testimoni accreditati, oculari (gli apostoli) che ce l’hanno
trasmessa e che, come il testimone di una staffetta infinita,
noi consegniamo ad altri. La fede è simboleggiata da quella
fiammella accesa al cero (Cristo risorto) che squarcia le
tenebre nella notte di Pasqua; ad essa attinge ciascun credente
e la partecipa al fratello accendendo la sua candelina. La
nostra è la fede di un popolo redento che in comunione
proclama: io credo, noi crediamo perché è la fede della
Chiesa che regge, sostiene e nutre la mia. Questa verità
permette di giungere ad avere un linguaggio comune e di
professarla in comunità. La Chiesa ha ricevuto dagli apostoli
una sola fede che custodisce gelosamente e trasmette alle
generazioni che si susseguono, esprimendola in un linguaggio
comune che la tradizione ha codificato nel Simbolo
Apostolico o professione di fede: il Credo.
La
FEDE è la virtù teologale per la quale noi crediamo in
Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la
Santa Chiesa ci propone da credere, perché egli è la stessa
verità. Con la fede «l’uomo si abbandona tutto a Dio
liberamente» (DV 5). Per questo il credente cerca di conoscere e
fare la volontà di Dio… Il discepolo di Cristo non deve soltanto
custodire la fede e vivere di essa, ma anche professarla, darne
testimonianza con franchezza e diffonderla: «Devono tutti essere
pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo
sulla via della croce attraverso le persecuzioni, che non
mancano mai alla Chiesa».
CCC 1814-1816
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Maggio / Giugno 2007 - Anno XV - n° 2
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Il Credo Apostolico
- terza parte -
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La
Chiesa ha ricevuto dagli Apostoli
una sola fede
che custodisce gelosamente e trasmette alle generazioni che si
susseguono; per usare un linguaggio comune essa lo espone
attraverso il simbolo
apostolico o
credo (dalla
prima parola con cui inizia) e che noi recitiamo ogni domenica
nella santa Messa.
Fin
dalle origini la Chiesa ha espresso la propria fede attraverso
formule narrative che, adatte alla memorizzazione, erano
recitate dai candidati al battesimo. Nel corso dei secoli i
simboli della fede sono stati diversi, a seconda dei diversi
bisogni del tempo; nessuno di loro però è superato, tutti sono
sintesi della fede del popolo di Dio, ma fra i tanti due
occupano un posto speciale nella vita della Chiesa: il
simbolo degli apostoli
– così chiamato perché ritenuto il riassunto fedele della fede
dei primi discepoli di Cristo – e il
simbolo
niceno-costantinopolitano, che trae la sua grande
autorità dall’essere il frutto dei primi due Concili Ecumenici,
rispettivamente del 325 e 381. Quest’ultimo è il Credo comune
alle chiese d’Oriente e d’Occidente ed è il credo che tutt’oggi
la liturgia ci fa proclamare nella Messa.
Per
comodità e capacità di sintesi adotteremo, per la nostra
spiegazione, il testo del simbolo apostolico.
-
Credo in Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della
terra: il nostro credo si apre con la professione di fede in
un unico Dio che è Padre e Creatore di tutte le cose, del cielo
e della terra. Dio è il Primo e l’Ultimo, il Vivente, il
principio e la fine; soprattutto Dio è Padre, la prima persona
della Ss.ma Trinità che sta in rapporto – naturalmente – con il
Figlio Gesù e lo Spirito Santo. Ciò che noi sappiamo di Dio lo
conosciamo perché Lui stesso lo ha rivelato, Lui ci ha detto chi
è; nel libro dell’Esodo (3, 1-15) Dio appare a Mosè in un roveto
che arde senza consumarsi e in questa circostanza si fa
conoscere per nome: io
sono colui che sono; l’espressione molto forte
sottolinea il fatto che Dio sussiste di per sé, senza bisogno di
ricevere la vita da altri, che in Lui è la vita in pienezza e
per questo la può comunicare a chi vuole e quando vuole. Inoltre
quando Dio afferma di sé: Io sono il Dio di tuo padre, il Dio
di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe (v. 6) si
rivela come il Dio di uomini con i quali sta costruendo la
storia della salvezza, il Dio di persone vive con tutto il loro
carico di miserie umane e debolezze, e dichiara che starà a
fianco del suo popolo in mezzo alle vicissitudini della storia.
Egli è eterno, onnipotente, onniveggente, onnipresente, nulla
sfugge al suo sguardo e tutto è scoperto ai suoi occhi (cfr. Eb
4, 13). Dio non è, quindi, il motore immobile dei greci, un’idea
astratta o un’ipotesi di cui si può anche fare a meno, tanto
meno egli è “energia cosmica” senza volto, come gran parte delle
teorie contemporanee ce lo vorrebbero presentare. Secondo la
Rivelazione egli è
persona vivente che vuole instaurare un rapporto
amicale con l’uomo, suo figlio, e prende l’iniziativa in tal
senso rivelando se stesso.
Ma
il nome che più sottolinea il legame che congiunge Dio all’uomo
è «Creatore
del cielo e della terra» e di tutto ciò che essa contiene. Alla
fede in Dio creatore spetta un posto d’onore, il creatore di
tutto è, per la confessione della fede cristiana, Padre, Signore
Onnipotente; secondo Genesi 2, 7 (…il Signore Dio plasmò
l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito
di vita e l'uomo divenne un essere vivente) Dio crea l’uomo
con le sue proprie mani; secondo Genesi 1, 26s (e Dio disse:
«Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e
domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul
bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che
strisciano sulla terra») lo crea a sua immagine e
somiglianza e così le altre cose hanno senso in funzione
dell’uomo, con il quale culmina l’opera creatrice. La creazione
scaturisce dalla volontà libera di Dio, dalla sua sapienza, da
Lui stesso come Amor che muove il sole e l’altre
stelle, come dice mirabilmente Dante. Egli per creare non ha
nessun presupposto estrinseco a sé, ma solamente interiore: il
suo amore crea ex nihilo, dal nulla, come cosa “altra” da
sé. Il mondo che Dio plasma non è un caos ma un cosmos,
una bellezza, un insieme ordinato e destinato ad un fine, quello
cioè che Dio possa essere “tutto in tutti”, procurando ad un
tempo la sua gloria e la nostra felicità (CCC 294).
Dopo
aver dato loro la vita, Dio non abbandona mai le singole
creature nè la creazione tutta, dona anzi ad essa di esistere e
la conserva in vita continuamente. Sant’Agostino esprime questo
concetto dicendo che la creazione esiste perché Dio la guarda e
la mantiene in vita: Noi vediamo la tua creazione perché
esiste; ma essa esiste perché tu la vedi. Noi vediamo
all’esterno che è, all’interno che è buona; ma tu la vedesti
fatta quando e dove vedesti che doveva essere fatta (Conf.
XIII, 38, 53). La creazione, quindi, non è buttata là da Dio e
poi lasciata al suo destino, ma è continuamente dipendente dal
Creatore che la conduce verso la perfezione, essendo creata non
perfetta ma in “in stato di via”, cioè verso una perfezione
ultima: le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la sua
opera al compimento è la Divina Provvidenza (cfr. CCC
301-303). La sollecitudine della Provvidenza è concreta e
immediata, si prende cura di tutto, dalle più piccole cose fino
ai grandi eventi e nello sconfinato, immenso mare del tempo
conduce il creato come un’imbarcazione – attraverso le
vicissitudini della storia e la libertà dell’uomo – al suo fine,
che è solo un fine di bene. Gesù nel Vangelo chiede di
abbandonarci alla sapiente Provvidenza di Dio Padre: Non
affannatevi dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo?... Il
Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno. Cercate prima il
regno di Dio e la sua giustizia e tutto vi sarà dato in aggiunta
(Mt 6, 31-33).
Dio
Padre che crea, nutre e porta a compimento (Conf. I, 4,
4), per realizzare il suo disegno si serve anche della
cooperazione dell’uomo, della sua libertà, del suo ingegno; Dio
crea esseri “creatori”, cioè partecipi della sua opera
creatrice. Questo lo si vede soprattutto, come esempio, dal
fatto che all’uomo e alla donna (e non alla provetta!) è stato
affidato il compito di procreare e di dare la vita ad altri
esseri umani. Il Padre fa dono così agli uomini di essere cause
intelligenti per completare l’opera della creazione ed entrare
liberamente nel piano divino con le loro azioni, opere,
preghiere e sofferenze.
Dio
è il creatore, dunque. Ma Dio è anche eterno, privo di
giorni, senza tempo (che è una categoria umana), è il “prima di
ogni prima” e di ogni essere pensabile, il “dopo” di ogni evento
che sia ultimo. In lui non c’è variazione né ombra di
cambiamento (Gc 1, 17). Dio è onnisciente, non c’è
niente che sfugga ai suoi occhi che penetrano gli abissi, quanto
più il cuore umano! La sua conoscenza abbraccia passato presente
e futuro in un colpo solo, come se tutto accadesse ora. Egli è
onnipotente e di tutti gli attributi divini nel credo si
nomina solo questo, perché confessarlo è molto importante per la
nostra vita. La sua azione arriva dappertutto e tutto è in suo
potere, non c’è niente che limiti la sua capacità di agire e di
essere presente, tranne il peccato; ma anche da questo
l’onnipotenza di Dio sa ricavare un bene. Ordinariamente non si
palesa con manifestazioni eclatanti o straordinarie, ma
soprattutto con la paternità; Dio si prende cura di noi,
perdona i nostri peccati e ci riaccoglie nella sua casa, ama la
vita, nutre il creato e ne ha cura. La sua onnipotenza non è
certo arbitraria perché tutto in Lui è ordinato al bene e non
può esserci onnipotenza se non nella sua sapiente intelligenza.
La nostra fede può essere messa alla prova dall’apparente
impotenza Dio quando sembra incapace di impedire il male. Quante
volte diciamo: «Ma se Dio esiste, perché succede questo e
quest’altro? Perché tanto dolore sulla terra, tanto male, tanti
scandali?». Siamo stupiti da quella che può sembrare assenza o
silenzio di Dio… ma Dio non tace. Egli ha rivelato nel modo più
misterioso la sua onnipotenza nel volontario abbassamento e
nella Resurrezione del Figlio Gesù, per mezzo del quale ha vinto
il male. Cristo crocifisso, segno di contraddizione (Lc 2, 34) è
potenza e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio
è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più
forte degli uomini (1Cor 1, 24-25). I modi di agire di Dio
non sono secondo i nostri comuni pensieri, la sua giustizia non
è come quella degli uomini che la eserciterebbero molto
sbrigativamente sulla terra. Ed è una fortuna che sia così! Dio
ha vie misteriose, sicuramente umili ma reali, per guidare la
storia là dove vuole condurla e per salvare l’uomo; Egli sa
arrivare con i suoi mezzi ignoti là dove noi non ci sogneremmo
neppure di andare. Il Catechismo afferma: Se Dio Padre
onnipotente, Creatore del mondo ordinato e buono, si prende cura
di tutte le creature, perché esiste il male? A questo
interrogativo tanto pressante quanto inevitabile, tanto doloroso
quanto misterioso, nessuna risposta rapida può bastare… È
l’insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a
tale questione… Tuttavia, nella sua sapienza e nella sua bontà
infinite, Dio ha liberamente voluto creare un mondo “in stato di
via” verso la sua perfezione ultima. Questo divenire, nel
disegno di Dio, comporta, con la comparsa di certi esseri la
scomparsa di altri, con il più perfetto anche il meno perfetto,
con le costruzioni della natura anche le distruzioni. Quindi
insieme con il bene fisico esiste anche il male fisico finché la
creazione non avrà raggiunto la sua perfezione.
Gli angeli e gli uomini, creature intelligenti e libere, devono
camminare per il loro destino ultimo per una libera scelta e un
amore di preferenza. Essi possono deviare e in realtà hanno
peccato, facendo entrare nel mondo il male morale,
che
non ha nessun paragone con quello fisico, essendo
incommensurabilmente superiore. Dio, che non è né direttamente
né indirettamente la causa del male morale, rispettando la
libertà dell’uomo lo permette e, misteriosamente ma realmente,
ne trae un bene. Infatti, dal male morale più grande che l’uomo
abbia mai compiuto – il rifiuto e l’uccisione dell’Innocente suo
Figlio – Dio ne ha ricavato i beni più grandi: la glorificazione
di Cristo e la nostra redenzione. I paragrafi dal 309 fino al
314 del Catechismo sono molto illuminanti per capire qualcosa di
più.
Sul
tema dell’onnipotenza di Dio e lo scandalo del male si è
intrattenuto anche Papa Benedetto XVI l’anno scorso quando,
durante la sua visita al campo di concentramento di Auschwitz ha
potuto dire: Quante domande ci si impongono in questo luogo!
Sempre di nuovo emerge la domanda: Dov’era Dio in quei giorni?
Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare… questo eccesso del
male? ... Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio, vediamo
solo frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e
della storia.
Non difenderemmo, in tal caso, l’uomo, ma contribuiremmo solo
alla sua distruzione. No, in definitiva, dobbiamo rimanere con
l’umile ma insistente grido verso Dio: Non dimenticare la tua
creatura, l’uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo
essere un grido che penetra nel nostro stesso cuore, affinché si
svegli in noi la nascosta presenza di Dio, affinché quel suo
potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperta
e soffocato in noi dal fango dell’egoismo, della paura degli
uomini, dell’indifferenza e dell’opportunismo…
Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi,
così che riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo
suscita altra violenza…
Il Dio nel quale crediamo è un Dio della ragione… che è una cosa
sola con l’amore, col bene. Noi preghiamo Dio e gridiamo verso
gli uomini, affinché questa ragione, la ragione dell’amore e del
riconoscimento della forza della riconciliazione e della pace
prevalga sulle minacce circostanti dell’irrazionalità o di una
ragione falsa, staccata da Dio
(28/05/2006).
Dio
Padre ha creato l’uomo libero «correndo il rischio» del male e
del peccato, il quale ha dato luogo alla condanna a morte del
Figlio Gesù; Egli ci ha così manifestato il suo amore infinito
che – se il peccato non ci fosse stato – non avremmo potuto
conoscere.
La
prova che Dio ci ama è che mentre eravamo ancora peccatori,
Cristo è morto per noi (Rm 5, 8), in lui solo c’è salvezza e
il paradosso della fede fa cantare la Chiesa nella notte di
Pasqua: O felix culpa, quem talem hac tantum meruit habere
Redemptorem! - O felice colpa che meritò di avere un così
tale e grande Redentore.
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Luglio / Agosto 2007 - Anno XV - n° 3
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<<Credo in Gesù Cristo, unico Figlio di Dio, nostro Signore...
- quarta parte -
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… che per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal
cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno
della Vergine Maria e si è fatto uomo».
La
verità che la Chiesa da sempre crede, il nucleo centrale del
cristianesimo, il suo segno distintivo è la fede nella reale
incarnazione del figlio di Dio. È il fondamento del
cristianesimo ed anche la sua assoluta novità rispetto alle
altre religioni monoteiste: l’Ebraismo e l’Islam.
Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio,
nato da donna, nato sotto la legge
(Gal
4, 4-5). Questa è la buona gioiosa notizia riguardante Gesù: Dio
ha visitato il suo popolo, ha adempiuto la promessa fatta ad
Abramo e ai suoi discendenti e, andando oltre ogni aspettativa
umana, ha mandato sulla terra il suo Figlio prediletto.
Questo evento unico la Chiesa lo chiama
incarnazione,
cioè il Verbo eterno che era presso Dio Padre ha assunto la
natura umana per realizzare in essa la nostra salvezza. Ciò non
significa che Gesù sia un po’ dio e un po’ uomo o sia il
risultato di una ambigua mescolanza umano-divina, no.
Egli
si è fatto veramente uomo rimanendo vero Dio.
Questa è la nostra fede, questo è il mistero amato e custodito
dalla Chiesa che deve essere scolpito nel cuore e nella vita dei
credenti e che nessun “vento di dottrina” all’ultima moda deve
far vacillare.
La verità ‘strapazzata’
Sulla persona di Gesù, così come ce la consegna la tradizione
della Chiesa, ci sono state nel corso dei secoli fino ad oggi
controverse interpretazioni, sino a sfociare in eresie e
deviazioni, nei confronti delle quali la Chiesa ha sempre e ogni
volta dovuto prendere posizione. Non è successo quindi solo nei
primi secoli cristiani ma succede anche ai nostri giorni. Ogni
tanto viene fuori qualcuno con qualche nuova teoria, presa
chissà dove, per parlare di Cristo in modo tale da sovvertire la
verità di Cristo; il suo nome attira e viene usato a proposito e
a sproposito per dire che quello che si pensa di lui è
“cristiano”. Anche la riflessione teologica, se si disgiunge
dalla verità rivelata, è fuorviante. Le origini di queste teorie
ed errori su Gesù Cristo sono diverse, ne possiamo citare
qualcuna:
La
fede comporta adesione personale dell’uomo a Dio ed è
inseparabile dall’assenso libero a tutta la verità che Dio ha
rivelato; essa comporta (lo abbiamo detto nei numeri precedenti)
aderire a Dio e alle verità che lui rivela, per la fiducia che
si accorda alla persona che le afferma. Per questo «… non
dobbiamo credere in nessun altro se non in Dio, il Padre, il
Figlio e lo Spirito Santo» (CCC 178). È diversa la fede
teologale (dono della grazia e dello Spirito Santo che muove il
cuore e lo rivolge a Dio) dalla credenza nelle altre religioni
che è «quell’insieme di esperienze e di pensiero che
costituiscono i tesori umani di saggezza e religiosità che
l’uomo nella sua ricerca della verità ha ideato e messo in atto
nel suo riferimento al divino e all’Assoluto» (Fides et ratio
31-32). Quindi l’affermazione popolare che tutte le religioni
sono uguali non è esatta, perché la fede teologale è
accoglienza delle verità rivelate da Dio Uno e Trino, la
credenza nelle altre religioni è esperienza religiosa alla
ricerca della verità assoluta e priva ancora dell’assenso a Dio
che rivela (Cfr. Dichiar. Dominus Iesus, 7).
-
Altra
teoria deviante è quella che pretende di considerare la
persona storica di Gesù di Nazareth come finita,
rivelatrice del divino in modo non esclusivo ma
complementare ad altre presenze rivelatrici e salvifiche.
Dio si sarebbe manifestato all’umanità in tanti modi e in
tante figure storiche: Gesù sarebbe una delle tante, uno dei
volti che Dio avrebbe assunto nel corso del tempo. Si
comprende come questa tesi contrasta profondamente con la
fede cristiana la quale proclama che Gesù di Nazareth,
figlio di Maria, è solo lui il Figlio di Dio, il Verbo
incarnato in cui abita corporalmente tutta la pienezza della
divinità. In Cristo sussistono in un'unica persona,
totalmente ma non confuse fra loro, due nature: quella umana
e quella divina. «Un solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio
unigenito, che noi dobbiamo riconoscere in due nature, senza
confusione, senza mutamento, senza divisione, senza
separazione. La differenza delle nature non è affatto negata
dalla loro unione, ma piuttosto le proprietà di ciascuna
sono salvaguardate e riunite in una sola persona e una sola
ipostasi» (Conc. di Calcedonia, a. 451). Il Figlio di Dio
incarnandosi ha assunto non solo un corpo umano reale ma
anche un’anima razionale, la quale è dotata di una vera
conoscenza umana. Proprio perché umana non poteva essere
illimitata; era esercitata nelle condizioni storiche in cui
Cristo visse, nello spazio e nel tempo. Per questo il Figlio
di Dio - leggiamo nel Vangelo - ha voluto crescere in
sapienza, età e grazia (Lc 2, 52) ed anche doversi
informare su quello che nella normale condizione umana si
apprende con la conoscenza e l’esperienza. Questo mistero di
Cristo è consono al fatto che il Verbo eterno ha voluto
umiliarsi nella condizione di servo (Fil 2, 7). «Al
tempo stesso, però, questa conoscenza veramente umana del
figlio di Dio esprimeva la vita divina della sua persona. La
natura umana del Figlio di Dio non da sé ma per la sua
unione col Verbo, conosceva e manifestava nella Persona di
Cristo tutto ciò che conviene a Dio» (CCC 473).
-
Altre sottili deviazioni sulla persona di Gesù sono quelle
che accentuano in modo assoluto un aspetto del suo essere
rispetto ad un altro;
per esempio, Gesù sarebbe solo un grande personaggio
storico, un profeta come altri o un uomo soltanto e nulla
più. Addirittura una corrente contemporanea vorrebbe
attribuire ai vangeli e alle narrazioni degli apostoli una
sorta di racconto mitico, fiabesco, e così pure alla figura
del Cristo. Ma non è così. Anche Papa Benedetto, in più
occasioni nei suoi discorsi, non tralascia di riaffermare la
storicità dell’evento-Cristo, che la sua vicenda
umana non è una favola ma un fatto reale, accaduto in un
preciso momento storico. «Un Gesù fortemente idealizzato può
sembrare addirittura il personaggio di una fiaba», ebbe a
dire in un’udienza all’inizio dell’anno, mentre «Gesù, il
vero Gesù della storia, è vero Dio e vero uomo e non si
stanca di proporre il suo vangelo a tutti…».
Possiamo allora concludere affermando che il messaggio
straordinario che la Chiesa annuncia è questo: il Dio che
parlava a Mosè sul monte Sinai, tra lampi tuoni e terremoti, il
Dio irraggiungibile che non poteva essere nominato né visto
dagli uomini, il Dio trascendente si è fatto vicino a noi, si è
fatto uno di noi non rinunciando alla sua divinità.
«Nulla è più potente dell’umiltà di Dio»
(S.
Agostino)
Non
possiamo tralasciare nel contesto del nostro discorso, la
riflessione che sant’Agostino fa sul Dio incarnato.
Nel
suo travagliato cammino verso la trasformazione totale di anima
e di cuore, ciò che lo conquistò totalmente fu proprio la verità
che Dio si è fatto uomo, di Cristo mediatore fra Dio e gli
uomini, dell’amore di Dio dimostrato fino a questo punto: l’umiltà
di Dio lo afferrò definitivamente e lo consegnò per sempre a
Cristo. Agostino fu affascinato proprio da questa verità della
fede cattolica che le lettere di san Paolo e il vangelo di
Giovanni gli rivelavano: Dio si fa uomo con l’unico scopo di
salvarci. L’umiltà di Cristo è la strada che ogni uomo deve
percorrere per la salvezza ma è anche la medicina che guarisce
la superbia umana: «Quale superbia si può sanare se non si sana
con l’umiltà del Figlio di Dio?» (De agone christ. 11,12).
«L’uomo cerca la potenza, la gloria, l’efficienza ma nulla
quaggiù è più potente dell’umiltà di Dio» (Ep 232,6).
Agostino contempla i misteri della vita di Cristo, ne scorge la
bellezza, la magnificenza, la straordinaria ordinarietà e in
essi non smette di contemplare il Deus humilis fino
all’estasi dell’amore.
Se
Cristo è l’unica via per andare al Padre anche la nostra deve
essere una vera sequela
christi, fino all’imitazione di Lui, all’assimilazione ai
suoi sentimenti. «O uomo, che coraggio ad insuperbirti! Dio si
fece umile per te. Forse ti stimeresti poco se imitassi un uomo
umile; ma per lo meno imita Dio umile» (Sul vang di Gv 25, 26).
L’umiltà, allora, non è la virtù dei grandi uomini che sanno
farsi piccoli, ma è eminentemente virtù di Dio del quale solo
possiamo dire che si è umiliato veramente: Cristo Gesù, pur
essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua
uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la
condizione di servo e divenendo simile agli uomini, apparso in
forma umana, umiliò se stesso… (Fil 2,6-8); per l’uomo essere
umile è solo stare al proprio posto, nulla di più.
«Cristo
è maestro di
umiltà con la parola e con le opere: sempre
infatti con la parola non cessò mai dall'inizio della creazione
di insegnare agli uomini l'umiltà per mezzo di angeli, di
Profeti; anche con il suo esempio si è degnato insegnarla. Venne
umile il nostro Creatore, creatura in mezzo a noi, egli che ha
creato noi, egli che fu creato per noi: Dio prima del tempo,
uomo nel tempo, per affrancare l'uomo dal tempo. Medico
infallibile, venne a guarire il nostro tumore. Dall'oriente
all'occidente il genere umano giaceva simile a un grande malato
e reclamava il Medico infallibile. Un primo tempo, questo Medico
inviò i suoi aiutanti, e in seguito, venne egli stesso, quando
alcuni avevano perduto ogni speranza. A quel modo che un medico
manda i suoi assistenti nel caso di un compito facile e,
sopraggiungendo un aggravamento pericoloso, interviene
personalmente, così l'umanità, immersa in ogni sorta di vizi,
era oppressa dalla minaccia di un pericolo mortale che scaturiva
soprattutto dal fomite della superbia: egli venne appunto a
guarire proprio la superbia con il suo esempio. Vergognati di
essere tuttora superbo, uomo; per te Dio volle essere umile.
Molto Dio si sarebbe umiliato, se soltanto fosse nato per tuo
amore: si è degnato persino di morire per te. Egli dunque era
sulla croce nella sua umanità, quando i Giudei persecutori
scuotevano il capo dinanzi alla croce e dicevano: Se è il
Figlio di Dio, scenda ora dalla croce e gli crederemo . Ma
egli si manteneva nell'umiltà, per questo non scendeva: non
aveva perduto la potenza, ma dava prova di pazienza… Se non te
ne veniva data prova, non ti si poteva comandare ma, se con le
parole si doveva imporre come legge, doveva essere presentata e
raccomandata con l'esempio. Perciò, nel Signore, vediamo di fare
attenzione a questo: consideriamo la sua umiltà, beviamo al
calice della sua umiliazione, teniamoci stretti a lui, il nostro
pensiero sia rivolto a lui».
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Ottobre / Novembre 2007 - Anno XV - n° 4
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Credo in
Gesù Cristo, nato da Maria Vergine
- quinta parte - |
«(Cristo) fu concepito per opera dello Spirito Santo, nacque da
Maria Vergine».
Il
vangelo di Luca racconta che una giovane donna ebrea semplice,
umile, abitante di un borgo sconosciuto della Giudea al tempo
dell’imperatore Augusto, è investita di una grazia infinita: un
messaggero di Dio le annunzia che sarà madre per opera dello
Spirito Santo e il bambino che nascerà da lei sarà il Figlio di
Dio. L’Altissimo, dunque, per attuare il suo disegno di salvezza
e inviare nel mondo suo Figlio, chiede il consenso ad una
ragazza che spalanca il cuore, la mente, il grembo al dono
immenso di Dio.
Nella lettera ai Galati (4, 4) san Paolo dice: Quando venne
la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da
donna, nato sotto la legge, a sottolineare che
l’incarnazione è l’inizio del compimento della salvezza e delle
preparazioni di Dio. Dio quindi ha preparato l’evento
dell’incarnazione attraverso la storia sacra e tutta la storia
in genere, perché il Verbo fatto carne fosse il
centro, il punto di arrivo e di partenza, il significato ultimo
di tutta la storia. Il Verbo eterno del Padre, essendo concepito
come vero uomo nel seno di Maria, è Cristo, cioè unto dallo
Spirito sin dal suo concepimento; tuttavia la rivelazione di sé
sarà progressiva nel tempo, fino alla manifestazione ai
discepoli (cfr. CCC 486).
A
questo punto non possiamo parlare di Gesù senza soffermarci su
sua madre Maria e affermare che tutto ciò che la Chiesa crede di
Lei si fonda unicamente su quello che essa crede di Cristo, e
ciò che insegna su Maria illumina la fede in Gesù.
Maria è la persona più amata e venerata dalla cristianità, la
più raffigurata nei secoli, anche se di lei non si conosce il
volto (S. Agostino); tuttavia ciò che noi conosciamo sul suo
conto sono i tratti fondamentali desunti dal Vangelo e dalla
Tradizione. La grandezza di quanto è avvenuto in Maria non deve
indurci a relegarla nella nicchia dei «santi impossibili o
irraggiungibili»; sappiamo invece che la sua fu una vita
ordinaria, concreta, fatta di lavoro e fatica quotidiana. Gli
aspetti della sua fede furono limpidi e oscuri insieme e la sua
esistenza non fu affatto diversa da quella delle donne del suo
tempo.
A
Maria non è stato risparmiato il peso di vivere eventi
drammatici fin dall’inizio, di dover attraversare dubbi,
angosce, desolazioni fino alla sofferenza massima: vedere il
Figlio morire crocifisso. Sempre a lei, però, il Padre donò la
gioia più grande: vederlo risorto e ricevere il dono dello
Spirito Santo insieme ai discepoli nella Pentecoste. In ultimo
Maria, partecipe in tutto sulla terra della vita di Gesù, è
insieme a lui coronata di gloria in cielo, ove risiede in anima
e corpo.
Il
momento determinante della vita di Maria, il compimento di tutto
quello che precede e segue è, senza dubbio, l’annunciazione:
quest’umile ragazza da’ il suo consenso umano e
libero ad un Dio che “bussò e chiese il permesso” prima di
entrare da lei. Per questo non si potrà mai considerarla uno
strumento passivo nelle mani di Dio, né tanto meno costretto o
manovrato. Tutta la missione di Maria si riassume nella sua
maternità: ella è madre di Gesù e madre nostra in lui, come dice
sant’Agostino: È madre delle membra di Cristo, perché ha
cooperato con la sua carità alla nascita dei fedeli nella
Chiesa, i quali di quel Capo sono le membra (De sancta
virginitate 5, 6).
Questa missione materna
- come afferma il Concilio - perdura senza soste dal momento
del consenso portato all’annunciazione e mantenuto senza
esitazione sotto la Croce, fino al coronamento di tutti gli
eletti (LG 58).
Maria donna unica: i privilegi mariani
La
Chiesa attribuisce alla Vergine Maria l’espressione biblica del
Cantico dei Cantici: Tota pulchra es, o Maria! Tutta
bella sei o Maria! La via della bellezza è forse quella giusta
per capire la logica dei privilegi mariani che dipingono una
sorta di fascino sul suo volto.
Queste “bellezze” sono anche i dogmi che la Chiesa ha
riconosciuto per la Madre del Signore. Vediamoli insieme.
1. Maria Madre di Dio: la Theotòkos.
La
prima e più grande prerogativa mariana, anche in ordine di
tempo, è senza dubbio il dogma di Maria Madre di Dio. Maria,
chiamata nei vangeli la «Madre di Gesù», prima della nascita del
Figlio è stata acclamata da Elisabetta «Madre del mio Signore»;
infatti colui che è stato concepito in virtù dello Spirito Santo
è diventato veramente suo figlio secondo la carne, il Figlio
eterno del Padre, la seconda persona della Ss.ma Trinità. Per
questo la Chiesa confessa che Maria è veramente Madre di Dio (CCC
495).
La
maternità divina appare come il mezzo mediante il quale Dio
attua il piano di salvezza: ma perché il Verbo ha preferito
nascere da una donna, piuttosto che discendere dal cielo con un
corpo adulto formato dalla mano di Dio, in maniera da essere
compreso meglio dai suoi contemporanei? Perché voleva essere
l’autentico germoglio della stirpe che voleva salvare, perché
voleva salvarla dall’interno e non mediante un “pronto soccorso”
piovuto dall’alto, non come un estraneo che interviene da fuori,
ma mediante una salvezza tratta dall’umanità stessa. Dio voleva
soccorrere l’umanità come un fratello, sia perfettamente uomo
che perfettamente Dio; in breve, un mediatore perfetto che
riunisse nella sua persona le due parti da salvare. Se il I
Concilio di Calcedonia (325) aveva definito Gesù Cristo vero
Dio, Maria è madre non della divinità di Cristo o dell’uomo
Gesù, ma è genitrice di Dio che in lei assunse
umana carne. La maternità di Maria è il modello più alto e più
perfetto - dopo quello dell’unione ipostatica avveratasi in
Cristo, per cui in lui sussistono in ugual misura e
distintamente due nature, umana e divina, senza confusione né
mutamento (abbiamo parlato di questo nel numero precedente) - è
il modello della fecondità insita nell’unione tra la creatura e
Dio. A nulla le sarebbe valso essere madre fisica del Verbo se
questo stesso Verbo non lo avesse accolto prima, con la fede,
nel cuore. Per questo sant’Agostino esclama: Maria fu più
beata per aver partorito con la fede Cristo, che per aver
concepito la carne di Cristo. La materna fecondità non sarebbe
stata di nessun giovamento per Maria, se ella non avesse
ospitato Cristo prima nel suo cuore che nella sua carne (De
Sancta Virginitate 3). Per questo la più bella e più grande
beatitudine di Maria sta nell’esclamazione di Elisabetta: “Beata
te, che hai creduto” (Lc 1, 45).
2. Perpetua verginità
Il
primo dei Papi che proclami e difenda ufficialmente la perfetta
e perenne verginità di Maria Madre di Dio è Siricio (392), una
credenza peraltro già ammessa dal sentimento soprannaturale dei
fedeli e proclamato dal magistero ordinario della Chiesa. In
sintesi si riassume in tre aspetti:
a)
verginità prima del parto: Maria concepì il Verbo di Dio,
quanto alla sua natura umana, senza alcun intervento di uomo (Lc
1, 34). Le testimonianze di questa realtà le troviamo nella
Scrittura, nei Vangeli in particolare dove Gesù è sempre
presentato come figlio di Maria, a cominciare dal prologo di
Matteo: Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla
quale è nato Gesù chiamato Cristo (1, 16);
b)
verginità dopo il parto: Maria dopo la nascita di Gesù
fino alla sua morte, non ebbe altri figli né da Giuseppe né da
altro uomo, quindi la sua perfetta integrità di mente, di cuore,
di sensi non soffrì la minima violazione. L’antica convinzione
della Chiesa è che la consacrazione verginale di Maria è stata
sigillata e vivificata nel suo cuore dallo Spirito Santo;
c)
verginità nel parto: Maria diede alla luce il suo Figlio
divino rimanendo illesa nel sigillo della sua verginità, che non
fu alterato dal passaggio del corpo vero e reale di Cristo, come
quando il suo vero corpo risorto passò attraverso le porte
chiuse nel cenacolo. Questo secondo aspetto del dogma è quello
che ha fatto più discutere teologi e mariologi recenti, perché
non si riusciva a capire di che natura fosse questa verginità di
Maria. Ma situare il problema sul piano anatomico e fisiologico
è oscurare il senso stesso della Tradizione, senza risultati
apprezzabili. La verginità di Maria non deve essere affermata a
detrimento della sua maternità per cui, secondo la Tradizione,
Maria è perfettamente madre e allo stesso tempo vergine, come la
divinità di Cristo non diminuisce la sua umanità. Fermiamoci
sull’essenziale, il significato religioso di questo mistero. Per
i Padri della Chiesa esso non è tanto un privilegio di Maria
quanto un appannaggio della nascita di Cristo, poiché erano
penetrati nell’unità dogmatica e simbolica che lega tra loro le
due nascite del Verbo: nascita dal Padre da tutta l’eternità e
nascita dalla Vergine nel tempo. La seconda nascita ha valore di
segno in rapporto alla prima, così che Dio ha fatto partecipare
questa nascita corporale alla condizione soprannaturale e
spirituale dell’altra, affrancandola sotto certi rapporti dai
determinismi della carne. Infine il miracolo della nascita
verginale manifesta la pienezza del mistero dell’Immacolata
Concezione e prelude al mistero dell’Assunzione. La grazia
preservatrice che esenta Maria dal peccato originale l’affranca
ugualmente dalla sue principali conseguenze personali, non
solamente nell’anima ma anche nel corpo. Il mistero che circonda
Maria - verginità perpetua, immacolata concezione, assunzione al
cielo - ci ricorda verità misconosciute quanto essenziali al
mistero cristiano: il corpo è parte integrante dell’uomo, è
salvato da Cristo e associato a tutto il compimento della
salvezza, promesso ad un destino eterno.
La
straordinarietà di Maria è proprio questa: essere soggetto di
doni divini “impossibili” che però non fanno di lei una “dea”,
ma la rendono così donna e umana da essere per noi madre,
sorella e amica.
3. Immacolata Concezione
Fu
il Beato Papa Pio IX che l’8 dicembre 1854 proclamò, dinanzi
alla Chiesa e al mondo intero, il dogma dell’Immacolato
Concepimento di Maria, ratificando in questo modo secoli di
tradizione biblica, patristica e popolare. In ordine di tempo
l’Immacolata è il primo dei privilegi che adornano la Madre di
Dio, ma la maternità divina ne fu senz’altro il motivo
determinante. Infatti era del tutto conveniente che una Madre
così venerabile risplendesse sempre adorna dei fulgori della
santità più perfetta e, immune interamente dalla macchia del
peccato originale, riportasse il più completo trionfo
sull’antico serpente (Pio IX, Bolla).
Fin
dall’inizio del destino di Maria, tutto è gratuito da parte di
Dio. Fin dal primo istante del suo concepimento ella è ricolma
di grazia e di santità, senza alcun merito che preceda; la
gratuità di questo dono procede unicamente dai soli meriti di
Cristo. È mistero d’amore, di elezione, che non dipende dal suo
oggetto - come quello umano - ma lo crea, in seno al mondo
invecchiato Dio Padre rinnova la creazione alla sorgente,
facendo di Maria la più amabile, la più attraente delle
creature: quella in cui Dio potrà senza compromesso col peccato,
stabilire la sua dimora. L’Immacolata è il trionfo della grazia
di Dio.
Questa “bellezza” di Maria è la sola che fu confermata dal
cielo: lei stessa apparve a Bernadette a Lourdes il 25 marzo
1858, quattro anni dopo la promulgazione del dogma, dicendo: «Io
sono l’Immacolata Concezione».
4. Assunzione di Maria al cielo
È il
dogma più recente, definito da Papa Pio XII il 1° novembre
dell’Anno Santo 1950. La definizione di fede si riduce a questa
espressione: Al termine della sua vita terrena, l’Immacolata
Madre di Dio, Maria sempre Vergine è stata presa in cielo corpo
e anima nella gloria celeste (Cost. Munificentissimus Deus).
Il
Papa proclama formalmente la presenza attuale di Maria con
Cristo risorto nella comunione della gloria; il corpo e l’anima
dell’Immacolata preservati da ogni peccato; il corpo della
Theotòkos che ha generato il Verbo di Dio, questo corpo di
cui lo Spirito Santo ha integralmente preservato la verginità,
non è stato prigioniero dei legami della morte.
Maria è con suo Figlio per sempre, la riunione con lui è
definitiva, senza ombra; la Vergine non conosce più Gesù
attraverso i segni limitati terreni, ma nel faccia-a-faccia
eterno. Maria ha sempre avuto un’anima di Madre nei riguardi di
tutti gli uomini, la sua maternità si è sviluppata a partire dai
misteri della vita di Cristo, dall’incarnazione fino al calvario
dove fu affidata da lui stesso al discepolo Giovanni, prototipo
di ogni figlio. Mentre prima, immersa nell’ombra della fede per
cui il Concilio la definisce pellegrina nel cammino della
fede come ciascuno di noi, non conosceva il potere e
l’effetto della sua intercessione, ora conosce tutti i suoi
figli in Dio. Prima ci amava nel figlio Gesù di un amore
universale ma indistinto; nella visione beatifica ci conosce in
modo individuale e personale, di una conoscenza materna più
intima di quella degli altri santi.
Abbiamo parlato di Maria Madre del Signore e, in modo alquanto
schematico, abbiamo detto qualcosa di lei così come la Chiesa la
onora, la venera, la ama. In questi tempi, così tragici ed
oscuri ma anche belli e carichi di grazia, Papa Benedetto ce la
indica - nella sua ultima enciclica - con queste parole:
Maria,… rimani in mezzo ai discepoli come la loro Madre, Madre
della Speranza. Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra,
insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via
verso il regno di tuo Figlio! Stella del mare, brilla su di noi
e guidaci nel nostro cammino! (Benedetto XVI, Spe Salvi).
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Gennaio / Febbraio 2008 - Anno XVI - n° 1
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Patì sotto
Ponzio Pilato, il terzo giorno risuscitò da morte
- sesta parte - |
«Patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto; il terzo giorno
resuscitò da morte».
Il
Simbolo apostolico, essendo un concentrato di verità, non si
sofferma a parlare dei singoli misteri della vita di Cristo, ma
propone alla fede dei cristiani le verità principali di Gesù:
l’Incarnazione (di cui abbiamo già parlato nei numeri
precedenti) e la passione-morte-resurrezione.
Vediamo ora di contemplare-meditare quest’ultima.
La Croce: condanna e salvezza
La
croce è il simbolo cristiano per eccellenza. Con essa ci
segniamo la fronte nel battesimo, la tracciamo su di noi
invocando la Trinità, ne abusiamo anche in tantissime occasioni:
se portata addosso, per alcuni è segno d’appartenenza a Cristo,
per altri è ciondolo che penzola irriverente dalle più svariate
parti del corpo.
La croce è la sintesi
di tutto il messaggio cristiano: qui si ferma la discesa di Dio
sulla terra iniziata con l’Incarnazione nel grembo di Maria; è
la prova di un condannato a morte, patibolo infame di un
colpevole, segno di contraddizione e scandalo di fronte al quale
non si può rimanere indifferenti, a meno che l’abitudine non
abbia creato il callo nella nostra coscienza.
Ma perché Dio ha
scelto proprio questa strada per la redenzione del mondo e
perché ha consegnato il suo Figlio Gesù, il più innocente degli
uomini, proprio ad una morte così infamante e dolorosa come
questa?
Il Catechismo dice
che la morte in croce di Gesù non è stata “frutto del caso in un
concorso sfavorevole di circostanze. Essa appartiene al mistero
di Dio” (CCC 599) il quale ha voluto che Cristo-Verbo incarnato,
assumesse in sé ogni uomo separato da Dio a causa del peccato, e
si rendesse totalmente solidale con noi peccatori perché fossimo
riconciliati in Lui con il Padre. In altre parole: l’uomo aveva
peccato (colpa originale) e a causa di questo aveva ereditato la
morte fisica e la privazione dell’amicizia di Dio (grazia
santificante). L’Uomo Gesù ha assunto su di sé il male
dell’uomo, è passato attraverso la sofferenza e la morte (comune
eredità dei mortali) per salvare e redimere le creature nella
resurrezione. Così la morte non è più l’ultima parola sulla
nostra vita terrena e, anche se il corpo ritorna alla terra
risorgerà comunque alla fine dei tempi con Cristo,
ricongiungendosi all’anima.
Il
segno-sacramento che esprime questo mistero di salvezza è il
Battesimo; siam sepolti con Cristo nella sua morte (gesto
dell’immersione nell’acqua) e risorgiamo con lui (emersione).
Possiamo inoltre considerare la morte di Cristo sotto due
aspetti: il profeta che muore come testimone della verità e, più
profondamente, il Figlio di Dio che perdona. Cristo è il profeta
che paga con la vita l’annuncio della verità, è il Messia che
ricusa il potere e la gloria e sceglie la via della sconfitta,
della povertà. Gesù è anche il Figlio obbediente al Padre,
totalmente “libero” di fare la Sua volontà, anche se questa
presuppone la sofferenza e la morte, perché sa che nel cuore del
Padre riposa la sapienza infinita e l’amore.
Anche se nel suo cammino verso la croce Gesù non conosceva del
tutto i nascosti pensieri di Dio - anche questo faceva parte del
suo abbassamento umano - tuttavia nell’oscurità ha accettato la
volontà del Padre.
Pure
attraverso il perdono Gesù manifesta la sua signoria sulla
morte; infatti, come Egli dispone della vita in obbedienza al
Padre così dispone del proprio perdono come del perdono stesso
di Dio. Perdonando nell’atto di morire, Cristo comunica
definitivamente la misericordia di Dio ai suoi carnefici e - in
loro - a tutta l’umanità che ne condivide l’atteggiamento (CCC
616).
La
croce fu da subito ostacolo nella predicazione degli apostoli.
Già Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1, 22-23) affermava
che la croce è scandalo per i giudei e insensatezza per i
pagani; quindi il simbolo cristiano non trovò facile accoglienza
nella mente e nella comprensione dei primi credenti e sempre la
croce creerà disagio e scandalo. Tuttavia la Chiesa delle
origini si ricordava delle parole di Gesù nell’ultima cena; alla
luce della resurrezione e con il dono dello Spirito riuscì a
rileggere e interpretare tutto quello che Cristo aveva detto e
fatto, e se la scandalosa morte in croce era stata causata
dall’ostilità degli uomini, dietro tutto ciò c’era la volontà
salvifica di Dio Padre, l’amore come salvezza. Non a caso Paolo,
sempre nella prima lettera ai Corinzi, dice che “Dio ha scelto”
ciò che nel mondo è debole, piccolo, disprezzato e incompreso
(quindi la croce e la sofferenza) per confondere la sapienza di
questo mondo: questa è la pedagogia di Dio.
Cristo Gesù ha dunque vinto la morte passando attraverso la
morte stessa, prendendo su di sé il peccato del mondo, soffrendo
per noi e in vece nostra, secondo il legame solidale esistente
con tutti gli uomini; la sua morte diventa ora, per tutti coloro
che si trovano sotto il destino ineluttabile della morte fisica,
sorgente di nuova vita. La croce di Gesù ha un significato
esistenziale immediato per la vita cristiana, perché seguire
Gesù è possibile solo prendendo su di sé la croce; il cristiano
non è esente, tanto più se ci è passato il Maestro prima di noi.
È vivere il mistero pasquale (vedi qui a fianco) perché
Gesù l’ha vissuto prima di noi e nessuno è dispensato dal
percorrere la via battuta dal Signore.
Qualcuno si potrebbe
chiedere: che significato ha questo per la nostra vita di tutti
i giorni?
La
sequela della croce può assumere aspetti diversi: persecuzione,
calunnia, povertà, prove, lutto, malattia, dolore, morte; tante
volte il mistero della sofferenza entra nella nostra esistenza e
ci chiediamo: perché? Tante e diverse sono le “croci”, ma la
risposta che Gesù ci offre non è quella che spiega tutto
razionalmente con soluzioni sommarie e rassegnate; è invece
quella di Colui che ne conferisce il “senso”, di Chi si fa lui
stesso vicino, prossimo, presenza amorosa e compassionevole. La
croce, pur rimanendo sempre scandalo e contraddizione, è pure
segno di speranza e firma dell’amore di Dio per ciascuno
di noi. Se la croce è speranza, allora ad essa fa seguito la
resurrezione che completa tutto il significato della vita di
Cristo e rivela che quel Gesù di Nazareth è Dio, che ha vissuto
l’esistenza come dono totale di sé, che è lui il Signore della
vita, che la morte non è più condanna ineluttabile ma squarcio e
apertura verso il cielo.
Il terzo giorno resuscitò da morte
L’annunzio
sconvolgente della resurrezione (At 13, 32-33) è la verità
culminante della nostra fede in Cristo, creduta e vissuta dalla
prima comunità cristiana, trasmessa come evento fondamentale
dalla Tradizione (Traditio) e giudicata immutabile nei
secoli cristiani. Mai la Chiesa potrà cambiare o annacquare la
Verità della
resurrezione di Cristo, perché - come dice san Paolo - tutto
risulterebbe vano e insulso, a cominciare dalla fede in Dio per
finire con la nostra stessa vita. A che pro crederemmo in
“questo” Dio rivelato se alla fine il Figlio Gesù, incarnato
morto e sepolto, non avesse trionfato sulla morte? Che senso
avrebbe il messaggio di Dio e Dio stesso?
La resurrezione di
Cristo invece è un fatto reale, constatabile con avvenimenti
storici certi (CCC 639); il sepolcro fu trovato vuoto e anche se
questo solo non sarebbe sufficiente per una prova diretta,
tuttavia ha costituito da sempre una dimostrazione essenziale.
Trovare il sepolcro privo del defunto è stato, infatti, il primo
passo verso il riconoscimento veridico del passaggio di Gesù
dalla morte alla vita e la testimonianza delle donne, dei
discepoli, degli apostoli che l’hanno incontrato vivo e glorioso
è la certezza della nostra fede. Qui si autentica la parola di
s. Giovanni nella sua prima lettera: Ciò che era fin da
principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto
con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le
nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita, - poiché
la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò
rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era
presso il Padre e si è resa visibile a noi - quello che abbiamo
veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi (1, 1-3). E
chi parla in questa lettera è proprio uno che ha visto e
toccato il Verbo fatto carne risorto dalla morte. La
resurrezione di Cristo è un fatto che si è verificato in uno
spazio e tempo storici e compiutasi nella persona storica di
Gesù di Nazareth, la cui storia personale è un evento completo
al quale si accede unicamente nella fede, perché soltanto a Dio
è possibile.
L’inno pasquale che
si canta nella “veglia delle veglie” il Sabato santo - l’Exultet
- dice: O notte, tu solo hai meritato di conoscere il
tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi. Nessuno,
infatti, è stato testimone oculare dell’avvenimento più
strabiliante della storia e nessun evangelista lo ha descritto;
solo il silenzio è stato spettatore di quell’esplosione di
energia, di luce, di potenza divina che ha condotto il Signore
fuori del sepolcro e gli ha donato una vita immortale. Ma la
vita che Cristo ha ripreso non è quella terrena di prima, come
poteva essere quella di Lazzaro che lui stesso aveva
risuscitato; infatti Lazzaro è morto di nuovo ad un certo punto
della sua vita. Cristo, invece, non muore più, la morte non ha
più potere su di lui (Rm 6, 8-9); la vita di Cristo risorto è
un’altra vita al di là dello spazio e del tempo, il suo corpo è
reale ma glorificato, passa attraverso le porte chiuse e mangia
il pesce arrostito (Lc 24, 41).
La resurrezione
costituisce la conferma di tutto ciò che Gesù ha fatto e
insegnato, è il compimento delle promesse dell’antico
testamento, conferma la verità della sua divinità
ed è il coronamento del mistero dell’Incarnazione (CCC 651-652).
Resuscitando Gesù,
Dio onnipotente manifesta definitivamente se stesso come Signore
della vita e della morte, come colui che ha in mano ogni cosa e
a cui tutto appartiene; egli solo è il vivente che dona
la vita, lui solo amore creatore al quale ci si può affidare
totalmente anche nel fallimento di ogni umana possibilità.
Credere nella
resurrezione di Gesù non è un qualcosa di aggiunto alla fede o
un di più d’abbellimento, quasi se ne possa fare a meno: è
l’essenza della fede in Dio.
Aderire alla fede
pasquale si tratta, in ultima analisi, di avere il coraggio di
affidarsi interamente a Dio nel proprio vivere e morire, di
vivere credendo che alla fine la vita avrà sempre l’ultima
parola sulla morte e credere anche nella nostra personale
resurrezione, alla fine del tempo.
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Marzo / Aprile 2008 - Anno XVI - n° 2
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Credo nello Spirito Santo
- settima parte -
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...che
è Signore e dà la vita
Per
fede crediamo che lo Spirito Santo è la terza persona della
Ss.ma Trinità e che con il Padre e il Figlio costituiscono un
unico Dio. Non è certo un mistero facile da capire né da
afferrare, ma la fede ci aiuta nella comprensione, come afferma
anche sant’Agostino: Credo per capire e capisco per credere,
cioè la fede mi permette di accogliere il mistero di Dio e
penetrarlo secondo le mie capacità umane, e la comprensione mi
aiuta ad accrescere la fede.
Credere nello Spirito Santo significa credere innanzi tutto in
Dio-Spirito,
consustanziale (cioè della stessa sostanza) al Padre e il
Figlio e che “con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato”.
Egli è all’opera con le altre Persone divine da sempre, anche se
è solo negli “ultimi tempi”, inaugurati con l’Incarnazione del
Verbo di Dio, che Egli viene rivelato, conosciuto, donato. È
Gesù che ci rivela, oltre il Padre, lo Spirito e lo dona alla
Chiesa, dopo la sua resurrezione, nella Pentecoste.
L’attività dello Spirito
Lo
Spirito Santo è il dono d’amore che il Padre e il Figlio si
scambiano dall’eternità; è Amore-Persona, è carità che noi non
possiamo conoscere direttamente ma solo nel momento in cui ci
rivela Gesù Cristo e suscita in noi la fede che lo accoglie.
Quindi noi conosciamo lo Spirito dagli “effetti” che sentiamo in
noi, dalla sollecitazione a compiere il bene, dall’efficacia
della sua grazia che opera attraverso i sacramenti.
Parlare dello Spirito Santo, secondo chi scrive, e condensare
tutto in poche righe è davvero arduo; tuttavia possiamo
riassumere in tre brevi punti l’attività dello Spirito:
-
Lo Spirito spalanca davanti ai nostri occhi stupiti la
realtà magnifica della creazione. Lo Spirito di Dio che
“aleggiava sulle acque” ai primordi della creazione (Gen
1, 2) da’ la vita ad ogni cosa, dalla più grande alla più
piccola e apparentemente insignificante; ma non solo: lo
Spirito creatore sostiene ogni istante l’universo creato,
dona nuova energia, conduce ogni divenire e si mostra
soprattutto là dove la vita esplode, genera, fiorisce. Lo
Spirito Santo è qui, per questo non è concesso all’uomo
modificare o stravolgere le leggi della natura, perché sono
create direttamente dallo Spirito di Dio;
-
Lo Spirito di Dio abita nei nostri cuori e di questa
presenza ne parla la Scrittura, in particolare san Paolo e
san Giovanni. Se lo Spirito abita in noi significa che anche
il Padre e il Figlio, che non sono separabili da Lui, sono
dentro di noi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il
Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora
presso di lui” (Gv 14, 23). La grazia di questo abitare in
noi, di questo dono, ci è infusa mediante il sacramento del
Battesimo ed è portata a pieno compimento con la Cresima,
nella quale riceviamo lo Spirito come sigillo, il
quale indica l’effetto indelebile dell’Unzione dello Spirito
Santo nel sacramento (carattere). “Il sigillo segna
l’appartenenza totale a Cristo, l’essere a suo servizio per
sempre” (CCC 1296). Anche la nostra capacità di amare, che è
dono insito nella natura umana, viene potenziata e portata
al grado di virtù dallo Spirito che “riversa l’amore di Dio
nei nostri cuori” (Cfr. Rm 5, 5); l’amore umano di natura
presente in noi, viene elevato a virtù soprannaturale dallo
Spirito infuso nei nostri cuori. Grazie a questo dono noi
siamo resi capaci di amare Dio, di amare come ama Gesù, di
amare solo per amare: è la
carità
infusa che ama Dio solamente perché lui è Dio e per questo
Egli merita tutto il nostro amore. Se la carità è riversata
nei nostri cuori dallo Spirito e grazie a questo dono siamo
resi capaci di amare Dio, sant’Agostino arriva a concludere:
Cerca come possa l'uomo amare Dio: assolutamente non lo
troverai se non nel fatto che egli ci ha amati per primo. Ci
ha dato se stesso come oggetto da amare, ci ha dato le
risorse per amarlo. Cosa ci abbia dato al fine di poterlo
amare ascoltatelo in una maniera più esplicita dall'apostolo
Paolo, che dice: La carità di Dio è diffusa nei nostri
cuori. Ma come? Forse per opera nostra? No. Ma allora come?
Attraverso l'azione dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Poiché dunque tanto grande è la fiducia che abbiamo, amiamo
Dio attraverso Dio. Senz'altro! Siccome lo Spirito Santo è
Dio, noi amiamo Dio attraverso Dio. Cosa potrei dire di più
che amiamo Dio attraverso Dio? Effettivamente, se ho potuto
affermare che l'amore di Dio è diffuso nei nostri cuori
attraverso l'azione dello Spirito Santo che ci è stato
donato, ne segue che, essendo lo Spirito Santo Dio, noi non
possiamo amare Dio se non per mezzo dello Spirito Santo,
cioè non possiamo amare Dio se non attraverso Dio (Disc.
34, 3-4);
-
tutte le azioni dello Spirito Santo sono soltanto
un’anticipazione iniziale, la caparra della pienezza che
sarà rivelata nella gloria futura: “E' Dio stesso che ci
conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito
l'unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra
dello Spirito Santo nei nostri cuori” (2 Cor 21-22). Lo
Spirito donato è soltanto principio e anticipo del
compimento definitivo e in tal modo lo Spirito è la forza
dell’esistenza vissuta nella speranza. Lo Spirito che abita
in noi “geme” per il mondo non ancora compiuto, per una
creazione che soffre nelle doglie del parto ed è avversata
dal male nelle sue più svariate forme: ingiustizia,
persecuzione fino al martirio, sfruttamento, oppressione dei
fratelli, mancanza di rispetto verso la sacralità della
vita. Lo Spirito ci dà la forza e ci sostiene, ci comunica
coraggio e grandezza d’animo affinché ci possiamo impegnare
per Cristo e per il suo regno.
Il nome e i simboli dello Spirito Santo
“Spirito Santo è il nome proprio di colui che noi
adoriamo e glorifichiamo con il Padre e il Figlio. La Chiesa lo
ha ricevuto dal Signore e lo professa nel Battesimo dei suoi
nuovi figli” (CCC 691). Il termine Spirito traduce
l’ebraico ruah e il greco pneuma che significano
soffio aria vento. In Gv 3, 1 ss, Gesù utilizza proprio
quest’immagine per indicare lo Spirito: egli è imprendibile,
impalpabile proprio come il vento, non sai né da dove venga né
dove vada, ma se ne sentono gli effetti e se ne percepisce la
presenza divina. Se i termini Spirito e Santo sono
attributi divini peculiari a tutte e tre le Persone, sia
la Scrittura che la Liturgia e il linguaggio teologico
congiungendo i due termini indicano esclusivamente e senza
equivoci la terza persona della Ss.ma Trinità.
La
sacra Scrittura chiama lo Spirito con diversi appellativi: Gesù,
quando ne promette la venuta, lo chiama Paracleto (Colui
che è chiamato in aiuto, ad-vocatus), termine comunemente
tradotto con Consolatore e Intercessore, essendo
Gesù il primo consolatore e intercessore, che lo chiama anche
Spirito di verità.
I
simboli
Della simbologia e dei nomi dello Spirito Santo è ricca la
Scrittura, proprio perché Egli, non avendo un volto vero e
proprio (mi si passi l’espressione) come Cristo Gesù o come il
Padre al quale, (dato l’appellativo) attribuiamo comunque una
fisionomia, è suscettibile di simboli, nomi, appellativi, anche
a seconda della sua missione all’interno della Trinità. Così lo
potremo chiamare Amore, Consolatore, Dono del Padre, Spirito di
adozione, Spirito di Cristo e via dicendo, designando con tutti
questi nomi il solo ed unico Spirito Santo. Dalla simbologia
biblica, in particolare, si può ricavare che lo Spirito è:
Acqua:
durante il Battesimo, dopo l’invocazione dello Spirito Santo, il
simbolismo dell’acqua diventa il segno sacramentale efficace
della rinascita, significa realmente che la nostra nascita alla
vita divina ci è donata dallo Spirito;
Olio:
l’unzione è un simbolo talmente espressivo dello Spirito Santo
da esserne diventata il sinonimo, per cui quando si dice unzione
nel linguaggio biblico-liturgico ci si riferisce all’effusione
dello Spirito. Per cogliere l’efficacia di questo emblema
bisogna rifarsi al significato dell’olio nel mondo
medio-orientale e quindi in quello biblico; già in Gen 28, 18
Giacobbe erige la pietra su cui aveva poggiato il capo e unge
con olio la sua sommità, a significare che egli sottrae la stele
ad una destinazione profana e la consacra a Dio. Inoltre, dopo
avergli versato un’ampolla di olio sul capo, Samuele dice a
Saul: “Il Signore ti ha unto capo di Israele suo popolo” (1 Sam
10, 1); nel bellissimo salmo 22, 5 il salmista così descrive
l’ospitalità offerta da Dio: “Cospargi di olio il mio capo”,
volendo significare che l’unzione con olio comporta benedizione,
consacrazione, riconoscimento da parte di Dio e separazione dal
consorzio degli uomini. Essere Messia, cioè
l’unto di Dio, in greco Christòs, comporta la massima
distinzione che proviene da Dio e a Dio rimanda. Infatti
la vera unzione operata dallo Spirito è stata proprio
quella di Gesù. Gesù è l’Unto di Dio per eccellenza ma, a
differenza dei re e dei profeti che nell’Antico Testamento
venivano unti e consacrati con olio comune, il figlio di Dio è
stato unto (quindi solennemente investito, inondato) di Spirito
Santo, la sua umanità è consacrata dallo Spirito e la sua
missione è compiuta nello Spirito;
Fuoco:
simboleggia l’energia trasformante degli atti dello Spirito
Santo: il fuoco-Spirito trasforma tutto ciò che tocca e lo rende
come se stesso. Se pensiamo che nell’AT il fuoco è una delle
immagini preferite dell’essere e agire di Dio (si pensi al
roveto ardente, alla colonna di fuoco che guidava gli ebrei nel
deserto, al monte Sinai coperto di fuoco nella teofania, al
trono di gloria circondato di fuoco nella visione di Daniele, e
così via) capiamo molto bene come il giorno di Pentecoste lo
Spirito sia sceso sugli apostoli in forma di fiammelle ardenti.
“Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che
fosse già acceso!” (Lc 12, 49); così si esprime Gesù in un
momento di intimità con i discepoli. Proprio questo fuoco che
lui ha portato si è avverato nella discesa dello Spirito
Paraclito, trasformando gli apostoli e battezzando la Chiesa
intera;
Nube
e luce:
sono due realtà inseparabili nella manifestazione dello Spirito.
Nelle teofanie dell’AT la nube - ora oscura ora luminosa -
rivela il Dio vivente velando la sua Gloria: con Mosè sul monte
Sinai, presso la Tenda del convegno e al momento della
dedicazione del tempio fatta da Salomone. Tutte queste figure
sono state portate a compimento da Gesù nello Spirito. Questi
scende su Maria e la avvolge “con la sua ombra” (cfr. Lc 1, 35)
rendendola Madre del Figlio di Dio; anche nell’evento della
Trasfigurazione sul Tabor la nube - lo Spirito - avvolge Gesù e
dalla nube stessa si sente proclamare: “Questi è il mio Figlio,
l’eletto: ascoltatelo!” (Lc 9, 35);
La
mano è ugualmente simbolo dello Spirito: Gesù
imponendo le mani guariva i malati e benediceva i bambini. È
inoltre mediante l’imposizione delle mani che viene conferito lo
Spirito dagli Apostoli (At 8, 17) e la Chiesa ha conservato
questo segno efficace dell’effusione in tutte le epiclesi
(invocazione dello Spirito) sacramentali. Lo Spirito è anche il
dito di Dio che scaccia i demoni (Lc 11, 20); la
liturgia di Pentecoste, nell’inno Veni Creator Spiritus,
invoca la terza persona della Trinità come digitus paternae
dexterae, dito della destra del Padre;
La
colomba è il simbolo più comune e più noto a noi
occidentali, perché è entrata a far parte dell’iconografia dello
Spirito Santo. Come quando Cristo uscì dalle acque del Giordano
dopo il suo Battesimo e si aprirono i cieli e lo Spirito, sotto
forma di colomba, scese su di lui e in lui rimase, così scende
su ciascun cristiano nel Battesimo e prende dimora nel suo
cuore. La colomba è anche sinonimo della pace donata dallo
Spirito, a ricordo del diluvio universale e di Noè, che fece
uscire dall’arca tre colombe e solo l’ultima gli recò nel becco
un ramoscello fresco di ulivo, segno della cessazione del
diluvio e della pace realizzata da Dio con l’umanità.
Ci
sarebbe tanto e tanto da contemplare e tanto da parlare a
proposito dello Spirito Santo, ma lo spunto per la conclusione
di questo articolo (che completeremo nel prossimo numero
parlando dei doni e dei frutti dello Spirito Santo) me lo dà
Papa Benedetto che, in occasione della
gmg di Sydney,
nell’omelia della veglia ha parlato proprio dello Spirito Santo,
anche perché il tema della giornata è stato: “Avrete forza dallo
Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni fino
agli estremi confini della terra” (At 1, 8).
Spiegando il tema della giornata ai giovani convenuti, il Papa
si chiede: come avviene questa testimonianza di cui parla Gesù?
«Noi
siamo destinatari dell’immenso dono del Padre che ci fa figli
nel Figlio attraverso il battesimo, e questa trasformazione la
realizza lo Spirito di Dio. La nostra testimonianza è offerta ad
un mondo fragile, frammentato, spezzato, dove il relativismo non
riesce a “guardare” la realtà nell’ordine e nell’unità, poiché
si sofferma sul particolare, sulla verità relativa - la “mia”
appunto - sull’importanza del conveniente e utile qui e adesso.
E questo tipo di pensiero-prassi non crea certo unità, valore di
cui il mondo ha proprio bisogno e che cerca; l’unità è un dono
che viene dallo Spirito ed è capace di fare di noi una cosa
sola, anche con tutte le nostre più svariate diversità. Non lo
fa già all’interno della Chiesa? La Chiesa-istituzione è debole,
è vero, è fragile perché fatta da uomini peccatori, ma Cristo le
ha promesso l’assistenza perenne del suo Spirito che fa di lei
la depositaria delle verità della fede. Non si può separare lo
Spirito dalla Chiesa, pena il renderla una istituzione qualsiasi
alla stregua di una S.p.A.! Non si deve cedere alla tentazione
di “andare avanti da soli”, anche se magari più bravi o
perfetti. Lo Spirito è il grande dono che Cristo ha fatto alla
Chiesa e, se è fonte di unità, la nostra testimonianza più alta
e provocatoria per il mondo così spezzettato è proprio l’unità…
Lo Spirito Creatore - incalza il Papa - è la potenza di Dio che
dà la vita a tutta la creazione ed è fonte di vita nuova e
abbondante in Cristo. Lo Spirito mantiene la Chiesa unita al suo
Signore e fedele alla tradizione apostolica… In tutti questi
modi lo Spirito è datore di unità che ci conduce al cuore
stesso di Dio».
Procedendo nel suo discorso ai giovani, Benedetto si riallaccia
al grande sant’Agostino e al suo insegnamento sulla Persona
dello Spirito Santo: «Egli è Unità, è Amore permanente, è Dono
di Dio, sorgente che sazia davvero la nostra sete più profonda e
ci conduce al Padre. Lo Spirito è amore unificante, durevole,
oblativo; Dio ci dona nientemeno che se stesso; non cerchiamo
noi infatti - attraverso tutte le nostre insoddisfazioni - un
dono eterno? Nella Cresima abbiamo ricevuto la pienezza dello
Spirito Santo e siamo introdotti nella vita divina; ciò che ci
definisce come cristiani non è ciò che facciamo, ciò che
consumiamo o produciamo, ma ciò che riceviamo».
Il
Papa prosegue il suo magnifico discorso alzando di molto il
tiro, spronando i giovani a vivere all’altezza del dono ricevuto
e di non accontentarsi solo dell’effimero, e conclude spingendo
i giovani a “liberare i doni dello Spirito” per trasformare
famiglie, nazioni, comunità, sempre con la libertà di accettare
e aderire al dono di Dio: «Amici, accettate di essere introdotti
nella vita trinitaria di Dio? Accettate di essere introdotti
nella sua comunione d’amore?».
Ho
voluto riportare le parole del Papa sullo Spirito Santo perché
molto eloquenti; il discorso che egli ha rivolto ai giovani di
tutto il mondo è stato di una grande levatura contenutistica e
spirituale, degno di giovani portatori di domande profonde e
desiderosi di risposte adeguate. La Chiesa ha la Risposta
per coloro che cercano il senso e la verità della vita: Cristo
Gesù, Dio fatto uomo e nostro redentore e lo Spirito. E mentre
il mondo vede nei giovani solo merce di consumo e di
sfruttamento, la Chiesa crede in essi chiamandoli a rischiare la
vita e a coinvolgerla in un amore che è per sempre.
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Agosto / Settembre 2008 - Anno XVI - n° 3
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La vita nello Spirito:
le Virtù
- ottava parte - |
Che
cosa e quali sono i doni dello Spirito Santo? E le virtù?
Parleremo prima delle seconde, perché, seguendo la tradizione
della teologia spirituale, i doni sono dati da Dio in aiuto alle
virtù.
Quando un uomo viene battezzato e diventa per ciò stesso figlio
di Dio riceve nel sacramento un “corredo” spirituale che forma
il così detto organismo soprannaturale. Questo lo
abilita a vivere e a comportarsi di fatto come uomo nuovo
trasformato dalla grazia, come un illuminato, dicevano i
primi cristiani.
Questo bagaglio è formato dalle virtù teologali, morali
(cardinali) e dai doni dello Spirito Santo; purtroppo i
cristiani ignorano di possederlo, ben pochi sanno, infatti, di
portare dentro un mondo così prezioso e divino che ci fa
somigliare a Dio, molto più perfetto di quello esterno a noi.
Le
virtù teologali ci mettono in contatto intimo e diretto
con Dio, le virtù morali ordinano e dispongono la nostra
vita morale, i doni dello Spirito ci comunicano le
mozioni divine. Non in tutti i doni e le virtù si sviluppano e
agiscono allo stesso modo; a seconda della ricezione, della
consapevolezza, dell’arrendevolezza ai moti di Dio,
all’accoglienza della grazia il mondo divino produce i suoi
frutti in noi come dice nel Vangelo la parabola del seme:
portano frutto nella misura chi del trenta, chi del sessanta,
chi del cento per uno (Mc 4, 1-20).
Le
virtù come i doni sono, dunque, semi preziosi che necessitano di
essere coltivati, innaffiati, custoditi per consentir loro di
portare frutto. Ma vediamo nelle linee essenziali che cosa sono.
Le Virtù, queste sconosciute
Il
battesimo ci regala il “bagaglio” delle virtù teologali e
cardinali. Le prime - fede, speranza e carità - sono così
chiamate perché si riferiscono direttamente a Dio; è lui
l’oggetto della nostra fede, della speranza della carità.
La
fede è la virtù teologale per la quale crediamo in Dio e
a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato e che la santa
Chiesa ci propone a credere, perché egli è la stessa verità. (CCC
1814). La fede è un dono che non ci possiamo in alcun modo
meritare, quasi avessimo in antecedenza meriti per poter dire:
“poiché io ho fatto questo, Dio mi ha dato la fede come
ricompensa”, assolutamente no. È dono libero e gratuito di Dio
per il quale deve essere sempre ringraziato e deve essere
implorato nella preghiera affinché ce lo conservi sino alla fine
dei nostri giorni (perseveranza finale). La fede nel Dio
cristiano non è intimismo, non deve essere vissuta “in
sacrestia” né tantomeno occultata; deve essere invece
annunciata, testimoniata e manifestata con i mezzi che si hanno
a disposizione, piccoli o grandi, umili o solenni che siano,
nell’ambiente di lavoro e negli ambiti di vita in cui ciascuno è
chiamato a vivere.
La
speranza è la virtù per la quale desideriamo il Regno dei
cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra
fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle
nostre forze, ma sull’aiuto della grazia e dello Spirito Santo (CCC
1817). Sperare non è affatto avere la testa fra le nuvole e
sognare che tutto ci piova dall’alto senza un minimo di impegno
terreno; è, al contrario, “una speranza affidabile, in virtù
della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il
presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed
accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi
possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da
giustificare la fatica del cammino”. (Benedetto XVI - Enc.
Spe salvi, 1). La virtù della speranza salvaguarda dallo
scoraggiamento, sostiene nei momenti di abbandono, dilata il
cuore nell’attesa della beatitudine eterna.
La
carità, che delle tre è la più grande, è la virtù per la
quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro
prossimo come noi stessi per amore di Dio. (CCC 1822). La carità
è il fine di tutta la nostra vita, il motivo per cui ci
muoviamo, esistiamo, operiamo il bene; senza la carità - dice s.
Paolo - niente ha valore, tutto è vano e fine a se stesso. Anche
se compissimo i miracoli e le opere più strepitose, senza la
carità - l’amore per Dio e per il prossimo - non avrebbero alcun
valore. La carità è virtù superiore a tutte le altre e tutte
sono a lei ordinate, è sorgente e termine di ogni pratica
cristiana, anima di ogni nostro agire. Il dono della carità
teologale sublima ed eleva alla sfera soprannaturale la nostra
capacità di amare, di cui siamo dotati naturalmente. Dio ci ha
amati per primo, dice s. Giovanni, ed è in virtù di questo fatto
noi possiamo amare sia Lui che i fratelli, perché anche la
capacità di amare viene da Dio. Infatti, dove c’è l’amore lì c’è
Dio, dice la tradizione cristiana perché Dio è amore.
Dice
il Catechismo: la virtù è una disposizione abituale e
ferma a fare il bene. Essa consente alla persona, non soltanto
di compiere atti buoni, ma di dare il meglio di sé. Con tutte le
proprie energie sensibili e spirituali la persona virtuosa tende
verso il bene; lo ricerca e lo sceglie in azioni concrete (CCC
1803). L’uomo virtuoso è colui che liberamente e gioiosamente
opera il bene, è attratto dal bene, tende sempre al bene come
valore supremo. Le virtù morali o “cardinali”, così dette
perché hanno funzione di cardine, sono quattro e tutte le altre
si raggruppano intorno ad esse. Hanno lo scopo di rendere
soprannaturale la nostra vita morale e rendere preziosi e ricchi
di merito i mille particolari della nostra vita quotidiana.
Sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.
Vediamole singolarmente.
La
prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a
discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere
i mezzi adeguati per compierlo (CCC 1805). Non dobbiamo
confonderla con la furbizia o la scaltrezza, oppure con una
sorta di timore nell’agire che spinge più a tirarsi indietro che
a procedere in avanti. È invece proprio la prudenza che sa
discernere in ogni situazione qual è il vero bene che poi la
grazia dà la forza di compiere; la prudenza è chiamata auriga
virtutum, il cocchiere delle virtù, perché dirige le altre
secondo il giudizio di coscienza, per il quale l’uomo prudente
decide e ordina la propria condotta seguendo questo giudizio.
La
giustizia è la virtù morale che consiste nella costante e
ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che a loro è
dovuto. La giustizia verso Dio è chiamata “virtù di religione”,
verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno … e
a stabilire relazioni umane armoniche ed eque nei confronti di
tutti. (CCC 1807). L’uomo giusto è colui che si distingue per la
dirittura dei propri pensieri e la rettitudine di coscienza
verso il prossimo.
La
fortezza è la virtù che, nelle difficoltà, assicura la
fermezza e la costanza nella ricerca del bene, resiste alle
tentazioni e supera gli ostacoli nella vita morale (CCC 1808).
La fortezza rende capaci di vincere la paura della morte, i
condizionamenti che inducono al peccato, affronta prove e
persecuzioni. È la grande virtù del martire che lo sorregge nel
momento supremo del sacrificio della vita. La fortezza dà
audacia per affrontare i pericoli e energia per conseguire il
bene, infondendo il coraggio nella lotta spirituale. Tutto
questo può avvenire certamente nelle persecuzioni esterne, in
cui si è chiamati a dare testimonianza al Signore con la vita,
ma avviene - il più delle volte - anche nel nostro quotidiano,
negli ambienti di lavoro, nella società consumistica e
relativista che induce a cadere nel male senza far troppo rumore
e insinuando la suggestione che poi, in fondo, si può fare
questo e quello, che oggi tante verità cristiane non sono più di
moda, sono altri tempi etc. La fortezza qui la dovrebbe fare da
leone, respingendo - in nome dell’amore a Dio - ogni possibile
seduzione che allontana dal bene. In tante circostanze di nostra
vita senza la fortezza si può immettere il rispetto umano, la
vergogna, la paura che impediscono alla carità di spiegare le
sue ali verso Dio.
La
temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei
piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati.
Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene
i desideri entro i limiti dell’onesto e del lecito (CCC 1809).
La temperanza regola soprattutto la vita interiore della persona
che orienta al bene i propri appetiti sensibili, cioè la
soddisfazione dei sensi in modo equilibrato.
L’esercizio di queste virtù unito ai doni dello Spirito Santo,
di cui parleremo la prossima volta, aiutano il cristiano a
crescere e nella dimensione umana e in quella spirituale,
sospingendo l’uomo verso la perfezione della carità, cioè la
santità. Ci scusiamo per la schematicità dell’esposizione, ma
una trattazione più prolungata richiederebbe più spazio in
questo periodico. Rimane importante, comunque, scoprire e capire
quali ricchezze spirituali abitano in noi, creature ad immagine
e somiglianza di Dio, destinate alla beatitudine eterna.
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Ottobre / Novembre 2008 - Anno XVI - n° 4
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Credo la Chiesa
- nona parte - |
Non
c’è nessuna affermazione della nostra professione di fede che
susciti così tanta incomprensibilità come questa: credo la
Chiesa una, santa, cattolica, apostolica.
Tralasciando in questa riflessione le peculiarità appena
esposte, (ne diremo in un secondo momento), parliamo qui del
mistero e delle sue immagini bibliche principali.
«Cristo sì, Chiesa no»
È un
ritornello cantato anche da molti cattolici che si dicono
praticanti, ma che dimostrano di non conoscere la loro madre: la
Chiesa. Certamente ci sono molte attenuanti - prima fra tutte la
disinformazione - come anche molti scandali causati, purtroppo,
da coloro che dovrebbero invece testimoniare quanto bella sia la
Chiesa. Sappiamo però come l’uomo sia debole; egli è come un
soffio, dice la Scrittura, i suoi giorni come ombra che
passa (Sal 39, 6-7). Per questa sua ontologica fragilità non
dobbiamo mai scandalizzarci del male, ma guardare sempre al
positivo che c’è e - soprattutto - all’opera di Dio che ci salva
nonostante noi e la nostra miseria.
“La
Chiesa è retrograda, pretende l’assenso all’infallibilità di
certi dogmi incomprensibili; non si schiera con i poveri e lei
stessa è ricca; nel corso della storia si è dimostrata dura e
intollerante con chi non la pensava come lei, fino a
giustificare un certo tipo di persecuzione (inquisizione); con
la prospettiva di un aldilà eterno ha giustificato la sofferenza
e la povertà di tanti suoi figli; è scientificamente arretrata,
non sa stare al passo con i tempi e per certe sue posizioni
immobilistiche non riesce a dialogare con il mondo…” e via
dicendo. Di questo passo l’elenco delle accuse potrebbe
continuare, ma fermiamoci qui.
Noi
fedeli crediamo che quanto qui sopra può anche essere vero,
almeno in parte: la Chiesa è Sposa di Cristo e suo mistico
Corpo, ma è pure vero che è fatta da uomini e non da angeli, che
essa è sempre bisognosa di purificazione e di conversione. Per
esempio, le sacre ceneri che poniamo sul nostro capo il
mercoledì in cui inizia la Quaresima, è il gesto penitenziale
più eloquente di altri che dichiara: “Signore, siamo peccatori,
salvaci. Senza di te siamo solo polvere e cenere, senza la tua
grazia e il tuo perdono riusciamo solo a compiere il male.
Aiutaci tu”. E questo atto di umiltà lo compie tutta la chiesa,
dal Papa fino all’ultimo fedele sperduto sulla faccia della
terra. Quindi non dobbiamo mai meravigliarci del limite umano,
ma ricordarci che solo il Signore “scrive dritto sulle nostre
righe storte”, e per fortuna è sempre lui che dice l’ultima
parola di salvezza sulle vicende umane.
Il
cristiano maturo che vive della fede sa giudicare in base alla
sua fede. Non dice: credo “nella” Chiesa ma “la” Chiesa, volendo
sottolineare con l’articolo il mistero che essa è, la presenza
in lei dello Spirito effuso dal Risorto a Pentecoste e che tutto
opera. La Chiesa è allora una realtà della fede, non
certo un optional che può essere disgiunto da Cristo, suo Capo.
Noi credenti confessiamo che nella forma esternamente visibile,
talvolta anche miserabile, della Chiesa nel suo percorso storico
e nel suo volto deforme, opera lo Spirito di Cristo.
«Cristo sì, Chiesa no», dunque. Nella schiera di coloro che
affermarono questo assunto ci fu anche sant’Agostino, che
durante il suo peregrinare alla ricerca della verità teneva caro
il nome di Cristo “bevuto con il latte materno”, ma rifiutava in
blocco la Chiesa, perché credeva che insegnasse favole per
vecchiette e non le risposte esistenziali che cercava! Sarà
invece proprio la Chiesa, scoperta nella testimonianza di
Ambrogio, Simpliciano e tanti fedeli della comunità milanese,
che amerà come una sposa e non cesserà di difendere con forza,
coraggio e dottrina.
La chiesa in cui crediamo
Qual
è allora la Chiesa in cui crediamo?
Chiesa significa convocazione popolare e deriva
dalla parola greca ekklesìa, dal verbo ek-kalein,
“chiamare fuori”; designa quindi nel Nuovo Testamento
l’assemblea dei fedeli cristiani che si riunisce davanti a Dio (CCC
751). Ciò significa che l’iniziativa è presa da Dio; è lui che
convoca, che riunisce e chiama i suoi figli. Non sono gli uomini
che si collegano per loro decisione, ma rispondono all’appello
di un Altro. Cipriano di Cartagine e Agostino d’Ippona diranno
che la Chiesa è il “popolo di Dio radunato nell’unità del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo”, ad indicare l’origine
soprannaturale della Chiesa stessa; dalla Trinità essa discende
e alla Trinità ritornerà alla fine del tempo.
La
Chiesa, però, non è solamente un’entità umana e terrena, né
tantomeno astratta o virtuale ma misterica, portatrice di
vita divina pur nella dimensione terrena ed umana. La Chiesa
vive nella storia ed ha una sua storia, ma al tempo stesso la
trascende perché non finisce col il finire degli eventi umani.
Dice
il Concilio: La Chiesa ha la caratteristica di essere nello
stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà
invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione,
presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina; tutto questo in modo
che quanto in lei è umano sia ordinato e subordinato al divino,
il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la
realtà presente alla città futura verso la quale siamo
incamminati (Sacrosanctum Concilium 2).
Le
premesse e la storia rivelata della convocazione del popolo di
Dio cominciano con la chiamata di Abramo, al quale Dio promise
di diventare il capostipite di un popolo. Proseguono con
l’elezione d’Israele a popolo di esclusiva appartenenza a Dio;
con la sua elezione esso doveva diventare segno della raccolta
finale di tutti i popoli. Ma già i profeti accusano Israele di
aver rotto il patto diventando infedele: allora annunciano una
nuova Alleanza mediante la quale Dio si sceglierà un nuovo
popolo. Questo nuovo popolo è formato da tutti gli uomini che in
Cristo Gesù sono salvati e redenti dal suo sangue, per cui la
croce e la risurrezione di Cristo sono il vero e autentico
fondamento della Chiesa; il sangue e l’acqua scaturiti dal
costato di Gesù sono simboli dei sacramenti fondanti la Chiesa:
il battesimo e l’eucaristia. Infine la fondazione della Chiesa
si compie mediante l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste
e viene ufficialmente proclamata “nuovo popolo di Dio” formato
dai molti popoli della terra. Lo Spirito Santo è il solo ed
unico principio vitale della Chiesa.
Ella
inoltre, seguendo il lungo percorso storico di Dio con gli
uomini, è ancora in cammino verso il suo compimento finale; è
Chiesa pellegrina che nelle sue istituzioni, proprio perché vive
nel mondo, porta l’aspetto e le contraddizioni di questo mondo,
vive tra le creature santificate e sempre bisognose di
purificazione; nella celebrazione della liturgia anticipa la
glorificazione finale, ma nello stesso tempo essa imita Gesù
nella sua forma di servo, rifiutato dai suoi, perseguitato e
messo a morte; è la Chiesa dei poveri e dei sofferenti, dei
peccatori e dei salvati; è la Chiesa dei martiri e dei santi che
sull’esempio di Gesù, offrono la vita per suo amore.
La
Chiesa si può capire pienamente solo in una prospettiva di fede,
perché la realtà che la riguarda si fonda, in ultima analisi,
nella decisione di salvezza da parte di Dio Padre, la quale si
realizza con l’incarnazione del Figlio suo Gesù e nell’opera
dello Spirito Santo. Essendo visibile e terrena ha bisogno, per
realizzare la propria missione nel mondo, di ordinamenti
giuridici e di strutture di governo; d’altro canto è realtà
spirituale, cioè investita dallo Spirito di Cristo. Per poter
esprimere queste due realtà congiunte il Concilio Vaticano II
insegna che la Chiesa è in Gesù Cristo il sacramento,
cioè il segno e lo strumento della salvezza dell’umanità
(LG 1; 9), ossia ciò che è visibile e che appartiene alla Chiesa
è segno e strumento per la sua dimensione spirituale, ella è
strumento che rende presente e comunica la salvezza, nonché il
frutto dell’opera della salvezza stessa.
La
Chiesa in cui crediamo non può, allora, essere considerata una
S.p.A. qualsiasi o coincidere con il cupolone di san Pietro in
Vaticano! E molti purtroppo la pensano così.
La
sua misteriosa realtà non può essere ridotta ad un unico
concetto, ma è resa solo con l’aiuto di una pluralità di
immagini che si integrano a vicenda, prese dalla Scrittura e dai
santi Padri: popolo di Dio, piantagione di Dio, gregge,
edificio, casa di Dio, famiglia di Dio, Corpo di Cristo, Sposa
di Cristo, tempio dello Spirito, comunità dei credenti,
comunione dei santi. Attenendoci alle immagini bibliche della
Chiesa, ci soffermiamo qui su Popolo di Dio, Corpo di Cristo,
Tempio dello Spirito Santo.
Popolo di Dio
Questo concetto, riscoperto e approfondito con il Concilio, ha
contribuito al rinnovamento e alla coscienza della Chiesa
stessa, superando la maniera individualistica di vivere la fede
e rafforzando l’idea che siamo tutti corresponsabili. Se infatti
nei secoli precedenti era idea-guida la considerazione che la
Chiesa fosse formata da una struttura piramidale (papa,
cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi, laici), ora essa è
popolo di Dio in cui ciascun membro, in forza del battesimo,
ha una sua propria dignità, missione e vocazione che non è
quella di un altro. Siamo membra gli uni degli altri,
dice san Paolo (Rm 12, 5), cioè senza di me gli altri non sono
tutto, né io senza gli altri; il papa da solo non è la Chiesa,
né un prete o un laico, ma tutti insieme siamo il popolo
che Cristo si è acquistato con il suo sangue.
Nel
modo poi in cui lo è un popolo qualsiasi rispetto ad un singolo
individuo, anche la Chiesa esiste anteriormente al singolo, il
quale non entra di sua iniziativa nella Chiesa ma viene assunto,
cresce e viene portato da essa; nella Chiesa non si nasce ma si
viene incorporati tramite la fede e il battesimo.
Come
popolo di Dio, però, non è da intendersi nel senso comune della
parola, spesso interpretata come un’assemblea politica per
discutere, decidere, deliberare o quant’altro; la Chiesa-popolo
di Dio si riunisce per ascoltare la Parola del Signore, per
ringraziarlo dei suoi doni e di quello che ha fatto, le
mirabilia Dei compiute per noi, e per celebrare la sua
gloria. È popolo sempre in itinere, non ancora
giunto alla meta, che cammina in terra straniera e non ha qui
una patria; non può mai cedere alla tentazione di insediarsi o
fermarsi, ma deve continuamente ripartire e seguire il suo
Signore, che ha sofferto ed è morto per lui. Alla fine, quando
Dio sarà tutto in tutti, non ci sarà più bisogno della Chiesa
come mezzo di salvezza, perché essa non è la meta ultima, ma lo
è il Signore.
Corpo di Cristo
Già
fin dall’antichità si riteneva che, come un corpo umano non può
sussistere senza la connessione di tutte le sue membra, così
anche uno Stato non può fondarsi senza la collaborazione di
tutte le parti che lo compongono. San Paolo riprende questo
paragone e lo applica alla Chiesa: è un corpo diversificato e
costituito con diverse membra. Se un membro soffre tutte le
membra soffrono insieme, se un membro gode o è onorato, tutte le
altre membra gioiscono con lui (1Cor 12, 26). Paolo tuttavia
corregge quest’immagine collocandola nel giusto posto, cioè non
dice: come il corpo così anche la Chiesa, bensì: così anche
Cristo. Questo per sottolineare che la Chiesa non nasce dalla
cooperazione delle membra, ma che esiste interamente in Gesù, è
fondata su di lui; lui è il Capo di questo corpo, affermando in
tal modo che non è solo paragonata ad un corpo, ma che essa
è Gesù Cristo
nel suo corpo. L’uno e l’altra si appartengono inseparabilmente,
ma non sono la stessa cosa. Il Capo insieme alle membra formano
il Cristo totale, dice sant’Agostino. Pur con tutta
l’unità che esiste fra Gesù e la sua Chiesa, egli resta sempre
il Capo e il Signore della Chiesa, la quale vive di lui e per
lui. Tutte le membra devono impegnarsi per conformarsi a lui
finché in esse non sia formato Cristo (Gal. 4, 19).
Come il corpo al Capo veniamo associati alle sue sofferenze e
soffriamo con lui per essere con lui glorificati (Lumen
Gentium 7). La Chiesa è una con Cristo.
Tempio dello Spirito Santo
Nel
mondo antico il tempio eretto in onore della divinità
rappresentava il luogo dell’attiva sua presenza sulla terra. Fu
una gloria per Israele avere un tempio splendente e magnifico
elevato all’Altissimo da Salomone, ma fu anche circostanza
emblematica per il popolo ebraico il fatto che per molto tempo
non possedette un tempio, perché Dio era presente in mezzo al
suo popolo lungo il cammino nel deserto: il popolo stesso era
tempio del Dio vivente. Anche nel Nuovo Testamento troviamo la
Chiesa o la comunità dei credenti come tempio, come luogo della
presenza di Dio e di Gesù Cristo: Dove sono due o tre riuniti
nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt 18, 20). Ma la
Chiesa intende il tempio non come una costruzione materiale
bensì spirituale, fatta di pietre vive - i cristiani - la
cui pietra angolare è Cristo. La presenza di Dio e di Gesù
avviene nello Spirito Santo, per mezzo dello Spirito noi
diventiamo popolo di Dio nel Nuovo Testamento; esso è il
principio di ogni azione vitale e salvifica in ciascuna delle
membra di Cristo, è simile all’anima nel corpo: ne è il
principio vitale. Dello Spirito essa deve vivere e con lui
rinnovarsi di continuo; lo Spirito la ringiovanisce, le comunica
fecondità e forza spirituale sempre nuova. Egli opera in
tantissimi e svariati modi: mediante la Parola di Dio, mediante
i sacramenti e la grazia che questi comunicano, mediante le
virtù e i doni (lo abbiamo visto nei numeri precedenti) che
fanno operare il bene, attraverso doni particolari, i carismi,
dati ad alcuni per l’edificazione dell’intero Corpo di Cristo.
Non dobbiamo poi dimenticare che lo Spirito opera come e dove
lui vuole e sa, con mezzi che solo Dio conosce nel suo mistero.
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Dicembre 2008 - Anno XVI - n° 5
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L'identità della Chiesa
- decima parte - |
Quali sono i segni distintivi che qualificano la Chiesa? Li
recitiamo nel Credo: essa è una, santa, cattolica ed
apostolica. Vediamoli singolarmente.
Unità della Chiesa
L’unità della Chiesa è fondata nel mistero di Gesù Cristo
stesso: come unico è Cristo, mediatore tra Dio e gli uomini,
unico lo Spirito che tutto impregna di sé e assiste la Chiesa
nel suo peregrinare nel tempo, così essa è una nel senso
che, secondo il volere del suo Fondatore, esiste un’«unica» e
«singolare» Chiesa. Sappiamo bene quale fu il testamento di
Gesù: “Che tutti siano uno come tu, Padre, sei in me ed io in
te, affinché anch’essi siano in noi, così che il mondo creda che
tu mi hai mandato” (Gv 17, 21-23).
Anche s. Paolo parla più e più volte nelle sue lettere di unità:
“… un solo corpo, un solo Spirito… un solo Signore, una sola
fede, un solo battesimo; un solo Dio Padre di tutti che è al di
sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in
tutti” (Ef 4, 1-6). Questi testi ci dicono che l’unità della
Chiesa non è un semplice dato di fatto, tantomeno un’utopia e
neppure un prodotto artificiale; essa è in Cristo già
realtà come
frutto dello Spirito Santo. Le divisioni, che purtroppo
esistono, sono scandalo e peccato, non conformi alla volontà di
Dio, oscurano l’immagine della Sposa di Cristo e ostacolano la
missione di pace e di unità che essa ha nel mondo. Non ci è
consentito rassegnarci alla lacerazione della cristianità.
L’immagine più bella e realistica dell’unità della Chiesa è
quella che ci viene consegnata dalla testimonianza degli
apostoli: La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede
aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua
proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro
comune… Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti
possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di
ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli
apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno
(Atti 4, 32-35). I primi cristiani prendevano parte
all’insegnamento degli apostoli (dottrina) e alla comunione dei
beni materiali (distribuzione proporzionale), alla frazione del
pane (eucaristia) e alla preghiera (liturgia). Unica era la fede
quindi, quella in Cristo morto e risorto, una l’Eucaristia e i
beni di cui vivevano, come unico era l’insegnamento degli
apostoli a cui i fedeli facevano riferimento. Questa quadruplice
unità fonda la Chiesa anche oggi e la costituisce, ma ciò non
significa che essa viva di una sorta di uniformità, tutt’altro.
All’interno dell’unità ecclesiale è possibile una grande varietà
di metodi d’annuncio del vangelo, di liturgie, preghiere e riti,
di approfondimenti teologici, di inculturazioni del vangelo. Non
solo sono possibili ma desiderabili, altrimenti la Chiesa non
potrebbe radunare persone di ogni nazione, di razze, popoli,
lingue, mentalità e culture diverse; questa è la molteplicità
nell’unità che solo lo Spirito è capace di creare. Ciò che
cozza contro l’unità è la pluralità disordinata, dove non ci
sono più variazioni dell’unico create dalla fantasia dello
Spirito, ma solo opposizioni inconciliabili: esse sono l’apostasia,
l’eresia e lo scisma.
L’apostasia
è il ripudio totale e volontario, dopo averla abbracciata, della
fede cristiana; l’eresia è l’ostinata negazione, dopo il
Battesimo, della verità rivelata oppure l’esasperazione o la
diminuzione di parti di essa. L’eresia offende l’unità
dell’unica fede e presuppone sempre la colpa personale, per cui
non ogni opinione errata è eresia, ma lo diventa quando c’è
l’ostinazione e irrigidimento volontario. Lo scisma
invece è la deliberata mancanza di sottomissione al Sommo
Pontefice e toglie l’unità della comunione vissuta con tutti i
membri della Chiesa.
L’unità è stata donata da Cristo alla sua Chiesa fin dall’inizio
della sua esistenza, fin dalla Pentecoste. Noi crediamo che
sussista senza possibilità di essere perduta nella Chiesa
cattolica e speriamo che essa cresca sempre di più sino alla
fine dei secoli (cfr. CCC 820).
Santità della Chiesa
Nessuno di noi può contestare che nella Chiesa esiste il
peccato, il limite e purtroppo lo scandalo. Tuttavia crediamo
che la Chiesa sia santa, cioè santificata e purificata dal
Sangue prezioso di Cristo sparso per noi sulla croce e
dall’effusione dello Spirito Santo. Grazie al dono di Gesù, essa
è anche santificante, cioè tutte le sue attività (sacramenti,
liturgia, insegnamenti, vita cristiana in genere) convergono
verso la santificazione degli uomini e la glorificazione di Dio
(cfr. CCC 824). La santità le appartiene come essenza ontologica
e profonda perché il Signore, fondamento e pietra angolare della
Chiesa, è il Santo in senso assoluto e i cristiani sono i
santificati; già fin dalle origini essi venivano chiamati
“santi”. Tuttavia sempre, fin dall’inizio, esistevano
controversie, difficoltà e debolezze… ma noi sappiamo e crediamo
che essa sia santa. Perché? Perché santità non significa
perfezione assoluta o purezza immacolata, bensì essere messi
a parte dalla realtà mondana e appartenere a Dio. In questo
senso allora vivono i cristiani e la Chiesa nel mondo, pur non
essendo del mondo. La Chiesa è santa perché è in cammino verso
Dio, perché il Dio tre volte Santo la santifica, perché Cristo è
indissolubilmente unito a lei e perché è sempre presente con la
forza dello Spirito. Dio vuole la nostra santificazione e a
questa siamo chiamati tutti, quale che sia il nostro stato:
vescovi, sacerdoti, laici sposati e non, consacrati. La santità
non è opera nostra ma frutto dello Spirito e della nostra
collaborazione, non consiste in opere straordinarie o
miracolismi vari, ma nella fedeltà ordinaria e quotidiana al
dono del battesimo, fino all’eroismo se necessario. La santità è
per tutti l’unica meta mentre le strade per raggiungerla sono
diverse; quando la Chiesa canonizza alcuni suoi figli e li
addita al mondo come modelli di santità, riconosce in loro la
potenza operante dello Spirito e conferma di essere santa e
santificatrice.
Cattolicità della Chiesa
Il
termine «cattolico», usato per la prima volta da S. Ignazio di
Antiochia per parlare della Chiesa, significa letteralmente
“riguardante la totalità”, ciò che si riferisce all’universale.
Quindi con il titolo sopraddetto si intende tutta la Chiesa
vasta quanto il mondo, la quale annuncia tutta la vera fede. La
Chiesa è allora cattolica per distinguerla dalle comunità che si
ritagliano una parte di verità e che vogliono essere chiesa per
un determinato popolo soltanto, una determinata cultura, classe
o gruppo. Quando affermiamo di credere nella Chiesa cattolica,
quindi, noi affermiamo di credere nella chiesa che annuncia
tutta intera la fede e tutta intera la salvezza per tutto l’uomo
e per tutta l’umanità; tutte le verità e i mezzi della salvezza
abitano in essa.
La
cattolicità della Chiesa si realizza soprattutto in tre modi:
-
la Chiesa è cattolica perché è inviata a tutto il mondo per
annunciare il Vangelo a tutte le creature, a tutte le
nazioni, civiltà, razze e classi; partecipa a tutti le sue
ricchezze ed è arricchita a sua volta dalla ricchezza di
tutti;
-
la Chiesa è cattolica quando abita uno spazio storico ben
determinato - Chiesa locale - guidata dal vescovo unito al
Papa nella successione apostolica. Ogni Chiesa locale è a
tutti gli effetti cattolica;
-
la Chiesa locale ed universale sono cattoliche quando hanno
al loro interno tutta la ricchezza di doni, servizi, carismi
e stati di vita che realizzano tutta l’esistenza cristiana
in diversi e variegati modi, dal matrimonio allo stato
laicale, dal sacerdotale al religioso, in comunione fra
loro.
Cattolicità non significa dunque monotona uniformità, ma è
sinonimo di apertura, universalità; già sant'Agostino, da
innamorato della Chiesa, la chiamava semplicemente la «Catholica»
per indicare, con questo termine, solo la Chiesa corpo di
Cristo, presente in tutto il mondo.
Apostolicità della Chiesa
La
Chiesa è costituita sul fondamento degli apostoli che Gesù
Cristo stesso ha costituito (cfr. Mt 16, 18). Essa può essere la
vera Chiesa di Gesù unicamente se è apostolica e custodisce
attraverso i tempi l’identità e la successione apostolica. Ma ci
chiediamo: come possono gli apostoli essere presenti fino ad
oggi? Chi è un apostolo?
Sappiamo dai vangeli che Gesù ne scelse dodici che “stessero con
lui” (Mc 3, 14), lo amassero e lo seguissero per un particolare
servizio. Dopo la Pasqua si chiamavano apostoli coloro che erano
testimoni della resurrezione e che erano da lui mandati ad
annunciare il vangelo; in senso allargato invece, sono
denominati apostoli uomini e donne chiamati ad un servizio
missionario particolare. Per esempio, san Bonifacio è detto
l’apostolo della Germania, Cirillo e Metodio sono gli apostoli
degli Slavi perché sono stati gli evangelizzatori di questi
popoli, ma l’uso della parola apostolo in questo caso è
impropria. In senso esatto l’apostolo è di un solo tempo, perché
è legato alla missione immediata di Cristo Risorto; gli apostoli
sono le colonne della Chiesa. Allora come possono essere
presenti fino alla fine del mondo?
Per
capire dobbiamo rifarci ai testi del Nuovo Testamento: in essi
si documenta che fin dall’inizio gli apostoli si sono cercati
aiutanti e collaboratori e hanno incaricato altri uomini a
compiere e prolungare l’opera dopo la loro morte, affinché la
missione da essi iniziata potesse continuare fino alla fine dei
tempi. Soprattutto nelle lettere di Paolo, in particolare a Tito
e Timoteo, si delinea la successione apostolica, quando egli
incarica questi discepoli di “imporre le mani” su altri e
istruirli nel servizio; in questo modo si delinea il passaggio
dal tempo apostolico a quello post-apostolico. Il Concilio
Vaticano II riassume la dottrina della Scrittura e della
Tradizione quando insegna che «i vescovi per divina istituzione
sono succeduti al posto degli apostoli quali pastori della
Chiesa» (LG 20-21); in loro c’è la missione affidata da Cristo
agli apostoli, anzi è presente Egli stesso nella sua Chiesa.
La
Chiesa allora può dirsi apostolica se in essa la fede degli
apostoli è viva e feconda, in forza del fatto che vi si continua
la loro missione che deve durare fino alla fine del tempo.
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Marzo / Aprile 2009 - Anno XVII - n° 1
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La Chiesa, Comunità di
Santi
- undicesima parte - |
«Credo
la comunione dei santi». Con questo atto di fede prosegue il
nostro Credo.
Può
risultare un’espressione oscura, un po’ difficile da comprendere
ed invece non lo è, se pensiamo che i primi cristiani, fin dal
tempo degli apostoli, venivano chiamati santi.
Il
Catechismo afferma che comunione dei santi ha due
significati, strettamente collegati fra loro: la comunione alle
cose sante e la comunione tra le persone sante (CCC
948).
La
Chiesa è comunione alle cose sante, alle realtà sante; è grazie
ad essa, infatti, che sussiste una comune partecipazione ai beni
della salvezza: i sacramenti e soprattutto l’Eucaristia. È sulla
condivisione della fede nella Parola di Dio, sulla comunione al
Corpo e Sangue di Cristo e la partecipazione alle necessità dei
fratelli che si costruisce la Chiesa. Essa non è, infatti, la
casa di persone isolate come monadi, che vanno avanti ciascuna
per conto proprio e vivono dei beni propri, tutt’altro: la
Chiesa è una società di santi - appunto - che attingono a beni
comuni, li stessi per tutti ed infinitamente sufficienti per
tutti: la Parola di Dio, la ricchezza spirituale dei sacramenti
e il servizio della carità.
La Parola di Dio
La
parola umana è il mezzo più appropriato per esprimere i
sentimenti, i messaggi, i pensieri, l’informazione. Con la
parola si può lenire il dolore di chi soffre, si può però anche
ferire e addirittura uccidere moralmente chi è già saturo di
disperazione; si può incoraggiare al bene, sostenere
nell’amicizia, chiarire un equivoco, oppure fomentare
incomprensioni e dissensi, e via dicendo. Ciò di cui oggi
soffriamo è proprio lo spreco delle parole dette più o meno
opportunamente, spesso vuote, false, senza scopo di
edificazione, svuotate del loro significato. Pensiamo solo ai
mezzi di comunicazione (TV, giornali, web): si stampano
chilometri di carta, si parla, si comunicano notizie, ma è
difficile trovare chi trasmetta la verità o contenuti
significativi. Pensiamo però anche in positivo, alla parola che
rivela il mondo interiore, quelle ricchezze nascoste che
altrimenti non si conoscerebbero, conferendo ad essa un
carattere attivo, buono, efficace.
Se
diciamo tutto questo per la parola dell’uomo, quanto più
possiamo dirlo della Parola di Dio ed in modo infinitamente
superiore, perché la Parola di Dio non è come quella umana che -
direbbe sant’Agostino - ha un inizio ed una fine: quella di Dio
opera ciò che dice, quindi crea, sostiene, illumina, conforta,
sferza, lenisce, rimprovera, abbraccia e tutte queste cose le fa
realmente, in modo vivo ed efficace, come penetrerebbe
una spada a doppio taglio fra le giunture e le midolla, fra
l’anima e lo spirito (cfr. Eb 4, 12-13). Il tesoro più grande
allora che i cristiani condividono come bene è proprio la Parola
di Dio che in Gesù, Verbo del Padre, si è fatta carne. È lui la
Parola del Signore ed è lui il nostro unico bene, non
paragonabile con nessun altro bene di questo mondo.
I
Sacramenti
Altro bene spirituale che i credenti hanno in comune sono i
Sacramenti. Di questi parleremo più diffusamente nei prossimi
articoli, qui ci limitiamo a dire che essi sono forme
sensibili della grazia e dell’amore di Dio, cioè sono
segni efficaci che compiono ciò che significano. Per esempio
il Battesimo, sacramento iniziale fondamentale della salvezza e
dell’appartenenza a Cristo, realizza veramente nell’anima di chi
lo riceve quello che significa esteriormente: il bagno
nell’acqua attua il lavacro dal peccato originale. E così per
gli altri sacramenti.
Quindi, un bene spirituale ricevuto dal singolo non è solo per
lui stesso, ma sovrabbonda a beneficio di tutti perché siamo un
unico corpo e membra gli uni degli altri. Se uno si santifica
accresce la santità dell’intero corpo ecclesiale, e il bene
spirituale che circola all’interno del corpo - come il sangue
nelle arterie e nelle vene - vivifica tutte le membra del corpo
stesso.
È in
virtù di questa verità di fede che noi cristiani possiamo
pregare vicendevolmente, chiedere che il Signore doni grazia e
salvezza a tutti, perché il tesoro spirituale è per tutti. La
comunione dei santi significa questo: l’unione operata nei
sacramenti e dai sacramenti.
La Carità
Negli Atti degli Apostoli troviamo: Ogni cosa era fra loro
(i primi cristiani) comune (4, 32). Il cristiano non
possiede niente che non sia in comune con i fratelli, condivide
un bene con tutti, pronto a sollevare sia spiritualmente che
materialmente le miserie dei più poveri. Nella comunione dei
santi nessuno di noi vive per se stesso o muore per se stesso
(cfr Rm 14, 7), ma se un membro soffre tutte le membra soffrono
insieme e se un membro gioisce anche gli altri gioiscono con
lui. Il più piccolo dei nostri atti, perciò, vissuto nella
carità di Cristo e in grazia di Dio, ha ripercussioni benefiche
su tutti, vivi e morti. Allo stesso modo però, anche il peccato
nuoce alla comunione ed ogni anima che si sottrae alla grazia di
Dio ferisce l’intero corpo ecclesiale.
I santi della terra e del cielo
La
parola santo, se ci fa fare riferimento a tutti i
cristiani santificati dalla grazia di Cristo, ci fa pensare
anche e soprattutto a coloro che la Chiesa ha elevato agli onori
degli altari e che veneriamo come tali. Questi fratelli e
sorelle che già hanno raggiunto la gloria (Chiesa trionfante),
sono modelli e intercessori, pregano per noi, chiedono grazia e
salvezza al Signore per noi, loro fratelli che ancora lottiamo e
soffriamo sulla terra (Chiesa militante). A nostra volta anche
noi possiamo e dobbiamo pregarli e venerarli, ma anche e
soprattutto raccomandare a Dio i fratelli che - passati da
questa vita - stanno purificandosi in Purgatorio (Chiesa
purgante). Questo è l’intero corpo ecclesiale, Chiesa
trionfante, purgante e militante e in questo organismo
circola così tanto bene spirituale da considerarci un tutt’uno.
Quando diciamo: credo la comunione dei santi la nostra
fede è anche in tutta questa santità che cielo e terra si
comunicano. Per questo sono efficaci i suffragi per i defunti
(celebrazioni di sante Messe, preghiere, sacrifici, elemosine),
affinché si affretti il loro ingresso in Paradiso a contemplare
il volto di Dio; a loro volta le anime sante del
Purgatorio possono intercedere per noi e la loro preghiera è
molto efficace.
Mi
sembra importante concludere questo articolo spendendo qualche
parola sul significato della preghiera d’intercessione.
A
noi monache di vita contemplativa viene ordinariamente richiesto
di pregare ed intercedere per tanti casi e situazioni penose di
altri, o anche per ringraziare Dio di una grazia ricevuta, per
il buon esito di un esame clinico e di tanti altri eventi della
vita dei nostri amici. Certo, il nostro compito nella Chiesa è
proprio la preghiera, l’intercessione, la supplica e questo noi
facciamo principalmente con la Liturgia delle Ore, che si snoda
durante tutta la giornata, poi con la nostra vita consacrata
offerta al Signore, con le gioie, i sacrifici, il lavoro
affidato al cuore di Cristo affinché Lui, primo vero ed unico
mediatore, lo presenti al Padre per la salvezza di
tutti.
Intercedere, far “da ponte” tra chi chiede e chi dona, ci
colloca così nel cuore di Gesù, nel mistero della sua
intercessione e misericordia alla quale anche noi ci affidiamo
quotidianamente, consegnandogli la nostra povertà e miseria che
ci fanno vicini ad ogni uomo, ad ogni fratello. Più il nostro
cuore vive in sintonia con la misericordia di Dio, più - oserei
dire - è un cuore che supplica, che intercede per altri.
Quando interponiamo la mediazione di Gesù, il Padre ci ascolta
perché vede tutti i suoi figli “attraverso il Figlio” come se
lui facesse da filtro, vede noi come tanti cristi, quindi
tutti figli suoi. Interporre l’intercessione di Maria Ss.ma e
dei santi è giusto, mai però devono prendere il posto di Gesù,
l’unico mediatore; i santi sono intercessori nel grande
Intercessore: Cristo.
Sant’Agostino esprime molto bene questa realtà
dell’intercessione nel commento al salmo 85, 1: se Cristo è
nostro capo e noi membra del suo corpo, quando lo preghiamo lo
facciamo attraverso lui stesso, con la sua stessa voce:
Dio
non avrebbe potuto elargire agli uomini dono più grande di
quello di costituire loro capo lo stesso suo Verbo per mezzo del
quale aveva creato l'universo, unendoli a lui come membra, in
modo che egli fosse Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, unico Dio
insieme con il Padre, unico uomo insieme con gli uomini. Ne
segue che quando parliamo a Dio e preghiamo, non dobbiamo
separare da lui il Figlio, e quando prega il corpo del Figlio,
esso non ha da considerarsi staccato dal suo capo; per cui la
stessa persona, l'unico salvatore del corpo mistico, il Signore
nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è colui che prega per noi,
che prega in noi e che è pregato da noi. Prega per noi come
nostro sacerdote; prega in noi come nostro capo; è pregato da
noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui la nostra voce e
in noi la sua voce.
È
importante che ogni cristiano prenda consapevolezza di “essere
in Cristo” e di “essere con” altri fratelli, uniti in un legame
indistruttibile, perché realizzato dal sangue di Gesù e dal suo
sacrificio.
La comunione
con i santi.
«Non veneriamo la memoria dei santi solo a titolo d’esempio, ma
più ancora perché l'unione di tutta la Chiesa nello Spinto sia
consolidata dall'esercizio della fraterna carità. Poiché come la
cristiana comunione tra coloro che sono in cammino ci porta più
vicino a
Cristo, cosi la comunione con i santi ci unisce a
Cristo, dal quale come dalla fonte e dal capo, promana tutta la
grazia e tutta la vita dello stesso Popolo di Dio» (LG 50).
La comunione con i defunti.
«La Chiesa di quelli che sono in cammino, riconoscendo benissimo
questa comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, fin
dai primi tempi della religione cristiana ha coltivato con una
grande pietà la memoria dei defunti e, poiché santo e salutare è
il pensiero di pregare per i defunti perché siano assolti dai
peccati (2 Mac 12, 45), ha offerto per loro anche i suoi
suffragi» (LG 50). La nostra preghiera per loro può non solo
aiutarli, ma anche rendere efficace la loro intercessione in
nostro favore.
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Settembre / Ottobre 2009 - Anno XVII - n° 2
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Credo la Resurrezione della carne,
la Vita eterna. Amen.»
- dodicesima e
ultima parte - |
Siamo arrivati alla fine del
nostro Credo cristiano che culmina con la professione: Credo
la resurrezione della carne, la vita eterna. Amen.
Noi fermamente crediamo e
fermamente speriamo che come Cristo è veramente risorto dai
morti e vive per sempre, così pure i giusti, dopo la loro morte,
vivranno per sempre con Cristo risorto, e che egli risusciterà
nell’ultimo giorno (CCC
989).
Il contenuto di questo paragrafo
del Catechismo è ciò che costituisce la speranza cristiana, la
fede in una vita che non ha termine con la morte, eredità del
peccato, ma che va oltre e culmina nella vita eterna. La
speranza, inoltre, è quella certezza in virtù della quale noi
possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un
presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce
verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri,
se questa meta è così grande da giustificare la fatica del
cammino (Benedetto XVI, Spe salvi 1). Più avanti
nella sua Enciclica, il Papa afferma che in questo modo i
cristiani hanno un futuro, sanno che la loro vita non finisce
nel vuoto: solo quando il futuro è certo come realtà positiva
diventa vivibile anche il presente... La porta oscura del tempo
del futuro è stata spalancata. Chi ha speranza vive
diversamente; gli è stata donata una vita nuova (Ss 2).
La resurrezione di Cristo e la nostra
La fede nella resurrezione dei
morti è stata rivelata da Dio al suo popolo progressivamente ed
è stata come la conseguenza connaturale nella fede in Dio
Creatore dell’uomo tutto intero, anima e corpo che non può - in
un certo qual modo - lasciare che la sua creatura finisca nel
nulla. Nella Scrittura abbiamo testimonianze di fede nella
resurrezione in Giobbe e nei libri dei Maccabei che confessano -
durante il loro martirio - di credere come certa la vita senza
fine e la resurrezione dei loro corpi.
Ma è solo con la venuta del Figlio
di Dio nella carne umana, reale, vera, concreta assunta da
Maria, che ciò che noi crediamo sulla resurrezione è diventata
assoluta realtà: Gesù è risorto, ha sconfitto la morte una volta
per sempre, egli è il Signore della vita e anche noi
resusciteremo come lui, con lui, per mezzo di lui. Come dicevano
i Padri della Chiesa, il principio della salvezza è la carne
(Caro cardo salutis, Tertulliano) assunta dal Verbo
nell’incarnazione, altrimenti come avrebbe egli potuto soffrire
realmente espiando i nostri peccati e donandoci la salvezza? Per
questo, se il Verbo di Dio ha voluto assumere un corpo umano,
quanto grande è la dignità del nostro corpo! Esso è soggetto
alla morte e alla corruzione come castigo del peccato originale,
ma è destinato alla resurrezione finale.
Ma cosa significa
resuscitare?
Con la morte fisica, separazione
dell’anima dal corpo, il corpo cade nella corruzione mentre
l’anima va incontro a Dio, pur restando in attesa di essere
riunita al suo corpo glorificato. In forza della resurrezione
del suo Figlio Gesù, Dio restituirà definitivamente la vita
incorruttibile ai nostri corpi riunendoli alle anime.
Chi resusciterà?
Tutti gli uomini che sono morti: quanti fecero il bene per
una resurrezione di vita e quanti fecero il male per una
resurrezione di condanna (Gv 5, 29).
Come?
Come è risorto Cristo, con il proprio corpo non ritornando ad
una dimensione vitale terrena ma con un corpo glorificato,
trasfigurato. Il come, in verità, supera di molto le possibilità
dell’umana immaginazione e della nostra comprensione
intellettuale; è accessibile solo alla fede.
Quando risorgere?
Definitivamente “nell’ultimo giorno”, alla fine del mondo. La
resurrezione dei morti è associata al ritorno del Signore Gesù
alla fine del tempo.
Il senso cristiano della morte
Con la morte Dio chiama a sé
l’uomo; così come ogni uomo è stato voluto e chiamato
gratuitamente alla vita dal Signore, così egli lo richiamerà a
sé quando, dove e come lui vorrà. La morte in Cristo ha un
significato positivo: pur rimanendo il dramma lacerante e
doloroso di un distacco, di uno strappo - specialmente se
violento e improvviso - essa non è il termine nel nulla, ma il
ritorno dell’anima a Colui che l’ha creata. La liturgia esprime
con parole impareggiabili questo mistero: Ai tuoi fedeli,
Signore, la vita non è tolta ma trasformata, e mentre si
distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata
un’abitazione eterna nel cielo (prefazio del defunti). La
morte quindi è la fine del nostro pellegrinaggio terreno, del
tempo della grazia e della misericordia che Dio offre all’uomo
per realizzare la vita secondo la sua volontà, per conseguire la
santità. Non esistono “altre vite” dopo quell’unica che ci è
data in dono: non c’è “reincarnazione” dopo la morte.
Il cristiano, proprio perché
incorporato a Cristo con il battesimo, partecipa già alla vita
celeste di Cristo risorto, anche se questa è ancora nascosta “in
Dio”. Inoltre, nutriti dell’Eucaristia farmaco dell’immortalità,
abbiamo già la caparra, l’anticipazione della vita eterna;
chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna
ed io lo resusciterò nell’ultimo giorno (Gv 6, 54) dice il
Signore. Chi si ciba nella vita dell’Eucaristia, cioè di Gesù
stesso, non morirà in eterno perché possiede in sé la
Resurrezione in persona.
Le testimonianze più significative
sulla bellezza della vita e il desiderio di morire “per essere
con Cristo” ci vengono dai santi, i quali hanno capito il vero
significato della vita e della morte: il loro amore per il
Signore è talmente grande che poca cosa sembra l’esistenza,
troppo breve, fugace e limitata per “avere il tempo sufficiente”
per amarlo; per questo desiderano la morte, non per masochismo
ma come definitivo abbraccio con lui nell’eternità. Per me
vivere è Cristo, morire un guadagno(s. Paolo), Il mio
amore è crocifisso… un’acqua viva mormora dentro di me e mi
dice: Vieni al Padre (s. Ignazio d’Antiochia), Voglio
vedere Dio, ma per vederlo bisogna morire (s. Teresa
d’Avila), Laudato sii mi Signore per sora nostra morte
corporale, dalla quale nullu homo vivente po’ skappare (s.
Francesco), Non muoio, entro nella vita (s. Teresa di
Lisieux), Che io muoia per non morire e vedere il tuo volto
(s. Agostino) e si potrebbero aggiungerne infinite altre
testimonianze.
Credo la vita eterna. amen.
Nella Sacra Scrittura e nella
tradizione della Chiesa la vita eterna nella comunione con Dio
viene descritta con immagini diverse: come un convito di nozze
celesti, come vita luce pace. Anche con la parola “cielo” noi
descriviamo quella dimensione che vivremo nell’aldilà, come
fosse situata al di sopra di noi, negli spazi immensi sopra il
firmamento. In realtà, sono tutte immagini efficaci che ci
richiamano alla verità dell’assoluta trascendenza e totale
diversità della vita eterna, ma non possono farci fermare alla
materialità di ciò che significano. La vita eterna sarà uno
stato di felicità perfetta nella contemplazione beatifica
del volto di Dio. Il cielo o paradiso è l’eterna
comunione dell’uomo con Dio in cui lo conosceremo così come egli
è; il “dove” è curiosità umana e terrena, veramente difficile da
soddisfare! Sarà il posto più giusto e desiderato da ciascuno: è
il seno di Dio, quel grembo per cui siamo stati fatti e a cui
desideriamo ritornare.
Nella vita senza fine Dio-Trinità
ci manifesterà tutta la pienezza della sua vita e del suo amore,
il mistero insondabile della sua realtà divina in cui
inabissarci totalmente: sarà il paradiso. La comunione
definitiva con Dio non sarà poi un isolamento dal resto della
realtà, ma sarà perfetta in lui la comunione dei santi,
la concordissima e perfettissima immersione in Dio e - in lui -
fra tutti i beati e santi del paradiso, compresi i nostri
parenti, gli amici con cui abbiamo condiviso la vita terrena, le
persone che abbiamo amato. Essendo il cielo il compimento e
coronamento della vita, anche il frutto lavorato e sofferto del
nostro pellegrinaggio terreno entrerà nella trasfigurazione
dell’eternità, e la gioia eterna sarà anche per la ricompensa
ricevuta; non che vanteremo alcun merito davanti a Dio, ma egli
- coronando i nostri meriti - non farà altro che coronare i suoi
doni, perché tutto è grazia.
La dottrina della Chiesa ha
espressamente difeso, nel corso del tempo, anche l’esistenza di
un luogo di dolore, lontano da Dio: l’inferno. Le
convinzioni che sostengono questo credo sono basate sulle parole
della Scrittura e di Gesù stesso (Mt 5, 29-20; 25, 41-46),
quindi su un fondamento biblico sicuro. Ma la prudenza della
Chiesa e la misericordia che ha appreso da Cristo stesso la
induce a non dichiarare per certo che qualcuno (nome e cognome)
sia all’inferno, ma ad affermare e venerare solo i santi del
paradiso, che addita come modelli di vita cristiana. Quindi
nessuno sa chi vi sia nel luogo della perdizione, certo è che
Dio garantisce la dignità e la libertà dell’uomo, pertanto può
rifiutare la sua grazia. Fino all’ultimo la misericordia farà di
tutto per salvare un uomo, ma non può violentarne la libertà,
senza la quale non ci sarebbe neanche amore. L’inferno è in
definitva autoesclusione per colpa propria dalla comunione con
Dio e quindi allontanamento dalla contemplazione del suo volto.
Per tutti dobbiamo pregare, perché ogni uomo comprenda che la
vera libertà - infine - non è mettersi contro Dio ma aderire a
lui, alla salvezza che egli offre.
L’esistenza della vita dopo la
morte ha suggerito la preghiera per i defunti, affinché possano
essere accolti nelle braccia del Padre e purificati dalle loro
colpe. La prassi della preghiera e del suffragio per i defunti
la troviamo fin dall’inizio della Chiesa, come è dimostrato
anche in molte iscrizioni catacombali. Conclusa l’esistenza,
l’uomo non può più cooperare attivamente alla propria
santificazione, ma può essere aiutato dalla preghiera dei
fratelli ad affrettare l’incontro con Dio. Questo stato
intermedio viene chiamato, con un termine classico,
purgatorio cioè il luogo in cui ci si purifica. Le anime che
abitano questo stato sono “sante” (le anime sante del
purgatorio) e non sono “povere” (le povere anime del
purgatorio), perché sperimentano tutta la ricchezza della
misericordia di Dio, aspettando solo di essere totalmente
purificate per vederlo… In questo consiste il loro tormento: non
sono ancora abbastanza pure per essere interamente colmate
dall’amore di Dio; è questa sofferenza che purifica le loro
colpe, i nostri suffragi, le opere buone, le elemosine e
soprattutto la celebrazione del santo Sacrificio offerto per
loro, affrettano il momento del ricongiungimento a Dio, quando
entreranno in paradiso per l’eternità.
Il Credo termina con la parola
ebraica Amen. Nella
lingua di origine si ricongiunge direttamente con la parola
credere ed esprime - alla radice - la solidità, l’affidabilità e
la fedeltà. Si capisce allora perché l’Amen può esprimere tanto
la fedeltà di Dio verso di noi che la nostra fiducia in lui
(cfr. CCC 1062).
Nella scrittura è Dio stesso che
si definisce l’Amen, cioè il Fedele, colui che non cambia e
porta a termine il suo progetto di salvezza. Nei Vangeli anche
Gesù usa l’espressione Amen amen, ripetuta due volte:
In verità in verità vi dico per sottolineare la verità
inequivocabile di quello che sta per affermare.
L’ Amen finale del Credo
riprende e conferma le due parole iniziali: Io credo. Credere
significa dire Amen a tutte le verità credute e
proclamate, alle promesse di Dio e significa dare completa
fiducia e credibilità a lui, a ciò che ci ha rivelato. “Io
credo. Amen.” È questa la nostra fede, la norma della nostra
vita. Dice s. Agostino ai catecumeni: Il Simbolo sia per te
come uno specchio. Guardati in esso, per vedere se tu credi
tutto quello che dichiari di credere e rallegrati ogni giorno
per la tua fede (Disc 58, 11).
Il Credo sia anche per noi lo
specchio in cui dobbiamo ritrovare la nostra immagine di
cristiani, confrontandoci con esso quotidianamente; sia la
bussola per il cammino e il punto di riferimento sicuro nei
vacillamenti della nostra fede.
È bene, in questo contesto,
spendere qualche parola sulla reincarnazione come
credenza oggi molto gettonata, specialmente fra i giovani.
Essa è - nell’induismo - il
cammino che consente ad un anima di accedere, attraverso
purificazioni successive e diverse vite, alla liberazione dalla
pesantezza e dall’illusione, per giungere alla estinzione in
Brama.
La resurrezione indica, invece, il
tornare a vivere una vita vera dopo la morte, non con le
caratteristiche di quella precedente, ma non per questo meno
reale. Essa rimanda alla dimensione vissuta da Cristo dopo la
resurrezione: un corpo glorificato, che entrava a porte chiuse,
ma reale, vero.
Se la Resurrezione di Cristo e
quella della nostra carne alla fine dei tempi viene messa in
discussione non ci può essere fede cristiana. È in gioco non una
cosa da nulla, ma il centro di tutto. Purtroppo ci sono molti
cristiani che credono alla reincarnazione, ma tale credenza non
è cristiana; purtroppo essa non è una semplice idea di moda,
riflette invece l’angoscia profonda del nostro tempo. Per
esorcizzare la paura della morte e continuare in un qualche modo
a vivere, si accetta una teoria del genere, come per trovare in
essa un senso all’esistenza umana. C’è incapacità a vivere, a
morire, a rispondere alle domande profonde dell’esistenza (chi
sono, da dove vengo, dove vado, perché vivo), si cerca
un’illusoria immortalità, si dimentica Dio e la propria
finitezza, si cade nel nichilismo assoluto. Certo, non
illuminata dalla fede la morte è un buco nero da annullare e
così l’ipotesi della reincarnazione appare ad alcuni la sola che
possa contrastare la fine ineluttabile di questo nostro corpo:
comprensibile, ma assolutamente incompatibile con l’idea
cristiana di morte come ingresso nella vita in Dio, come
cambiamento e non sottrazione di vita. Il destino umano non è la
tomba, il dissolvimento, il tornare a vivere in altre forme, ma
la vita nuova che solo Gesù Cristo ci può dare con il trionfo
sulla morte.
Fratelli, dovete tener presente che Cristo è
stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato
per la nostra giustificazione. Ma soprattutto in questi
giorni [pasquali] in cui, commossi da tanta grazia, non vogliamo
che quel che è avvenuto una volta per tutte sia dimenticato,
e[per questo ne celebriamo l'anniversario, informati dalla fede,
confermati dalla speranza, infiammati dalla carità, partecipiamo
con solennità alle celebrazioni temporali, desideriamo
incessantemente quelle eterne. Se Dio infatti non ha
risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi,
come non ci darà ogni cosa insieme con lui?. Cristo ha
patito, moriamo al peccato; Cristo è risuscitato, viviamo per
Iddio. Cristo è passato da questo mondo al Padre; non qui si
attacchi il nostro cuore, ma lo segua nelle cose di lassù. Il
capo nostro fu appeso sul legno; crocifiggiamo la concupiscenza
della carne. Giacque nel sepolcro; sepolti con lui dimentichiamo
le cose passate. Siede in cielo; trasferiamo i nostri desideri
alle cose supreme. Dovrà venire come giudice; non ci lasciamo
aggiogare con gli infedeli. Egli risusciterà anche i corpi dei
morti; al corpo destinato a mutare procuriamo meriti mutando
mentalità. Porrà i cattivi alla sua sinistra e i buoni alla sua
destra; con le buone opere procuriamoci il buon posto. Il suo
regno non avrà fine; non abbiamo paura per la fine di questa
vita.
(Sant’Agostino, Disc 229/D 1)
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Aprile / Maggio 2011 - Anno XV - n° 2
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