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Catechismo

 
 

 

 

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di suor Maria Lucia

 
 
  1. La nostra fede

  2. La Rivelazione e la Fede

  3. Il Credo Apostolico

  4. <<Credo in Gesù Cristo, unico Figlio di Dio, Nostro Signore...

  5. Credo in Gesù Cristo, nato da Maria Vergine

  6. Patì sotto Ponzio Pilato, il terzo giorno risuscitò da morte

  7. Credo nello Spirito Santo

  8. La vita nello Spirito: le Virtù

  9. Credo la Chiesa

  10. L'identità della Chiesa

  11. La Chiesa, Comunità di Santi

  12. Credo la Resurrezione della carne, la vita eterna. Amen.

 
 
 
 

La nostra fede

- prima parte -

 

 Sono ormai parecchi anni che Papa Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI ora, esortano i cristiani d’Europa, i governanti e i responsabili delle nazioni “in primis”, a riscoprire le radici cristiane del continente e a tenere conto di esse nella formulazione della costituzione europea. Il motivo è presto detto: nessuno può essere pienamente se stesso se non sa chi è, se non conosce le proprie origini etniche, culturali e religiose. Se è vero che non posso dire “io” senza un “tu” che mi sta davanti, è anche vero il contrario: non posso dire “tu” senza affermare “io”. Quindi quando si parla di dialogo tra le religioni e tra le culture è indispensabile porsi uno di fronte all’altro con un nome e un volto precisi, senza per questo violentare o mancare di rispetto a nessuno. Se non esiste questa base identitaria il «…dialogo senza fondamenti sarebbe destinato a degenerare in una vuota verbosità», come ebbe a dire Giovanni Paolo in un suo discorso (Angelus del 1 ottobre 2000).

 

Con questi appunti di base cercheremo di ritornare alle radici della nostra fede cristiana per riscoprirle, perché diventiamo sempre più consapevoli del tesoro che ci è stato consegnato il giorno del nostro battesimo e perché ogni cristiano possa trovare proprio in tali radici la sua vera identità.

Purtroppo c’è tanta ignoranza anche se non ci sono scuse, poiché la Chiesa si è adoperata a far conoscere a tutti il bene che le è stato affidato; pensiamo solamente al Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 e al Compendio del 2005, senza contare gli innumerevoli documenti e testi editi in questi quarant’anni dopo il Concilio Vaticano II e il grande rinnovamento biblico che ha messo il tesoro della Sacra Scrittura nelle nostre mani.

Ma quanti cristiani conoscono la propria fede? Sanno in quale Dio credono?

Come punto di riferimento per il nostro cammino ci affideremo proprio al Catechismo (CCC nel testo), cogliendo così l’occasione per approfondirne il contenuto. Non abbiamo certo la pretesa di esaurirlo, tantomeno di spiegarlo nei minimi particolari; il nostro itinerario sarà semplicemente un attingere da esso i punti principali, come da fonte sicura per conoscere ed amare Dio Trinità e il mistero della sua rivelazione agli uomini.

 

Prima di tutto una precisazione: quando si parla di catechismo spesso si pensa ad un insieme di formule, magari più accessibili se esposte a mo’ di domanda e di risposta da imparare a memoria. E i più grandi se lo ricordano così. Noi cristiani, però, non crediamo nelle formule ma nel contenuto che esse racchiudono: le verità della fede, come ebbe a dire Papa Giovanni Paolo II nel documento Novo millennio ineunte: «Non una formula ci salverà ma una Persona e la certezza che essa ci infonde: Io sono con voi!». Infatti le formule che non esprimessero un contenuto sarebbero sterili e rischierebbero di esaurirsi in se stesse senza incidere minimamente nella vita dei credenti; ma se queste mi trasmettono un contenuto che dà senso alla mia vita, ben vengano. Per esempio, che rapporto c’è fra un bel vaso e ciò che c’è dentro? È la preziosità del contenuto a dar spicco al vaso e non viceversa, per cui se ho a cuore ciò che il vaso racchiude, mia premura sarà quella di custodire il recipiente e renderlo sempre più bello. Così è per la formula e ciò che esprime; il cristiano crede al contenuto delle formule.

 

 

Il nostro Dio si fa conoscere: la Rivelazione

 

«Per una decisione del tutto libera, Dio si rivela e si dona all’uomo svelando il suo Mistero, il suo disegno di benevolenza prestabilito da tutta l’eternità in Cristo a favore di tutti gli uomini» (CCC 50).

Abbiamo accennato all’importanza dell’identità personale; ebbene, anche Dio per dialogare si pone davanti all’uomo non come ente astratto ma con il suo nome, come si dice, facendo le presentazioni. Egli ha rotto l’eterno silenzio che lo circondava, si è rivolto all’uomo e gli ha svelato i segreti della sua vita intima, fonte di felicità e beatitudine. D’ora innanzi possiamo chiamare Dio con un nome personale perché egli  ce lo ha fatto conoscere; per il grande amore verso la sua creatura Dio non ha voluto rimanere “lassù in cielo”, luogo dove spesso lo releghiamo come oggetto di contemplazione filosofica o addirittura come divinità da tener buona con preghierine e candele accese… Dio ha detto: Eccomi, io sono Colui che è, Io sono la via, la verità, la vita. Egli ha voluto entrare in contatto con l’uomo pronunziando una parola e ogni parola presuppone l’intenzione di essere udita e accolta, un Io che parla e un Tu che risponde e in questo caso parola e risposta diventano un dialogo autentico, reciprocità, comunione. Nella Rivelazione di Dio l’uomo risponde con la Fede nella quale soltanto, come atto libero e personale, la Parola di Dio trova accoglienza e riconoscimento. Dio e l’uomo si incontrano e cessano di essere due estranei.

La caratteristica di questo incontro è che Dio “parte per primo” prendendo l’iniziativa e… lo fa da Dio! Dice san Giovanni: Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo (1 Gv 4, 19); nella Rivelazione tutto è grazia e prevenienza. È Dio che dà inizio a questo stupendo movimento di reciprocità con l’uomo, il quale rimane sempre libero di accoglierlo. La risposta della fede (di cui si parlerà in seguito) non può essere allora una ammissione astratta della divinità, né una noncurante coscienza del suo esserci (se Dio c’è o non c’è fa lo stesso, non cambia la mia vita), ma può solo consistere in una risposta d’amore alla seduzione d’amore che la Parola di Dio suscita in me.

Ciò che Dio svela di se stesso è uno scenario inimmaginabile, che appare come quando si apre il sipario di un palcoscenico per una prima assoluta: ci troviamo davanti all’infinità del suo Amore per noi e l’uomo non può che dire: grazie. Proprio perché Dio è Amore, la Parola di Dio riesce ad ottenere il consenso umano della fede che non è sottomissione servile al suo arbitrio, piuttosto è il riconoscimento amoroso e grato all’incommensurabile amore che chiama l’uomo alla sua amicizia e alla comunione.

Rivelazione di Dio e fede dell’uomo sono solo opera d’amore.

 

Un abisso colmato

 

È proprio vero che Dio è inaccessibile, irraggiungibile, il Totalmente Altro da noi tanto che i nostri processi mentali lasciati a se stessi non arrivano ad afferrarlo. Sant’Agostino conferma: «Se comprendi, non è Dio». Tra noi e lui c’è un abisso che da parte nostra è assolutamente invalicabile, ma non da parte sua; se l’abisso è profondo non lo è più della sua infinita misericordia che ha liberamente deciso di oltrepassarlo, e lo ha fatto per ben due volte: nel mistero della creazione, quando per mezzo del Figlio sono state fatte tutte le cose e il prodigio dell’esistenza è giunto fino a noi, e nel mistero della redenzione, quando il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda fra noi.

 

La pedagogia di Dio nella storia

 

Quando Dio decide di rivelarsi all’uomo non lo fa in un modo qualsiasi, ma adopera una tattica pedagogica di infinita sapienza.

«Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo, offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé; inoltre, volendo aprire la via di una salvezza superiore, fin dal principio manifestò se stesso ai progenitori: dopo la loro caduta, con la promessa della redenzione, li risollevò alla speranza della salvezza ed ebbe assidua cura del genere umano per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la pratica del bene». (Dei Verbum 3). All’inizio Adamo ed Eva erano i destinatari di tutti i doni di Dio; quando essi con il peccato infransero il sogno che egli aveva su di loro, non si diede per vinto ma promise la salvezza (il Redentore) ed ebbe costante cura del genere umano.  Dopo il peccato Dio cerca di salvare l’umanità stipulando l’alleanza con Noè dopo il diluvio, per significare il piano divino di salvezza verso le nazioni, come uomini uniti in piccoli gruppi, ciascuno secondo la propria lingua. Questo disegno di salvezza fu costantemente minacciato dall’idolatria e dal politeismo, da un’umanità che da sola avrebbe voluto compiere la propria unità (torre di Babele) senza riuscirci.

In seguito, per riunire l’umanità così dispersa Dio sceglie Abramo chiamandolo fuori dal suo paese e dalla casa di suo padre per essere il capostipite di un popolo eletto e - in questo – di tutti i popoli della terra. Il popolo discendente di Abramo sarà il depositario della promessa, il popolo eletto e la radice in cui verranno innestati i pagani. Nel tempo Dio plasmò il suo popolo liberandolo dalla schiavitù egiziana, concluse con lui l’alleanza sul monte Sinai e per mezzo di Mosè gli donò la legge, onore e vanto di fronte agli altri popoli. Nella sua pedagogia Dio si adattò all’evoluzione storico-culturale delle civiltà delle genti, rivelandosi gradualmente a seconda di come il messaggio poteva essere recepito.

Poi attraverso i profeti Dio diede sempre più consistenza al suo popolo nella speranza della salvezza nuova ed eterna, destinata non più solo a Israele ma a tutti i popoli, non più con una legge scritta su tavole di pietra ma nei cuori degli uomini (CCC 50-64).

 

 

La pienezza di tutta la Rivelazione

 

Attraverso la sua pedagogia divina, quindi, Dio prepara l’umanità a ricevere la rivelazione soprannaturale che fa di se stesso e che conclude nella missione e nella persona del Verbo incarnato, il Figlio Gesù Cristo (CCC 53). È Lui la pienezza della rivelazione divina, il culmine a cui tende tutta la storia della salvezza. In Cristo, unica Parola del Padre, perfetta e definitiva, Dio ci ha dato tutto e ci ha detto tutto; è il temine della Rivelazione per cui «… non è da aspettarsi alcun’altra Rivelazione pubblica fino alla manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo» (DV 4).

 

In conclusione possiamo descrivere sinteticamente alcune caratteristiche della rivelazione divina:

  • essa non avviene fuori del tempo, tantomeno in un tempo mitico, ma è un avvenimento reperibile nel tempo. Con la rivelazione Dio entra nella storia umana e il suo ingresso ha una data storica;

  • non si presenta come un punto isolato od unico nell’evolversi del tempo, ma con una successione armonica di interventi di Dio. È un avvenimento progressivo, è una storia che ha come vertice la venuta di Dio in mezzo a noi nella persona di Cristo. Tale vertice non si comprende se non nella preparazione attraverso i secoli; gli avvenimenti che si succedono ne preparano altri in cui Dio si fa prossimo all’uomo e viceversa;

la rivelazione si compie mediante la storia, attraverso «… parole ed eventi intimamente connessi in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenute»  (DV 2). La rivelazione è nello stesso tempo storia e dottrina; la parola di Dio opera ciò che dice, è parola efficace, attua ciò che promette. E la promessa finalmente compiuta per noi è Cristo Gesù.

 

Gennaio / Febbraio 2007 - Anno XI - n° 1 

 


 

La Rivelazione e la Fede

- seconda parte -

 

La rivelazione cioè, come Dio abbia voluto svelare i suoi intimi segreti all’uomo e si sia fatto conoscere personalmente, è avvenuta nella storia fino alla manifestazione suprema, assoluta e definitiva di Cristo Verbo eterno, fatto uomo nel tempo.

Proseguendo vediamo ora come si trasmette la Rivelazione e quali sono i canali attraverso i quali è giunta fino a noi. Ci viene in aiuto il Concilio Vaticano II che, nella costituzione dogmatica Dei Verbum sulla Divina Rivelazione, enuncia i canali privilegiati ed unici di questa trasmissione: la Tradizione apostolica e la Sacra Scrittura. Dice il testo del documento:

«Dio con somma benignità dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni» (DV 7). È Dio, il quale … vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità (1 Tm 2, 4), che desidera far giungere a tutti il messaggio della salvezza. È Cristo Gesù che attua questa volontà del Padre attraverso il comando dato ai suoi apostoli di predicare a tutti gli uomini il vangelo, promesso per mezzo dei profeti e da lui stesso attuato e promulgato con la sua bocca, come sorgente di verità che salva. Il Signore Gesù, compimento di tutta la Rivelazione, ha attuato in pieno il Vangelo promesso e - prosegue il documento -  il comando dato ai suoi apostoli di predicarlo si estende alla totalità della rivelazione, sia all’Antico come al Nuovo Testamento (DV 7). Il comando di Cristo è stato osservato fedelmente con la predicazione degli apostoli che includeva non soltanto le parole ma anche gli esempi, modi di agire, pratiche, istituzioni, riti ricevuti e appresi dallo stesso Gesù per mezzo delle opere e dell’amicizia stretta con lui. La testimonianza apostolica, inoltre, va al di là della predicazione propriamente detta; essa comprende tutto il campo del culto, dei sacramenti, il campo della condotta morale e del governo delle comunità cristiane. In questa opera di trasmissione poi lo Spirito Santo ha avuto e ha un ruolo di primaria importanza, perché è lui che ha guidato e sorretto gli apostoli, permettendo loro di essere fedeli trasmettitori del messaggio salvifico.

Affinché il vangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, gli Apostoli lasciarono come successori i vescovi affidando ad essi il compito di magistero, cioè di interpretare – alla luce dello Spirito Santo – il deposito della fede (depositum fidei) contenuto nella Tradizione e nella Scrittura.

Questa trasmissione viva è chiamata Tradizione in quanto distinta dalla Sacra Scrittura, sebbene ad essa strettamente collegata e congiunta (cfr CCC 77-79) come ad altro canale attraverso cui Dio parla all’uomo e gli comunica se stesso. Nella Scrittura, che è Parola di Dio che la Chiesa sempre ha venerato come venera il Corpo di Cristo, essa trova il suo nutrimento e il suo vigore; infatti attraverso la Scrittura essa non accoglie soltanto una parola umana, ma quello che è realmente: Parola di Dio (1 Ts 2, 13). La santa Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, perché scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. È Dio l’autore della Sacra Scrittura; egli ha ispirato quegli estensori dei Libri sacri da lui scelti e di cui si servì nel possesso delle loro facoltà e capacità umane affinché, agendo egli stesso in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che lui voleva (cfr DV 21). I libri della Scrittura quindi, ispirati dallo Spirito, insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio volle fosse scritta per la nostra salvezza.

Tradizione e Scrittura quindi, sono due sorelle che vanno a braccetto nella trasmissione della Rivelazione, così unite che non sussiste l’una senza l’altra e non è consentito separarle poiché sono interdipendenti. Entrambe sono degne di rispetto, venerazione e fede da parte della Chiesa e dei fedeli.

 

A Dio che si rivela l’uomo risponde con l’assenso della fede, con la quale sottomette a Dio la propria intelligenza e volontà. Con tutto il suo essere l’uomo dà l’adesione a Dio con l’obbedienza della fede, come la chiama la Scrittura.

La fede è un consenso personale dell’uomo a Dio, è adesione libera a tutta la verità che Dio rivela, non perché egli ha capito con la ragione tutto di Dio, ma perché la fede a lui prestata differisce radicalmente da quella data ad una persona umana: è bene e giusto, infatti, affidarsi a Dio, fidarsi di lui e credere a ciò che dice perché… egli è Dio, non può ingannarsi né mai indurrebbe l’uomo a sbagliare.

Per noi cristiani il credere in Dio è inseparabilmente legato alla fede in Gesù Cristo, Figlio diletto che Dio ha mandato nel mondo. Possiamo credere in Gesù perché egli stesso è Dio, Verbo eterno fatto carne nel tempo e nato dalla Vergine Maria. Non si può, inoltre, credere in Gesù Cristo se non si ha parte al suo Spirito, che rivela agli uomini chi egli  è (1 Cor 12, 3). Noi crediamo nello Spirito Santo perché è Dio.

Ecco allora che la Chiesa, e noi con lei, non cessa mai di confessare la propria fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, la Santissima Trinità (cfr CCC 142-152).

La fede cristiana ha alcune caratteristiche che le danno una fisionomia tutta particolare, quelle che la differenziano da una qualsiasi fede umana.

  • La fede è una grazia: la fede è un dono di Dio, una virtù soprannaturale infusa e donata a noi nel Battesimo come un seme da far germogliare, da curare gelosamente e accrescere continuamente. Ogni battezzato ha il dovere di custodire il germe depostogli nel cuore da Dio e non può trascurarlo con superficialità.

  • La fede è un atto umano: se è vero che credere è una grazia non è meno vero che è anche un atto autenticamente umano, libero, pienamente consono all’intelligenza dell’uomo, perché non sminuisce la dignità umana dar credito a Dio e aderire alle verità da lui rivelate. Anche nelle relazioni fra gli uomini noi prestiamo gli uni agli altri fede e fiducia continua (per es. al coniuge, ai familiari, agli amici, ai conoscenti) e non solo: spesso e volentieri siamo disposti a ritenere vero ciò che dicono i giornali e i mass-media in genere, senza che ci preoccupiamo tanto di verificarne la veridicità. Non è forse vero che stimiamo attendibile una notizia solo per il fatto che l’hanno detta in televisione? Se siamo disposti a credere anche a chi ci prende per il naso, non sarà allora contrario alla dignità umana dar fiducia a Dio, “prestare - con la fede - piena sottomissione della nostra intelligenza e volontà a Lui quando si rivela” (Conc. Vat. I) e instaurare una profonda comunione.

  • Altra caratteristica della fede è il motivo per cui crediamo. Esso non consiste nel fatto che le verità rivelate – come si diceva poco sopra -  sono comprese totalmente e non perché capiamo tutto quello che Dio dice di sé, ma per l’autorità di Colui che le rivela. La fede è più certa di ogni conoscenza umana in quanto si fonda sulla Parola di Dio, il quale – abbiamo detto – non può mentire, altrimenti non sarebbe la Verità.

  • “Credo per comprendere e comprendo per meglio credere” (Credo ut intellegam, intellego ut credam). Questa espressione di sant’Agostino (Disc. 43, 7, 9) è stata ripresa dal Catechismo perchè sottolinea molto bene il senso del credere. È caratteristico della fede, infatti, che il credente desideri conoscere e amare sempre meglio e sempre più le verità rivelate. Il credere è via ad una comprensione intellettiva delle verità, le rende immediatamente accessibili, amabili, e nello stesso tempo è importante capire intellettualmente ciò che si crede per non essere come oche imbeccate. Dovrebbe essere un dovere ed oggetto di desiderio conoscere e approfondire sempre più e meglio la fede, per conoscere ed amare maggiormente Dio Padre che si rivela a noi.

  • la fede deve essere volontaria e libera, nessuno può dunque costringere un altro ad abbracciarla contro la propria volontà. Questa libertà di credere è alla base della dignità umana, come è umano e dignitoso riconoscere la “libertà di coscienza” di ogni uomo della terra. Quando recitiamo il Credo nella Messa o rispondiamo alla domande del sacerdote nella rinnovazione delle promesse battesimali diciamo: Io credo, come atto umano, libero, volontario e personale.

  • La fede è necessaria alla salvezza, per cui nessuno può essere giustificato senza essa e nessuno entrerà nella vita eterna se non vi persevererà. Rimanere saldi nella fede fino alla fine (perseveranza finale) è un dono dello Spirito Santo e non attribuibile alle forze o ai meriti umani; bisogna sempre implorarla da Dio nella preghiera.

 

La fede allora non è mai un atto isolato, come da soli non ci si è dati la vita. Se la fede è un atto personale e libero è anche vero che noi professiamo una fede “ricevuta” da altri, da testimoni accreditati, oculari (gli apostoli) che ce l’hanno trasmessa e che, come il testimone di una staffetta infinita, noi consegniamo ad altri. La fede è simboleggiata da quella fiammella accesa al cero (Cristo risorto) che squarcia le tenebre nella notte di Pasqua; ad essa attinge ciascun credente e la partecipa al fratello accendendo la sua candelina. La nostra è la fede di un popolo redento che in comunione proclama: io credo, noi crediamo perché è la fede della Chiesa che regge, sostiene e nutre la mia. Questa verità permette di giungere ad avere un linguaggio comune e di professarla in comunità. La Chiesa ha ricevuto dagli apostoli una sola fede che custodisce gelosamente e trasmette alle generazioni che si susseguono, esprimendola in un linguaggio comune che la tradizione ha codificato nel Simbolo Apostolico o professione di fede: il Credo.

 

La FEDE è la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la Santa Chiesa ci propone da credere, perché egli è la stessa verità. Con la fede «l’uomo si abbandona tutto a Dio liberamente» (DV 5). Per questo il credente cerca di conoscere e fare la volontà di Dio… Il discepolo di Cristo non deve soltanto custodire la fede e vivere di essa, ma anche professarla, darne testimonianza con franchezza e diffonderla: «Devono tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce attraverso le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa».  CCC 1814-1816

 

 

Maggio / Giugno 2007 - Anno XV - n° 2


 

Il Credo Apostolico

- terza parte -

 

La Chiesa ha ricevuto dagli Apostoli una sola fede che custodisce gelosamente e trasmette alle generazioni che si susseguono; per usare un linguaggio comune essa lo espone attraverso il simbolo apostolico o credo (dalla prima parola con cui inizia) e che noi recitiamo ogni domenica nella santa Messa.

Fin dalle origini la Chiesa ha espresso la propria fede attraverso formule narrative che, adatte alla memorizzazione, erano recitate dai candidati al battesimo. Nel corso dei secoli i simboli della fede sono stati diversi, a seconda dei diversi bisogni del tempo; nessuno di loro però è superato, tutti sono sintesi della fede del popolo di Dio, ma fra i tanti due occupano un posto speciale nella vita della Chiesa: il simbolo degli apostoli – così chiamato perché ritenuto il riassunto fedele della fede dei primi discepoli di Cristo – e il simbolo niceno-costantinopolitano, che trae la sua grande autorità dall’essere il frutto dei primi due Concili Ecumenici, rispettivamente del 325 e 381. Quest’ultimo è il Credo comune alle chiese d’Oriente e d’Occidente ed è il credo che tutt’oggi la liturgia ci fa proclamare nella Messa.

Per comodità e capacità di sintesi adotteremo, per la nostra spiegazione, il testo del simbolo apostolico.

- Credo in Dio, Padre Onnipotente, Creatore del cielo e della terra: il nostro credo si apre con la professione di fede in un unico Dio che è Padre e Creatore di tutte le cose, del cielo e della terra. Dio è il Primo e l’Ultimo, il Vivente, il principio e la fine; soprattutto Dio è Padre, la prima persona della Ss.ma Trinità che sta in rapporto – naturalmente – con il Figlio Gesù e lo Spirito Santo. Ciò che noi sappiamo di Dio lo conosciamo perché Lui stesso lo ha rivelato, Lui ci ha detto chi è; nel libro dell’Esodo (3, 1-15) Dio appare a Mosè in un roveto che arde senza consumarsi e in questa circostanza si fa conoscere per nome: io sono colui che sono; l’espressione molto forte sottolinea il fatto che Dio sussiste di per sé, senza bisogno di ricevere la vita da altri, che in Lui è la vita in pienezza e per questo la può comunicare a chi vuole e quando vuole. Inoltre quando Dio afferma di sé: Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe (v. 6) si rivela come il Dio di uomini con i quali sta costruendo la storia della salvezza, il Dio di persone vive con tutto il loro carico di miserie umane e debolezze, e dichiara che starà a fianco del suo popolo in mezzo alle vicissitudini della storia. Egli è eterno, onnipotente, onniveggente, onnipresente, nulla sfugge al suo sguardo e tutto è scoperto ai suoi occhi (cfr. Eb 4, 13). Dio non è, quindi, il motore immobile dei greci, un’idea astratta o un’ipotesi di cui si può anche fare a meno, tanto meno egli è “energia cosmica” senza volto, come gran parte delle teorie contemporanee ce lo vorrebbero presentare. Secondo la Rivelazione egli è persona vivente che vuole instaurare un rapporto amicale con l’uomo, suo figlio, e prende l’iniziativa in tal senso rivelando se stesso.

Ma il nome che più sottolinea il legame che congiunge Dio all’uomo è «Creatore del cielo e della terra» e di tutto ciò che essa contiene. Alla fede in Dio creatore spetta un posto d’onore, il creatore di tutto è, per la confessione della fede cristiana, Padre, Signore Onnipotente; secondo Genesi 2, 7 (…il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente) Dio crea l’uomo con le sue proprie mani; secondo Genesi 1, 26s (e Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra») lo crea a sua immagine e somiglianza e così le altre cose hanno senso in funzione dell’uomo, con il quale culmina l’opera creatrice. La creazione scaturisce dalla volontà libera di Dio, dalla sua sapienza, da Lui stesso come Amor che muove il sole e l’altre stelle, come dice mirabilmente Dante. Egli per creare non ha nessun presupposto estrinseco a sé, ma solamente interiore: il suo amore crea ex nihilo, dal nulla, come cosa “altra” da sé. Il mondo che Dio plasma non è un caos ma un cosmos, una bellezza, un insieme ordinato e destinato ad un fine, quello cioè che Dio possa essere “tutto in tutti”, procurando ad un tempo la sua gloria e la nostra felicità (CCC 294).

Dopo aver dato loro la vita, Dio non abbandona mai le singole creature nè la creazione tutta, dona  anzi ad essa di esistere e la conserva in vita continuamente. Sant’Agostino esprime questo concetto dicendo che la creazione esiste perché Dio la guarda e la mantiene in vita: Noi vediamo la tua creazione perché esiste; ma essa esiste perché tu la vedi. Noi vediamo all’esterno che è, all’interno che è buona; ma tu la vedesti fatta quando e dove vedesti che doveva essere fatta (Conf. XIII, 38, 53). La creazione, quindi, non è buttata là da Dio e poi lasciata al suo destino, ma è continuamente dipendente dal Creatore che la conduce verso la perfezione, essendo creata non perfetta ma in “in stato di via”, cioè verso una perfezione ultima: le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la sua opera al compimento è la Divina Provvidenza (cfr. CCC 301-303). La sollecitudine della Provvidenza è concreta e immediata, si prende cura di tutto, dalle più piccole cose fino ai grandi eventi e nello sconfinato, immenso mare del tempo conduce il creato come un’imbarcazione – attraverso le vicissitudini della storia e la libertà dell’uomo – al suo fine, che è solo un fine di bene. Gesù nel Vangelo chiede di abbandonarci alla sapiente Provvidenza di Dio Padre: Non affannatevi dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo?... Il Padre vostro celeste sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutto vi sarà dato in aggiunta (Mt 6, 31-33).

Dio Padre che crea, nutre e porta a compimento (Conf. I, 4, 4), per realizzare il suo disegno si serve anche della cooperazione dell’uomo, della sua libertà, del suo ingegno; Dio crea esseri “creatori”, cioè partecipi della sua opera creatrice. Questo lo si vede soprattutto, come esempio, dal fatto che all’uomo e alla donna (e non alla provetta!) è stato affidato il compito di procreare e di dare la vita ad altri esseri umani. Il Padre fa dono così agli uomini di essere cause intelligenti per completare l’opera della creazione ed entrare liberamente nel piano divino con le loro azioni, opere, preghiere e sofferenze.

Dio è il creatore, dunque. Ma Dio è anche eterno, privo di giorni, senza tempo (che è una categoria umana), è il “prima di ogni prima” e di ogni essere pensabile, il “dopo” di ogni evento che sia ultimo. In lui non c’è variazione né ombra di cambiamento (Gc 1, 17). Dio è onnisciente, non c’è niente che sfugga ai suoi occhi che penetrano gli abissi, quanto più il cuore umano! La sua conoscenza abbraccia passato presente e futuro in un colpo solo, come se tutto accadesse ora. Egli è onnipotente e di tutti gli attributi divini  nel credo si nomina solo questo, perché confessarlo è molto importante per la nostra vita. La sua azione arriva dappertutto e tutto è in suo potere, non c’è niente che limiti la sua capacità di agire e di essere presente, tranne il peccato; ma anche da questo l’onnipotenza di Dio sa ricavare un bene. Ordinariamente non si palesa con manifestazioni eclatanti o straordinarie, ma soprattutto con la paternità; Dio si prende cura di noi, perdona i nostri peccati e ci riaccoglie nella sua casa, ama la vita, nutre il creato e ne ha cura. La sua onnipotenza  non è certo arbitraria perché tutto in Lui è ordinato al bene e non può esserci onnipotenza se non nella sua sapiente intelligenza. La nostra fede può essere messa alla prova dall’apparente impotenza Dio quando sembra incapace di impedire il male. Quante volte diciamo: «Ma se Dio esiste, perché succede questo e quest’altro? Perché tanto dolore sulla terra, tanto male, tanti scandali?». Siamo stupiti da quella che può sembrare assenza o silenzio di Dio… ma Dio non tace. Egli ha rivelato nel modo più misterioso la sua onnipotenza nel volontario abbassamento e nella Resurrezione del Figlio Gesù, per mezzo del quale ha vinto il male. Cristo crocifisso, segno di contraddizione (Lc 2, 34) è potenza e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini (1Cor 1, 24-25). I modi di agire di Dio non sono secondo i nostri comuni pensieri, la sua giustizia non è come quella degli uomini che la eserciterebbero molto sbrigativamente sulla terra. Ed è una fortuna che sia così! Dio ha vie misteriose, sicuramente umili ma reali, per guidare la storia là dove vuole condurla e per salvare l’uomo; Egli sa arrivare con i suoi mezzi ignoti là dove noi non ci sogneremmo neppure di andare. Il Catechismo afferma: Se Dio Padre onnipotente, Creatore del mondo ordinato e buono, si prende cura di tutte le creature, perché esiste il male? A questo interrogativo tanto pressante quanto inevitabile, tanto doloroso quanto misterioso, nessuna risposta rapida può bastare… È l’insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a tale questione… Tuttavia, nella sua sapienza e nella sua bontà infinite, Dio ha liberamente voluto creare un mondo “in stato di via” verso la sua perfezione ultima. Questo divenire, nel disegno di Dio, comporta, con la comparsa di certi esseri la scomparsa di altri, con il più perfetto anche il meno perfetto, con le costruzioni della natura anche le distruzioni. Quindi insieme con il bene fisico esiste anche il male fisico finché la creazione non avrà raggiunto la sua perfezione.

Gli angeli e gli uomini, creature intelligenti e libere, devono camminare per il loro destino ultimo per una libera scelta e un amore di preferenza. Essi possono deviare e in realtà hanno peccato, facendo entrare nel mondo il male morale, che non ha nessun paragone con quello fisico, essendo incommensurabilmente superiore. Dio, che non è né direttamente né indirettamente la causa del male morale, rispettando la libertà dell’uomo lo permette e, misteriosamente ma realmente, ne trae un bene. Infatti, dal male morale più grande che l’uomo abbia mai compiuto – il rifiuto e l’uccisione dell’Innocente suo Figlio – Dio ne ha ricavato i beni più grandi: la glorificazione di Cristo e la nostra redenzione. I paragrafi dal 309 fino al 314 del Catechismo sono molto illuminanti per capire qualcosa di più.

Sul tema dell’onnipotenza di Dio e lo scandalo del male si è intrattenuto anche Papa Benedetto XVI l’anno scorso quando, durante la sua visita al campo di concentramento di Auschwitz ha potuto dire: Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: Dov’era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare… questo eccesso del male? ... Noi non possiamo scrutare il segreto di Dio, vediamo solo frammenti e ci sbagliamo se vogliamo farci giudici di Dio e della storia.

Non difenderemmo, in tal caso, l’uomo, ma contribuiremmo solo alla sua distruzione. No, in definitiva, dobbiamo rimanere con l’umile ma insistente grido verso Dio: Non dimenticare la tua creatura, l’uomo! E il nostro grido verso Dio deve al contempo essere un grido che penetra nel nostro stesso cuore, affinché si svegli in noi la nascosta presenza di Dio, affinché quel suo potere che Egli ha depositato nei nostri cuori non venga coperta e soffocato in noi dal fango dell’egoismo, della paura degli uomini, dell’indifferenza e dell’opportunismo…

Noi gridiamo verso Dio, affinché spinga gli uomini a ravvedersi, così che riconoscano che la violenza non crea la pace, ma solo suscita altra violenza…

Il Dio nel quale crediamo è un Dio della ragione… che è una cosa sola con l’amore, col bene. Noi preghiamo Dio e gridiamo verso gli uomini, affinché questa ragione, la ragione dell’amore e del riconoscimento della forza della riconciliazione e della pace prevalga sulle minacce circostanti dell’irrazionalità o di una ragione falsa, staccata da Dio (28/05/2006).

Dio Padre ha creato l’uomo libero «correndo il rischio» del male e del peccato, il quale ha dato luogo alla condanna a morte del Figlio Gesù; Egli ci ha così manifestato il suo amore infinito che – se il peccato non ci fosse stato – non avremmo potuto conoscere.

La prova che Dio ci ama è che mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi (Rm 5, 8), in lui solo c’è salvezza e il paradosso della fede fa cantare la Chiesa nella notte di Pasqua: O felix culpa, quem talem hac tantum meruit habere Redemptorem! - O felice colpa che meritò di avere un così tale e grande Redentore.

 

Luglio / Agosto 2007 - Anno XV - n° 3


 

<<Credo in Gesù Cristo, unico Figlio di Dio, nostro Signore...

- quarta parte -

 

… che per noi uomini e per la nostra salvezza è disceso dal cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo».

La verità  che la Chiesa da sempre crede, il nucleo centrale del cristianesimo, il suo segno distintivo è la fede nella reale incarnazione del figlio di Dio. È il fondamento del cristianesimo ed anche la sua assoluta novità rispetto alle altre religioni monoteiste: l’Ebraismo e l’Islam.

Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo figlio, nato da donna, nato sotto la legge (Gal 4, 4-5). Questa è la buona gioiosa notizia riguardante Gesù: Dio ha visitato il suo popolo, ha adempiuto la promessa fatta ad Abramo e ai suoi discendenti e, andando oltre ogni aspettativa umana, ha mandato sulla terra il suo Figlio prediletto.

Questo evento unico la Chiesa lo chiama incarnazione, cioè il Verbo eterno che era presso Dio Padre ha assunto la natura umana per realizzare in essa la nostra salvezza. Ciò non significa che Gesù sia un po’ dio e un po’ uomo o sia il risultato di una ambigua mescolanza umano-divina, no.

Egli si è fatto veramente uomo rimanendo vero Dio. Questa è la nostra fede, questo è il mistero amato e custodito dalla Chiesa che deve essere scolpito nel cuore e nella vita dei credenti e che nessun “vento di dottrina” all’ultima moda deve far vacillare.

 

La verità ‘strapazzata’

 

Sulla persona di Gesù, così come ce la consegna la tradizione della Chiesa, ci sono state nel corso dei secoli fino ad oggi controverse interpretazioni, sino a sfociare in eresie e deviazioni, nei confronti delle quali la Chiesa ha sempre e ogni volta dovuto prendere posizione. Non è successo quindi solo nei primi secoli cristiani ma succede anche ai nostri giorni. Ogni tanto viene fuori qualcuno con qualche nuova teoria, presa chissà dove, per parlare di Cristo in modo tale da sovvertire la verità di Cristo; il suo nome attira e viene usato a proposito e a sproposito per dire che quello che si pensa di lui è “cristiano”. Anche la riflessione teologica, se si disgiunge dalla verità rivelata, è fuorviante. Le origini di queste teorie ed errori su Gesù Cristo sono diverse, ne possiamo citare qualcuna:

  •  la Rivelazione di Gesù non avrebbe carattere definitivo e completo ma sarebbe complementare a quella di altre religioni.

La fede comporta adesione personale dell’uomo a Dio ed è inseparabile dall’assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato; essa comporta (lo abbiamo detto nei numeri precedenti) aderire a Dio e alle verità che lui rivela, per la fiducia che si accorda alla persona che le afferma. Per questo «… non dobbiamo credere in nessun altro se non in Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo» (CCC 178).  È diversa la fede teologale (dono della grazia e dello Spirito Santo che muove il cuore e lo rivolge a Dio) dalla credenza nelle altre religioni che è «quell’insieme di esperienze e di pensiero che costituiscono i tesori umani di saggezza e religiosità che l’uomo nella sua ricerca della verità ha ideato e messo in atto nel suo riferimento al divino e all’Assoluto» (Fides et ratio 31-32). Quindi l’affermazione popolare che tutte le religioni sono uguali non è esatta, perché la fede teologale è accoglienza delle verità rivelate da Dio Uno e Trino, la credenza nelle altre religioni è esperienza religiosa alla ricerca della verità assoluta e priva ancora dell’assenso a Dio che rivela (Cfr. Dichiar. Dominus Iesus, 7).

  •  Altra teoria deviante è quella che pretende di considerare la persona storica di Gesù di Nazareth come finita, rivelatrice del divino in modo non esclusivo ma complementare ad altre presenze rivelatrici e salvifiche. Dio si sarebbe manifestato all’umanità in tanti modi e in tante figure storiche: Gesù sarebbe una delle tante, uno dei volti che Dio avrebbe assunto nel corso del tempo. Si comprende come questa tesi contrasta profondamente con la fede cristiana la quale proclama che Gesù di Nazareth, figlio di Maria, è solo lui il Figlio di Dio, il Verbo incarnato in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità. In Cristo sussistono in un'unica persona, totalmente ma non confuse fra loro, due nature: quella umana e quella divina. «Un solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio unigenito, che noi dobbiamo riconoscere in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. La differenza delle nature non è affatto negata dalla loro unione, ma piuttosto le proprietà di ciascuna sono salvaguardate e riunite in una sola persona e una sola ipostasi» (Conc. di Calcedonia, a. 451). Il Figlio di Dio incarnandosi ha assunto non solo un corpo umano reale ma anche un’anima razionale, la quale è dotata di una vera conoscenza umana. Proprio perché umana non poteva essere illimitata; era esercitata nelle condizioni storiche in cui Cristo visse, nello spazio e nel tempo. Per questo il Figlio di Dio - leggiamo nel Vangelo - ha voluto crescere in sapienza, età e grazia (Lc 2, 52) ed anche doversi informare su quello che nella normale condizione umana si apprende con la conoscenza e l’esperienza. Questo mistero di Cristo è consono al fatto che il Verbo eterno ha voluto umiliarsi nella condizione di servo (Fil 2, 7). «Al tempo stesso, però, questa conoscenza veramente umana del figlio di Dio esprimeva la vita divina della sua persona. La natura umana del Figlio di Dio non da sé ma per la sua unione col Verbo, conosceva e manifestava nella Persona di Cristo tutto ciò che conviene a Dio» (CCC 473).

  • Altre sottili deviazioni sulla persona di Gesù sono quelle che accentuano in modo assoluto un aspetto del suo essere rispetto ad un altro; per esempio, Gesù sarebbe solo un grande personaggio storico, un profeta come altri o un uomo soltanto e nulla più. Addirittura una corrente contemporanea vorrebbe attribuire ai vangeli e alle narrazioni degli apostoli una sorta di racconto mitico, fiabesco, e così pure alla figura del Cristo. Ma non è così. Anche Papa Benedetto, in più occasioni nei suoi discorsi, non tralascia di riaffermare la storicità dell’evento-Cristo, che la sua vicenda umana non è una favola ma un fatto reale, accaduto in un preciso momento storico. «Un Gesù fortemente idealizzato può sembrare addirittura il personaggio di una fiaba», ebbe a dire in un’udienza all’inizio dell’anno, mentre «Gesù, il vero Gesù della storia, è vero Dio e vero uomo e non si stanca di proporre il suo vangelo a tutti…».

Possiamo allora concludere affermando che il messaggio straordinario che la Chiesa annuncia è questo: il Dio che parlava a Mosè sul monte Sinai, tra lampi tuoni e terremoti, il Dio irraggiungibile che non poteva essere nominato né visto dagli uomini, il Dio trascendente si è fatto vicino a noi, si è fatto uno di noi non rinunciando alla sua divinità.

 

«Nulla è più potente dell’umiltà di Dio» (S. Agostino)

 

Non possiamo tralasciare nel contesto del nostro discorso, la riflessione che sant’Agostino fa sul Dio incarnato.

Nel  suo travagliato cammino verso la trasformazione totale di anima e di cuore, ciò che lo conquistò totalmente fu proprio la verità che Dio si è fatto uomo, di Cristo mediatore fra Dio e gli uomini, dell’amore di Dio dimostrato fino a questo punto: l’umiltà di Dio lo afferrò definitivamente e lo consegnò per sempre a Cristo. Agostino fu affascinato proprio da questa verità della fede cattolica che le lettere di san Paolo e il vangelo di Giovanni gli rivelavano: Dio si fa uomo con l’unico scopo di salvarci. L’umiltà di Cristo è la strada che ogni uomo deve percorrere per la salvezza ma è anche la medicina che guarisce la superbia umana: «Quale superbia si può sanare se non si sana con l’umiltà del Figlio di Dio?» (De agone christ. 11,12). «L’uomo cerca la potenza, la gloria, l’efficienza ma nulla quaggiù è più potente dell’umiltà di Dio» (Ep 232,6).

Agostino contempla i misteri della vita di Cristo, ne scorge la bellezza, la magnificenza, la straordinaria ordinarietà e in essi non smette di contemplare il Deus humilis fino all’estasi dell’amore.

Se Cristo è l’unica via per andare al Padre anche la nostra deve essere una vera sequela christi, fino all’imitazione di Lui, all’assimilazione ai suoi sentimenti. «O uomo, che coraggio ad insuperbirti! Dio si fece umile per te. Forse ti stimeresti poco se imitassi un uomo umile; ma per lo meno imita Dio umile» (Sul vang di Gv 25, 26).

 

L’umiltà, allora, non è la virtù dei grandi uomini che sanno farsi piccoli, ma è eminentemente virtù di Dio del quale solo possiamo dire che si è umiliato veramente: Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio;  ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini, apparso in forma umana, umiliò se stesso… (Fil 2,6-8); per l’uomo essere umile è solo stare al proprio posto, nulla di più.

 

 

«Cristo è maestro di umiltà con la parola e con le opere: sempre infatti con la parola non cessò mai dall'inizio della creazione di insegnare agli uomini l'umiltà per mezzo di angeli, di Profeti; anche con il suo esempio si è degnato insegnarla. Venne umile il nostro Creatore, creatura in mezzo a noi, egli che ha creato noi, egli che fu creato per noi: Dio prima del tempo, uomo nel tempo, per affrancare l'uomo dal tempo. Medico infallibile, venne a guarire il nostro tumore. Dall'oriente all'occidente il genere umano giaceva simile a un grande malato e reclamava il Medico infallibile. Un primo tempo, questo Medico inviò i suoi aiutanti, e in seguito, venne egli stesso, quando alcuni avevano perduto ogni speranza. A quel modo che un medico manda i suoi assistenti nel caso di un compito facile e, sopraggiungendo un aggravamento pericoloso, interviene personalmente, così l'umanità, immersa in ogni sorta di vizi, era oppressa dalla minaccia di un pericolo mortale che scaturiva soprattutto dal fomite della superbia: egli venne appunto a guarire proprio la superbia con il suo esempio. Vergognati di essere tuttora superbo, uomo; per te Dio volle essere umile. Molto Dio si sarebbe umiliato, se soltanto fosse nato per tuo amore: si è degnato persino di morire per te. Egli dunque era sulla croce nella sua umanità, quando i Giudei persecutori scuotevano il capo dinanzi alla croce e dicevano: Se è il Figlio di Dio, scenda ora dalla croce e gli crederemo . Ma egli si manteneva nell'umiltà, per questo non scendeva: non aveva perduto la potenza, ma dava prova di pazienza… Se non te ne veniva data prova, non ti si poteva comandare ma, se con le parole si doveva imporre come legge, doveva essere presentata e raccomandata con l'esempio. Perciò, nel Signore, vediamo di fare attenzione a questo: consideriamo la sua umiltà, beviamo al calice della sua umiliazione, teniamoci stretti a lui, il nostro pensiero sia rivolto a lui».

 

 

Ottobre / Novembre 2007 - Anno XV - n° 4


Credo in Gesù Cristo, nato da Maria Vergine

- quinta parte -

 

 «(Cristo) fu concepito per opera dello Spirito Santo, nacque da Maria Vergine».

 

Il vangelo di Luca racconta che una giovane donna ebrea semplice, umile, abitante di un borgo sconosciuto della Giudea al tempo dell’imperatore Augusto, è investita di una grazia infinita: un messaggero di Dio le annunzia che sarà madre per opera dello Spirito Santo e il bambino che nascerà da lei sarà il Figlio di Dio. L’Altissimo, dunque, per attuare il suo disegno di salvezza e inviare nel mondo suo Figlio, chiede il consenso ad una ragazza che spalanca il cuore, la mente, il grembo al dono immenso di Dio.

Nella lettera ai Galati (4, 4) san Paolo dice: Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, a sottolineare che l’incarnazione è l’inizio del compimento della salvezza e delle preparazioni di Dio. Dio quindi ha preparato l’evento dell’incarnazione attraverso la storia sacra e tutta la storia in genere, perché il Verbo fatto carne fosse il centro, il punto di arrivo e di partenza, il significato ultimo di tutta la storia. Il Verbo eterno del Padre, essendo concepito come vero uomo nel seno di Maria, è Cristo, cioè unto dallo Spirito sin dal suo concepimento; tuttavia la rivelazione di sé sarà progressiva nel tempo, fino alla manifestazione ai discepoli (cfr. CCC 486).

A questo punto non possiamo parlare di Gesù senza soffermarci su sua madre Maria e affermare che tutto ciò che la Chiesa crede di Lei si fonda unicamente su quello che essa crede di Cristo, e ciò che insegna su Maria illumina la fede in Gesù.

 

Maria è la persona più amata e venerata dalla cristianità, la più raffigurata nei secoli, anche se di lei non si conosce il volto (S. Agostino); tuttavia ciò che noi conosciamo sul suo conto sono i tratti fondamentali desunti dal Vangelo e dalla Tradizione. La grandezza di quanto è avvenuto in Maria non deve indurci a relegarla nella nicchia dei «santi impossibili o irraggiungibili»; sappiamo invece che la sua fu una vita ordinaria, concreta, fatta di lavoro e fatica quotidiana. Gli aspetti della sua fede furono limpidi e oscuri insieme e la sua esistenza non fu affatto diversa da quella delle donne del suo tempo.

A Maria non è stato risparmiato il peso di vivere eventi drammatici fin dall’inizio, di dover attraversare dubbi, angosce, desolazioni fino alla sofferenza massima: vedere il Figlio morire crocifisso. Sempre a lei, però, il Padre donò la gioia più grande: vederlo risorto e ricevere il dono dello Spirito Santo insieme ai discepoli nella Pentecoste. In ultimo Maria, partecipe in tutto sulla terra della vita di Gesù, è insieme a lui coronata di gloria in cielo, ove risiede in anima e corpo.

Il momento determinante della vita di Maria, il compimento di tutto quello che precede e segue è, senza dubbio, l’annunciazione: quest’umile ragazza da’ il suo consenso umano e libero ad un Dio che “bussò e chiese il permesso” prima di entrare da lei. Per questo non si potrà mai considerarla uno strumento passivo nelle mani di Dio, né tanto meno costretto o manovrato. Tutta la missione di Maria si riassume nella sua maternità: ella è madre di Gesù e madre nostra in lui, come dice sant’Agostino: È madre delle membra di Cristo, perché ha cooperato con la sua carità alla nascita dei fedeli nella Chiesa, i quali di quel Capo sono le membra (De sancta virginitate 5, 6).

Questa missione materna - come afferma il Concilio - perdura senza soste dal momento del consenso portato all’annunciazione e mantenuto senza esitazione sotto la Croce, fino al coronamento di tutti gli eletti (LG 58).

 

Maria donna unica: i privilegi mariani

 

La Chiesa attribuisce alla Vergine Maria l’espressione biblica del Cantico dei Cantici: Tota pulchra es, o Maria! Tutta bella sei o Maria! La via della bellezza è forse quella giusta per capire la logica dei privilegi mariani che dipingono una sorta di fascino sul suo volto.

Queste “bellezze” sono anche i dogmi che la Chiesa ha riconosciuto per la Madre del Signore. Vediamoli insieme.

 

1. Maria Madre di Dio: la Theotòkos.

 

La prima e più grande prerogativa mariana, anche in ordine di tempo, è senza dubbio il dogma di Maria Madre di Dio. Maria, chiamata nei vangeli la «Madre di Gesù», prima della nascita del Figlio è stata acclamata da Elisabetta «Madre del mio Signore»; infatti colui che è stato concepito in virtù dello Spirito Santo è diventato veramente suo figlio secondo la carne, il Figlio eterno del Padre, la seconda persona della Ss.ma Trinità. Per questo la Chiesa confessa che Maria è veramente Madre di Dio (CCC 495).

La maternità divina appare come il mezzo mediante il quale Dio attua il piano di salvezza: ma perché il Verbo ha preferito nascere da una donna, piuttosto che discendere dal cielo con un corpo adulto formato dalla mano di Dio, in maniera da essere compreso meglio dai suoi contemporanei? Perché voleva essere l’autentico germoglio della stirpe che voleva salvare, perché voleva salvarla dall’interno e non mediante un “pronto soccorso” piovuto dall’alto, non come un estraneo che interviene da fuori, ma mediante una salvezza tratta dall’umanità stessa. Dio voleva soccorrere l’umanità come un fratello, sia perfettamente uomo che perfettamente Dio; in breve, un mediatore perfetto che riunisse nella sua persona le due parti da salvare. Se il I Concilio di Calcedonia (325) aveva definito Gesù Cristo vero Dio, Maria è madre non della divinità di Cristo o dell’uomo Gesù, ma è genitrice di Dio che in lei assunse umana carne. La maternità di Maria è il modello più alto e più perfetto - dopo quello dell’unione ipostatica avveratasi in Cristo, per cui in lui sussistono in ugual misura e distintamente due nature, umana e divina, senza confusione né mutamento (abbiamo parlato di questo nel numero precedente) - è il modello della fecondità insita nell’unione tra la creatura e Dio. A nulla le sarebbe valso essere madre fisica del Verbo se questo stesso Verbo non lo avesse accolto prima, con la fede, nel cuore. Per questo sant’Agostino esclama: Maria fu più beata per aver partorito con la fede Cristo, che per aver concepito la carne di Cristo. La materna fecondità non sarebbe stata di nessun giovamento per Maria, se ella non avesse ospitato Cristo prima nel suo cuore che nella sua carne (De Sancta Virginitate 3). Per questo la più bella e più grande beatitudine di Maria sta nell’esclamazione di Elisabetta: “Beata te, che hai creduto” (Lc 1, 45).

 

2. Perpetua verginità

 

Il primo dei Papi che proclami e difenda ufficialmente la perfetta e perenne verginità di Maria Madre di Dio è Siricio (392), una credenza peraltro già ammessa dal sentimento soprannaturale dei fedeli e proclamato dal magistero ordinario della Chiesa. In sintesi si riassume in tre aspetti:

 

a) verginità prima del parto: Maria concepì il Verbo di Dio, quanto alla sua natura umana, senza alcun intervento di uomo (Lc 1, 34). Le testimonianze di questa realtà le troviamo nella Scrittura, nei Vangeli in particolare dove Gesù è sempre presentato come figlio di Maria, a cominciare dal prologo di Matteo: Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo (1, 16);

 

b) verginità dopo il parto: Maria dopo la nascita di Gesù fino alla sua morte, non ebbe altri figli né da Giuseppe né da altro uomo, quindi la sua perfetta integrità di mente, di cuore, di sensi non soffrì la minima violazione. L’antica convinzione della Chiesa è che la consacrazione verginale di Maria è stata sigillata e vivificata nel suo cuore dallo Spirito Santo;

 

c) verginità nel parto: Maria diede alla luce il suo Figlio divino rimanendo illesa nel sigillo della sua verginità, che non fu alterato dal passaggio del corpo vero e reale di Cristo, come quando il suo vero corpo risorto passò attraverso le porte chiuse nel cenacolo. Questo secondo aspetto del dogma è quello che ha fatto più discutere teologi e mariologi recenti, perché non si riusciva a capire di che natura fosse questa verginità di Maria. Ma situare il problema sul piano anatomico e fisiologico è oscurare il senso stesso della Tradizione, senza risultati apprezzabili. La verginità di Maria non deve essere affermata a detrimento della sua maternità per cui, secondo la Tradizione, Maria è perfettamente madre e allo stesso tempo vergine, come la divinità di Cristo non diminuisce la sua umanità. Fermiamoci sull’essenziale, il significato religioso di questo mistero. Per i Padri della Chiesa esso non è tanto un privilegio di Maria quanto un appannaggio della nascita di Cristo, poiché erano penetrati nell’unità dogmatica e simbolica che lega tra loro le due nascite del Verbo: nascita dal Padre da tutta l’eternità e nascita dalla Vergine nel tempo. La seconda nascita ha valore di segno in rapporto alla prima, così che Dio ha fatto partecipare questa nascita corporale alla condizione soprannaturale e spirituale dell’altra, affrancandola sotto certi rapporti dai determinismi della carne. Infine il miracolo della nascita verginale manifesta la pienezza del mistero dell’Immacolata Concezione e prelude al mistero dell’Assunzione. La grazia preservatrice che esenta Maria dal peccato originale l’affranca ugualmente dalla sue principali conseguenze personali, non solamente nell’anima ma anche nel corpo. Il mistero che circonda Maria - verginità perpetua, immacolata concezione, assunzione al cielo - ci ricorda verità misconosciute quanto essenziali al mistero cristiano: il corpo è parte integrante dell’uomo, è salvato da Cristo e associato a tutto il compimento della salvezza, promesso ad un destino eterno.

La straordinarietà di Maria è proprio questa: essere soggetto di doni divini “impossibili” che però non fanno di lei una “dea”, ma la rendono così donna e umana da essere per noi madre, sorella e amica.

 

3. Immacolata Concezione

 

Fu il Beato Papa Pio IX che l’8 dicembre 1854 proclamò, dinanzi alla Chiesa e al mondo intero, il dogma dell’Immacolato Concepimento di Maria, ratificando in questo modo secoli di tradizione biblica, patristica e popolare. In ordine di tempo l’Immacolata è il primo dei privilegi che adornano la Madre di Dio, ma la maternità divina ne fu senz’altro il motivo determinante. Infatti era del tutto conveniente che una Madre così venerabile risplendesse sempre adorna dei fulgori della santità più perfetta e, immune interamente dalla macchia del peccato originale, riportasse il più completo trionfo sull’antico serpente (Pio IX, Bolla).

Fin dall’inizio del destino di Maria, tutto è gratuito da parte di Dio. Fin dal primo istante del suo concepimento ella è ricolma di grazia e di santità, senza alcun merito che preceda; la gratuità di questo dono procede unicamente dai soli meriti di Cristo. È mistero d’amore, di elezione, che non dipende dal suo oggetto - come quello umano - ma lo crea, in seno al mondo invecchiato Dio Padre rinnova la creazione alla sorgente, facendo di Maria la più amabile, la più attraente delle creature: quella in cui Dio potrà senza compromesso col peccato, stabilire la sua dimora. L’Immacolata è il trionfo della grazia di Dio.

Questa “bellezza” di Maria è la sola che fu confermata dal cielo: lei stessa apparve a Bernadette a Lourdes il 25 marzo 1858, quattro anni dopo la promulgazione del dogma, dicendo: «Io sono l’Immacolata Concezione».

 

4. Assunzione di Maria al cielo

 

È il dogma più recente, definito da Papa Pio XII il 1° novembre dell’Anno Santo 1950. La definizione di fede si riduce a questa espressione: Al termine della sua vita terrena, l’Immacolata Madre di Dio, Maria sempre Vergine è stata presa in cielo corpo e anima nella gloria celeste (Cost. Munificentissimus Deus).

Il Papa proclama formalmente la presenza attuale di Maria con Cristo risorto nella comunione della gloria; il corpo e l’anima dell’Immacolata preservati da ogni peccato; il corpo della Theotòkos che ha generato il Verbo di Dio, questo corpo di cui lo Spirito Santo ha integralmente preservato la verginità, non è stato prigioniero dei legami della morte.

Maria è con suo Figlio per sempre, la riunione con lui è definitiva, senza ombra; la Vergine non conosce più Gesù attraverso i segni limitati terreni, ma nel faccia-a-faccia eterno. Maria  ha sempre avuto un’anima di Madre nei riguardi di tutti gli uomini, la sua maternità si è sviluppata a partire dai misteri della vita di Cristo, dall’incarnazione fino al calvario dove fu affidata da lui stesso al discepolo Giovanni, prototipo di ogni figlio. Mentre prima, immersa nell’ombra della fede per cui il Concilio la definisce pellegrina nel cammino della fede come ciascuno di noi, non conosceva il potere e l’effetto della sua intercessione, ora conosce tutti i suoi figli in Dio. Prima ci amava nel figlio Gesù di un amore universale ma indistinto; nella visione beatifica ci conosce in modo individuale e personale, di una conoscenza materna più intima di quella degli altri santi.

Abbiamo parlato di Maria Madre del Signore e, in modo alquanto schematico, abbiamo detto qualcosa di lei così come la Chiesa la onora, la venera, la ama. In questi tempi, così tragici ed oscuri ma anche belli e carichi di grazia, Papa Benedetto ce la indica - nella sua ultima enciclica -  con queste parole: Maria,… rimani in mezzo ai discepoli come la loro Madre, Madre della Speranza. Santa Maria, Madre di Dio, Madre nostra, insegnaci a credere, sperare ed amare con te. Indicaci la via verso il regno di tuo Figlio! Stella del mare, brilla su di noi e guidaci nel nostro cammino! (Benedetto XVI, Spe Salvi).

 

Gennaio / Febbraio 2008 - Anno XVI - n° 1


Patì sotto Ponzio Pilato, il terzo giorno risuscitò da morte

- sesta parte -

 

«Patì sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto; il terzo giorno resuscitò da morte».

Il Simbolo apostolico, essendo un concentrato di verità, non si sofferma a parlare  dei singoli misteri della vita di Cristo, ma propone alla fede dei cristiani le verità principali di Gesù: l’Incarnazione (di cui abbiamo già parlato nei numeri precedenti) e la passione-morte-resurrezione.

Vediamo ora di contemplare-meditare quest’ultima.

 

La Croce: condanna e salvezza

 

La croce è il simbolo cristiano per eccellenza. Con essa ci segniamo la fronte nel battesimo, la tracciamo su di noi invocando la Trinità, ne abusiamo anche in tantissime occasioni: se portata addosso, per alcuni è segno d’appartenenza a Cristo, per altri è ciondolo che penzola irriverente dalle più svariate parti del corpo.

La croce è la sintesi di tutto il messaggio cristiano: qui si ferma la discesa di Dio sulla terra iniziata con l’Incarnazione nel grembo di Maria; è la prova di un condannato a morte, patibolo infame di un colpevole, segno di contraddizione e scandalo di fronte al quale non si può rimanere indifferenti, a meno che l’abitudine non abbia creato il callo nella nostra coscienza.

Ma perché Dio ha scelto proprio questa strada per la redenzione del mondo e perché ha consegnato il suo Figlio Gesù, il più innocente degli uomini, proprio ad una morte così infamante e dolorosa come questa?

Il Catechismo dice che la morte in croce di Gesù non è stata “frutto del caso in un concorso sfavorevole di circostanze. Essa appartiene al mistero di Dio” (CCC 599) il quale ha voluto che Cristo-Verbo incarnato, assumesse in sé ogni uomo separato da Dio a causa del peccato, e si rendesse totalmente solidale con noi peccatori perché fossimo riconciliati in Lui con il Padre. In altre parole: l’uomo aveva peccato (colpa originale) e a causa di questo aveva ereditato la morte fisica e la privazione dell’amicizia di Dio (grazia santificante). L’Uomo Gesù ha assunto su di sé il male dell’uomo, è passato attraverso la sofferenza e la morte (comune eredità dei mortali) per salvare e redimere le creature nella resurrezione. Così la morte non è più l’ultima parola sulla nostra  vita terrena e, anche se il corpo ritorna alla terra risorgerà comunque alla fine dei tempi  con Cristo, ricongiungendosi all’anima.

Il segno-sacramento che esprime questo mistero di salvezza è il Battesimo; siam sepolti con Cristo nella sua morte (gesto dell’immersione nell’acqua) e risorgiamo con lui (emersione).

Possiamo inoltre considerare la morte di Cristo sotto due aspetti: il profeta che muore come testimone della verità e, più profondamente, il Figlio di Dio che perdona. Cristo è il profeta che paga con la vita l’annuncio della verità, è il Messia che ricusa il potere e la gloria e sceglie la via della sconfitta, della povertà. Gesù è anche il Figlio obbediente al Padre, totalmente “libero” di fare la Sua volontà, anche se questa presuppone la sofferenza e la morte, perché sa che nel cuore del Padre riposa la sapienza infinita e l’amore.

Anche se nel suo cammino verso la croce Gesù non conosceva del tutto i nascosti pensieri di Dio - anche questo faceva parte del suo abbassamento umano - tuttavia nell’oscurità ha accettato la volontà del Padre.

Pure attraverso il perdono Gesù manifesta la sua signoria sulla morte; infatti, come Egli dispone della vita in obbedienza al Padre così dispone del proprio perdono come del perdono stesso di Dio. Perdonando nell’atto di morire, Cristo comunica definitivamente la misericordia di Dio ai suoi carnefici e - in loro - a tutta l’umanità che ne condivide l’atteggiamento (CCC 616).

La croce fu da subito ostacolo nella predicazione degli apostoli. Già Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1, 22-23) affermava che la croce è scandalo per i giudei e insensatezza per i pagani; quindi il simbolo cristiano non trovò facile accoglienza nella mente e nella comprensione dei primi credenti e sempre la croce creerà disagio e scandalo. Tuttavia la Chiesa delle origini si ricordava delle parole di Gesù nell’ultima cena; alla luce della resurrezione e con il dono dello Spirito riuscì a rileggere e interpretare tutto quello che Cristo aveva detto e fatto, e se la scandalosa morte in croce era stata causata dall’ostilità degli uomini, dietro tutto ciò c’era la volontà salvifica di Dio Padre, l’amore come salvezza. Non a caso Paolo, sempre nella prima lettera ai Corinzi, dice che “Dio ha scelto” ciò che nel mondo è debole, piccolo, disprezzato e incompreso (quindi la croce e la sofferenza) per confondere la sapienza di questo mondo: questa è la pedagogia di Dio.

Cristo Gesù ha dunque vinto la morte passando attraverso la morte stessa, prendendo su di sé il peccato del mondo, soffrendo per noi e in vece nostra, secondo il legame solidale esistente con tutti gli uomini; la sua morte diventa ora, per tutti coloro che si trovano sotto il destino ineluttabile della morte fisica, sorgente di nuova vita. La croce di Gesù ha un significato esistenziale immediato per la vita cristiana, perché seguire Gesù è possibile solo prendendo su di sé la croce; il cristiano non è esente, tanto più se ci è passato il Maestro prima di noi. È vivere il mistero pasquale (vedi qui a fianco) perché Gesù l’ha vissuto prima di noi e nessuno è dispensato dal percorrere la via battuta dal Signore.

Qualcuno si potrebbe chiedere: che significato ha questo per la nostra vita di tutti i giorni?

La sequela della croce può assumere aspetti diversi: persecuzione, calunnia, povertà, prove, lutto, malattia, dolore, morte; tante volte il mistero della sofferenza entra nella nostra esistenza e ci chiediamo: perché? Tante e diverse sono le “croci”, ma la risposta che Gesù ci offre non è quella che spiega tutto razionalmente con soluzioni sommarie e rassegnate; è invece quella di Colui che ne conferisce il “senso”, di Chi si fa lui stesso vicino, prossimo, presenza amorosa e compassionevole. La croce, pur rimanendo sempre scandalo e contraddizione, è pure segno di speranza e firma dell’amore di Dio per ciascuno di noi. Se la croce è speranza, allora ad essa fa seguito la resurrezione che completa tutto il significato della vita di Cristo e rivela che quel Gesù di Nazareth è Dio, che ha vissuto l’esistenza come dono totale di sé, che è lui il Signore della vita, che la morte non è più condanna ineluttabile ma squarcio e apertura verso il cielo.

 

Il terzo giorno resuscitò da morte

 

L’annunzio sconvolgente della resurrezione (At 13, 32-33) è la verità culminante della nostra fede in Cristo, creduta e vissuta dalla prima comunità cristiana, trasmessa come evento fondamentale dalla Tradizione (Traditio) e giudicata immutabile nei secoli cristiani. Mai la Chiesa potrà cambiare o annacquare la Verità della resurrezione di Cristo, perché - come dice san Paolo - tutto risulterebbe vano e insulso, a cominciare dalla fede in Dio per finire con la nostra stessa vita. A che pro crederemmo in “questo” Dio rivelato se alla fine il Figlio Gesù, incarnato morto e sepolto, non avesse trionfato sulla morte? Che senso avrebbe il messaggio di Dio e Dio stesso?

La resurrezione di Cristo invece è un fatto reale, constatabile con avvenimenti storici certi (CCC 639); il sepolcro fu trovato vuoto e anche se questo solo non sarebbe sufficiente per una prova  diretta, tuttavia ha costituito da sempre una dimostrazione essenziale. Trovare il sepolcro privo del defunto è stato, infatti, il primo passo verso il riconoscimento veridico del passaggio di Gesù dalla morte alla vita e la testimonianza delle donne, dei discepoli, degli apostoli che l’hanno incontrato vivo e glorioso è la certezza della nostra fede. Qui si autentica la parola di s. Giovanni nella sua prima lettera: Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita,  - poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi - quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi (1, 1-3). E chi parla in questa lettera è proprio uno che ha visto e toccato il Verbo fatto carne risorto dalla morte. La resurrezione di Cristo è un fatto che si è verificato in uno spazio e tempo storici e compiutasi nella persona storica di Gesù di Nazareth, la cui storia personale è un evento completo al quale si accede unicamente nella fede, perché soltanto a Dio è possibile.

L’inno pasquale che si canta nella “veglia delle veglie” il Sabato santo - l’Exultet - dice: O notte, tu solo hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi. Nessuno, infatti, è stato testimone oculare dell’avvenimento più strabiliante della storia e nessun evangelista lo ha descritto; solo il silenzio è stato spettatore di quell’esplosione di energia, di luce, di potenza divina che ha condotto il Signore fuori del sepolcro e gli ha donato una vita immortale. Ma la vita che Cristo ha ripreso non è quella terrena di prima, come poteva essere quella di Lazzaro che lui stesso aveva risuscitato; infatti Lazzaro è morto di nuovo ad un certo punto della sua vita. Cristo, invece, non muore più, la morte non ha più potere su di lui (Rm 6, 8-9); la vita di Cristo risorto è un’altra vita al di là dello spazio e del tempo, il suo corpo è reale ma glorificato, passa attraverso le porte chiuse e mangia il pesce arrostito (Lc 24, 41).

La resurrezione costituisce la conferma di tutto ciò che Gesù ha fatto e insegnato, è il compimento delle promesse dell’antico testamento, conferma la verità della sua divinità ed è il coronamento del mistero dell’Incarnazione (CCC 651-652).

Resuscitando Gesù, Dio onnipotente manifesta definitivamente se stesso come Signore della vita e della morte, come colui che ha in mano ogni cosa e a cui tutto appartiene; egli solo è il vivente che dona la vita, lui solo amore creatore al quale ci si può affidare totalmente anche nel fallimento di ogni umana possibilità.

Credere nella resurrezione di Gesù non è un qualcosa di aggiunto alla fede o un di più d’abbellimento, quasi se ne possa fare a meno: è l’essenza della fede in Dio.

Aderire alla fede pasquale si tratta, in ultima analisi, di avere il coraggio di affidarsi interamente a Dio nel proprio vivere e morire, di vivere credendo che alla fine la vita avrà sempre l’ultima parola sulla morte e credere anche nella nostra personale resurrezione, alla fine del tempo.

 

Marzo / Aprile 2008 - Anno XVI - n° 2


Credo nello Spirito Santo

- settima parte -

 

...che è Signore e dà la vita

 

Per fede crediamo che lo Spirito Santo è la terza persona della Ss.ma Trinità e che con il Padre e il Figlio costituiscono un unico Dio. Non è certo un mistero facile da capire né da afferrare, ma la fede ci aiuta nella comprensione, come afferma anche sant’Agostino: Credo per capire e capisco per credere, cioè la fede mi permette di accogliere il mistero di Dio e penetrarlo secondo le mie capacità umane, e la comprensione mi aiuta ad accrescere la fede.

Credere nello Spirito Santo significa credere innanzi tutto in Dio-Spirito, consustanziale (cioè della stessa sostanza) al Padre e il Figlio e che “con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato”. Egli è all’opera con le altre Persone divine da sempre, anche se è solo negli “ultimi tempi”, inaugurati con l’Incarnazione del Verbo di Dio, che Egli viene rivelato, conosciuto, donato. È Gesù che ci rivela, oltre il Padre, lo Spirito e lo dona alla Chiesa, dopo la sua resurrezione, nella Pentecoste.

 

L’attività dello Spirito

 

Lo Spirito Santo è il dono d’amore che il Padre e il Figlio si scambiano dall’eternità; è Amore-Persona, è carità che noi non possiamo conoscere direttamente ma solo nel momento in cui ci rivela Gesù Cristo e suscita in noi la fede che lo accoglie. Quindi noi conosciamo lo Spirito dagli “effetti” che sentiamo in noi, dalla sollecitazione a compiere il bene, dall’efficacia della sua grazia che opera  attraverso i sacramenti.

Parlare dello Spirito Santo, secondo chi scrive, e condensare tutto in poche righe è davvero arduo; tuttavia possiamo riassumere in tre brevi punti l’attività dello Spirito:

  •  Lo Spirito spalanca davanti ai nostri occhi stupiti la realtà magnifica della creazione. Lo Spirito di Dio che “aleggiava sulle acque” ai primordi della creazione (Gen 1, 2) da’ la vita ad ogni cosa, dalla più grande alla più piccola e apparentemente insignificante; ma non solo: lo Spirito creatore sostiene ogni istante l’universo creato, dona nuova energia, conduce ogni divenire e si mostra soprattutto là dove la vita esplode, genera, fiorisce. Lo Spirito Santo è qui, per questo non è concesso all’uomo modificare o stravolgere le leggi della natura, perché sono create direttamente dallo Spirito di Dio;

  •  Lo Spirito di Dio abita nei nostri cuori e di questa presenza ne parla la Scrittura, in particolare san Paolo e san Giovanni. Se lo Spirito abita in noi significa che anche il Padre e il Figlio, che non sono separabili da Lui, sono dentro di noi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23). La grazia di questo abitare in noi, di questo dono, ci è infusa mediante il sacramento del Battesimo ed è portata a pieno compimento con la Cresima, nella quale riceviamo lo Spirito come sigillo, il quale indica l’effetto indelebile dell’Unzione dello Spirito Santo nel sacramento (carattere). “Il sigillo segna l’appartenenza totale a Cristo, l’essere a suo servizio per sempre” (CCC 1296). Anche la nostra capacità di amare, che è dono insito nella natura umana, viene potenziata e portata al grado di virtù dallo Spirito che “riversa l’amore di Dio nei nostri cuori” (Cfr. Rm 5, 5); l’amore umano di natura presente in noi, viene elevato a virtù soprannaturale dallo Spirito infuso nei nostri cuori. Grazie a questo dono noi siamo resi capaci di amare Dio, di amare come ama Gesù, di amare solo per amare: è la carità infusa che ama Dio solamente perché lui è Dio e per questo Egli merita tutto il nostro amore. Se la carità è riversata nei nostri cuori dallo Spirito e grazie a questo dono siamo resi capaci di amare Dio, sant’Agostino arriva a concludere: Cerca come possa l'uomo amare Dio: assolutamente non lo troverai se non nel fatto che egli ci ha amati per primo. Ci ha dato se stesso come oggetto da amare, ci ha dato le risorse per amarlo. Cosa ci abbia dato al fine di poterlo amare ascoltatelo in una maniera più esplicita dall'apostolo Paolo, che dice: La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori. Ma come? Forse per opera nostra? No. Ma allora come? Attraverso l'azione dello Spirito Santo che ci è stato dato. Poiché dunque tanto grande è la fiducia che abbiamo, amiamo Dio attraverso Dio. Senz'altro! Siccome lo Spirito Santo è Dio, noi amiamo Dio attraverso Dio. Cosa potrei dire di più che amiamo Dio attraverso Dio? Effettivamente, se ho potuto affermare che l'amore di Dio è diffuso nei nostri cuori attraverso l'azione dello Spirito Santo che ci è stato donato, ne segue che, essendo lo Spirito Santo Dio, noi non possiamo amare Dio se non per mezzo dello Spirito Santo, cioè non possiamo amare Dio se non attraverso Dio (Disc. 34, 3-4);

  • tutte le azioni dello Spirito Santo sono soltanto un’anticipazione iniziale, la caparra della pienezza che sarà rivelata nella gloria futura: “E' Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l'unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito Santo nei nostri cuori” (2 Cor 21-22). Lo Spirito donato è soltanto principio e anticipo del compimento definitivo e in tal modo lo Spirito è la forza dell’esistenza vissuta nella speranza. Lo Spirito che abita in noi “geme” per il mondo non ancora compiuto, per una creazione che soffre nelle doglie del parto ed è avversata dal male nelle sue più svariate forme: ingiustizia, persecuzione fino al martirio, sfruttamento, oppressione dei fratelli, mancanza di rispetto verso la sacralità della vita. Lo Spirito ci dà la forza e ci sostiene, ci comunica coraggio e grandezza d’animo affinché ci possiamo impegnare per Cristo e per il suo regno.

Il nome e i simboli dello Spirito Santo

 

“Spirito Santo è il nome proprio di colui che noi adoriamo e glorifichiamo con il Padre e il Figlio. La Chiesa lo ha ricevuto dal Signore e lo professa nel Battesimo dei suoi nuovi figli” (CCC 691). Il termine Spirito traduce l’ebraico ruah e il greco pneuma che significano soffio aria vento. In Gv 3, 1 ss, Gesù utilizza proprio quest’immagine per indicare lo Spirito: egli è imprendibile, impalpabile proprio come il vento, non sai né da dove venga né dove vada, ma se ne sentono gli effetti e se ne percepisce la presenza divina. Se i termini Spirito e Santo sono attributi divini peculiari a tutte e tre le Persone, sia la Scrittura che la Liturgia e il linguaggio teologico congiungendo i due termini indicano esclusivamente e senza equivoci la terza persona della Ss.ma Trinità.

La sacra Scrittura chiama lo Spirito con diversi appellativi: Gesù, quando ne promette la venuta, lo chiama Paracleto (Colui che è chiamato in aiuto, ad-vocatus), termine comunemente tradotto con Consolatore e Intercessore, essendo Gesù il primo consolatore e intercessore, che lo chiama anche Spirito di verità.

 

I simboli

 

Della simbologia e dei nomi dello Spirito Santo è ricca la Scrittura, proprio perché Egli, non avendo un volto vero e proprio (mi si passi l’espressione) come Cristo Gesù o come il Padre al quale, (dato l’appellativo) attribuiamo comunque una fisionomia, è suscettibile di simboli, nomi, appellativi, anche a seconda della sua missione all’interno della Trinità. Così lo potremo chiamare Amore, Consolatore, Dono del Padre, Spirito di adozione, Spirito di Cristo e via dicendo, designando con tutti questi nomi il solo ed unico Spirito Santo. Dalla  simbologia biblica, in particolare, si può ricavare che lo Spirito è:

Acqua: durante il Battesimo, dopo l’invocazione dello Spirito Santo, il simbolismo dell’acqua diventa il segno sacramentale efficace della rinascita, significa realmente che la nostra nascita alla vita divina ci è donata dallo Spirito;

Olio: l’unzione è un simbolo talmente espressivo dello Spirito Santo da esserne diventata il sinonimo, per cui quando si dice unzione nel linguaggio biblico-liturgico ci si riferisce all’effusione dello Spirito. Per cogliere l’efficacia di questo emblema bisogna rifarsi al significato dell’olio nel mondo medio-orientale e quindi in quello biblico; già in Gen 28, 18 Giacobbe erige la pietra su cui aveva poggiato il capo e unge con olio la sua sommità, a significare che egli sottrae la stele ad una destinazione profana e la consacra a Dio. Inoltre, dopo avergli versato un’ampolla di olio sul capo, Samuele dice a Saul: “Il Signore ti ha unto capo di Israele suo popolo” (1 Sam 10, 1); nel bellissimo salmo 22, 5 il salmista così descrive l’ospitalità offerta da Dio: “Cospargi di olio il mio capo”, volendo significare che l’unzione con olio comporta benedizione, consacrazione, riconoscimento da parte di Dio e separazione dal consorzio degli uomini. Essere Messia, cioè l’unto di Dio, in greco Christòs, comporta la massima distinzione che proviene da Dio e a Dio rimanda. Infatti la vera unzione operata dallo Spirito è stata proprio quella di Gesù. Gesù è l’Unto di Dio per eccellenza ma, a differenza dei re e dei profeti che nell’Antico Testamento venivano unti e consacrati con olio comune, il figlio di Dio è stato unto (quindi solennemente investito, inondato) di Spirito Santo, la sua umanità è consacrata dallo Spirito e la sua missione è compiuta nello Spirito;

Fuoco: simboleggia l’energia trasformante degli atti dello Spirito Santo: il fuoco-Spirito trasforma tutto ciò che tocca e lo rende come se stesso. Se pensiamo che nell’AT il fuoco è una delle immagini preferite dell’essere e agire di Dio (si pensi al roveto ardente, alla colonna di fuoco che guidava gli ebrei nel deserto, al monte Sinai coperto di fuoco nella teofania, al trono di gloria circondato di fuoco nella visione di Daniele, e così via) capiamo molto bene come il giorno di Pentecoste lo Spirito sia sceso sugli apostoli in forma di fiammelle ardenti. “Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso!” (Lc 12, 49); così si esprime Gesù in un momento di intimità con i discepoli. Proprio questo fuoco che lui ha portato si è avverato nella discesa dello Spirito Paraclito, trasformando gli apostoli e battezzando la Chiesa intera;

Nube e luce: sono due realtà inseparabili nella manifestazione dello Spirito. Nelle teofanie dell’AT la nube - ora oscura ora luminosa - rivela il Dio vivente velando la sua Gloria: con Mosè sul monte Sinai, presso la Tenda del convegno e al momento della dedicazione del tempio fatta da Salomone. Tutte queste figure sono state portate a compimento da Gesù nello Spirito. Questi scende su Maria e la avvolge “con la sua ombra” (cfr. Lc 1, 35) rendendola Madre del Figlio di Dio; anche nell’evento della Trasfigurazione sul  Tabor la nube - lo Spirito - avvolge Gesù e dalla nube stessa si sente proclamare: “Questi è il mio Figlio, l’eletto: ascoltatelo!” (Lc 9, 35);

La mano è ugualmente simbolo dello Spirito: Gesù imponendo le mani guariva i malati e benediceva i bambini. È inoltre mediante l’imposizione delle mani che viene conferito lo Spirito dagli Apostoli (At 8, 17) e la Chiesa ha conservato questo segno efficace dell’effusione in tutte le epiclesi (invocazione dello Spirito) sacramentali. Lo Spirito è anche il dito di Dio che scaccia i demoni (Lc 11, 20); la liturgia di Pentecoste, nell’inno Veni Creator Spiritus, invoca la terza persona della Trinità come digitus paternae dexterae, dito della destra del Padre;

La colomba è il simbolo più comune e più noto a noi occidentali, perché è entrata a far parte dell’iconografia dello Spirito Santo. Come quando Cristo uscì dalle acque del Giordano dopo il suo Battesimo e si aprirono i cieli e lo Spirito, sotto forma di colomba, scese su di lui e in lui rimase, così scende su ciascun cristiano nel Battesimo e prende dimora nel suo cuore. La colomba è anche sinonimo della pace donata dallo Spirito, a ricordo del diluvio universale e di Noè, che fece uscire dall’arca tre colombe e solo l’ultima gli recò nel becco un ramoscello fresco di ulivo, segno della cessazione del diluvio e della pace realizzata da Dio con l’umanità.

Ci sarebbe tanto e tanto da contemplare e tanto da parlare a proposito dello Spirito Santo, ma lo spunto per la conclusione di questo articolo (che completeremo nel prossimo numero parlando dei doni e dei frutti dello Spirito Santo) me lo dà Papa Benedetto che, in occasione della gmg di Sydney, nell’omelia della veglia ha parlato proprio dello Spirito Santo, anche perché il tema della giornata è stato: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni fino agli estremi confini della terra” (At 1, 8).

Spiegando il tema della giornata ai giovani convenuti, il Papa si chiede: come avviene questa testimonianza di cui parla Gesù?

«Noi siamo destinatari dell’immenso dono del Padre che ci fa figli nel Figlio attraverso il battesimo, e questa trasformazione la realizza lo Spirito di Dio. La nostra testimonianza è offerta ad un mondo fragile, frammentato, spezzato, dove il relativismo non riesce a “guardare” la realtà nell’ordine e nell’unità, poiché si sofferma sul particolare, sulla verità relativa - la “mia” appunto - sull’importanza del conveniente e utile qui e adesso. E questo tipo di pensiero-prassi non crea certo unità, valore di cui  il mondo ha proprio bisogno e che cerca; l’unità è un dono che viene dallo Spirito ed è capace di fare di noi una cosa sola, anche con tutte le nostre più svariate diversità. Non lo fa già all’interno della Chiesa? La Chiesa-istituzione è debole, è vero, è fragile perché fatta da uomini peccatori, ma Cristo le ha promesso l’assistenza perenne del suo Spirito che fa di lei la depositaria delle verità della fede. Non si può separare lo Spirito dalla Chiesa, pena il renderla una istituzione qualsiasi alla stregua di una S.p.A.! Non si deve cedere alla tentazione di “andare avanti da soli”, anche se magari più bravi o perfetti. Lo Spirito è il grande dono che Cristo ha fatto alla Chiesa e, se è fonte di unità, la nostra testimonianza più alta e provocatoria per il mondo così spezzettato è proprio l’unità… Lo Spirito Creatore - incalza il Papa - è la potenza di Dio che dà la vita a tutta la creazione ed è fonte di vita nuova e abbondante in Cristo. Lo Spirito mantiene la Chiesa unita al suo Signore e fedele alla tradizione apostolica… In tutti questi modi lo Spirito è datore di unità che ci conduce al cuore stesso di Dio».

Procedendo nel suo discorso ai giovani, Benedetto si riallaccia al grande sant’Agostino e al suo insegnamento sulla Persona dello Spirito Santo: «Egli è Unità, è Amore permanente, è Dono di Dio, sorgente che sazia davvero la nostra sete più profonda e ci conduce al Padre. Lo Spirito è amore unificante, durevole, oblativo; Dio ci dona nientemeno che se stesso; non cerchiamo noi infatti - attraverso tutte le nostre insoddisfazioni - un dono eterno? Nella Cresima abbiamo ricevuto la pienezza dello Spirito Santo e siamo introdotti nella vita divina; ciò che ci definisce come cristiani non è ciò che facciamo, ciò che consumiamo o produciamo, ma ciò che riceviamo».

Il Papa prosegue il suo magnifico discorso alzando di molto il tiro, spronando i giovani a vivere all’altezza del dono ricevuto e di non accontentarsi solo dell’effimero, e conclude spingendo i giovani a “liberare i doni dello Spirito” per trasformare famiglie, nazioni, comunità, sempre con la libertà di accettare e aderire al dono di Dio: «Amici, accettate di essere introdotti nella vita trinitaria di Dio? Accettate di essere introdotti nella sua comunione d’amore?».

 

Ho voluto riportare le parole del Papa sullo Spirito Santo perché molto eloquenti; il discorso che egli ha rivolto ai giovani di tutto il mondo è stato di una grande levatura contenutistica e spirituale, degno di giovani portatori di domande profonde e desiderosi di risposte adeguate. La Chiesa ha la Risposta per coloro che cercano il senso e la verità della vita: Cristo Gesù, Dio fatto uomo e nostro redentore e lo Spirito. E mentre il mondo vede nei giovani solo merce di consumo e di sfruttamento, la Chiesa crede in essi chiamandoli a rischiare la vita e a coinvolgerla in un amore che è per sempre.

 

Agosto / Settembre 2008 - Anno XVI - n° 3


La vita nello Spirito: le Virtù

- ottava parte -

 

Che cosa e quali sono i doni dello Spirito Santo? E le virtù?

Parleremo prima delle seconde, perché, seguendo la tradizione della teologia spirituale, i doni sono dati da Dio in aiuto alle virtù.

Quando un uomo viene battezzato e diventa per ciò stesso figlio di Dio riceve nel sacramento un “corredo” spirituale che forma il così detto organismo soprannaturale. Questo  lo abilita a vivere e a comportarsi di fatto come uomo nuovo trasformato dalla grazia, come un illuminato, dicevano i primi cristiani.

Questo bagaglio è formato dalle virtù teologali, morali (cardinali) e dai doni dello Spirito Santo;  purtroppo i cristiani ignorano di possederlo, ben pochi sanno, infatti, di portare dentro un mondo così prezioso e divino che ci fa somigliare a Dio, molto più perfetto di quello esterno a noi.

Le virtù teologali ci mettono in contatto intimo e diretto con Dio, le virtù morali ordinano e dispongono la nostra vita morale, i doni dello Spirito ci comunicano le mozioni divine. Non in tutti i doni e le virtù si sviluppano e agiscono allo stesso modo; a seconda della ricezione, della consapevolezza, dell’arrendevolezza ai moti di Dio, all’accoglienza della grazia il mondo divino produce i suoi frutti in noi come dice nel Vangelo la parabola del seme: portano frutto nella misura chi del trenta, chi del sessanta, chi del cento per uno (Mc 4, 1-20).

Le virtù come i doni sono, dunque, semi preziosi che necessitano di essere coltivati, innaffiati, custoditi per consentir loro di portare frutto. Ma vediamo nelle linee essenziali che cosa sono.

 

Le Virtù, queste sconosciute

 

Il battesimo ci regala il “bagaglio” delle virtù teologali e cardinali. Le prime - fede, speranza e carità -  sono così chiamate perché si riferiscono direttamente a Dio; è lui l’oggetto della nostra fede, della speranza della carità.

La fede è la virtù teologale per la quale crediamo in Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato e che la santa Chiesa ci propone a credere, perché egli è la stessa verità. (CCC 1814). La fede è un dono che non ci possiamo in alcun modo meritare, quasi avessimo in antecedenza meriti per poter dire: “poiché io ho fatto questo, Dio mi ha dato la fede come ricompensa”, assolutamente no. È dono libero e gratuito di Dio per il quale deve essere sempre ringraziato e deve essere implorato nella preghiera affinché ce lo conservi sino alla fine dei nostri giorni (perseveranza finale). La fede nel Dio cristiano non è intimismo, non deve essere vissuta  “in sacrestia” né tantomeno occultata; deve essere invece annunciata, testimoniata e manifestata con i mezzi che si hanno a disposizione, piccoli o grandi, umili o solenni che siano, nell’ambiente di lavoro e negli ambiti di vita in cui ciascuno è chiamato a vivere.

La speranza è la virtù per la quale desideriamo il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia e dello Spirito Santo (CCC 1817). Sperare non è affatto avere la testa fra le nuvole e sognare che tutto ci piova dall’alto senza un minimo di impegno terreno; è, al contrario, “una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino”. (Benedetto XVI - Enc. Spe salvi, 1). La virtù della speranza  salvaguarda dallo scoraggiamento, sostiene nei momenti di abbandono, dilata il cuore nell’attesa della beatitudine eterna.

La carità, che delle tre è la più grande, è la virtù per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio. (CCC 1822). La carità è il fine di tutta la nostra vita, il motivo per cui ci muoviamo, esistiamo, operiamo il bene; senza la carità - dice s. Paolo - niente ha valore, tutto è vano e fine a se stesso. Anche se compissimo i miracoli e le opere più strepitose, senza la carità - l’amore per Dio e per il prossimo - non avrebbero alcun valore. La carità è virtù superiore a tutte le altre e tutte sono a lei ordinate, è sorgente e termine di ogni pratica cristiana, anima di ogni nostro agire. Il dono della carità teologale sublima ed eleva alla sfera soprannaturale la nostra capacità di amare, di cui siamo dotati naturalmente. Dio ci ha amati per primo, dice s. Giovanni, ed è in virtù di questo fatto noi possiamo amare sia Lui che i fratelli, perché anche la capacità di amare viene da Dio. Infatti, dove c’è l’amore lì c’è Dio, dice la tradizione cristiana perché Dio è amore.

 

Dice il Catechismo: la virtù è una disposizione abituale e ferma a fare il bene. Essa consente alla persona, non soltanto di compiere atti buoni, ma di dare il meglio di sé. Con tutte le proprie energie sensibili e spirituali la persona virtuosa tende verso il bene; lo ricerca e lo sceglie in azioni concrete (CCC 1803). L’uomo virtuoso è colui che liberamente e gioiosamente opera il bene, è attratto dal bene, tende sempre al bene come valore supremo. Le virtù morali o “cardinali”, così dette perché hanno funzione di cardine, sono quattro e tutte le altre si raggruppano intorno ad esse.  Hanno lo scopo di rendere soprannaturale la nostra vita morale e rendere preziosi e ricchi di merito i mille particolari della nostra vita quotidiana. Sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. Vediamole singolarmente.

 

La prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo (CCC 1805). Non dobbiamo confonderla con la furbizia o la scaltrezza, oppure con una sorta di timore nell’agire che spinge più a tirarsi indietro che a procedere in avanti. È invece proprio la prudenza che sa discernere in ogni situazione qual è il vero bene che poi  la grazia dà la forza di compiere; la prudenza è chiamata auriga virtutum, il cocchiere delle virtù, perché dirige le altre secondo il giudizio di coscienza, per il quale l’uomo prudente decide e ordina la propria condotta seguendo questo giudizio.

 

La giustizia è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che a loro è dovuto. La giustizia verso Dio è chiamata “virtù di religione”, verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno … e a stabilire relazioni umane armoniche ed eque nei confronti di tutti. (CCC 1807). L’uomo giusto è colui che si distingue per la dirittura dei propri pensieri e la rettitudine di coscienza verso il prossimo.

 

La fortezza è la virtù che, nelle difficoltà, assicura la fermezza e la costanza nella ricerca del bene, resiste alle tentazioni e supera gli ostacoli nella vita morale (CCC 1808). La fortezza rende capaci di vincere la paura della morte, i condizionamenti che inducono al peccato, affronta prove e persecuzioni. È la grande virtù del martire che lo sorregge nel momento supremo del sacrificio della vita. La fortezza dà audacia per affrontare i pericoli e energia per conseguire il bene, infondendo il coraggio nella lotta spirituale. Tutto questo può avvenire certamente nelle persecuzioni esterne, in cui si è chiamati a dare testimonianza al Signore con la vita, ma avviene - il più delle volte - anche nel nostro quotidiano, negli ambienti di lavoro, nella società consumistica e relativista che induce a cadere nel male senza far troppo rumore e insinuando la suggestione che poi, in fondo, si può fare questo e quello, che oggi tante verità cristiane non sono più di moda, sono altri tempi etc. La fortezza qui la dovrebbe fare da leone, respingendo - in nome dell’amore a Dio - ogni possibile seduzione che allontana dal bene. In tante circostanze di nostra vita senza la fortezza si può immettere il rispetto umano, la vergogna, la paura che impediscono alla carità di spiegare le sue ali verso Dio.

 

La temperanza è la virtù morale che modera l’attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell’uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell’onesto e del lecito (CCC 1809). La temperanza regola soprattutto la vita interiore della persona che orienta al bene i propri appetiti sensibili, cioè la soddisfazione dei sensi in modo equilibrato.

 

L’esercizio di queste virtù unito ai doni dello Spirito Santo, di cui parleremo la prossima volta, aiutano il cristiano a crescere e nella dimensione umana e in quella spirituale, sospingendo l’uomo verso la perfezione della carità, cioè la santità. Ci scusiamo per la schematicità dell’esposizione, ma una trattazione più prolungata richiederebbe più spazio in questo periodico. Rimane importante, comunque, scoprire e capire quali ricchezze spirituali abitano in noi, creature ad immagine e somiglianza di Dio, destinate alla beatitudine eterna.

  

Ottobre / Novembre 2008 - Anno XVI - n° 4


Credo la Chiesa

- nona parte -

 

Non c’è nessuna affermazione della nostra professione di fede che susciti così tanta incomprensibilità come questa: credo la Chiesa una, santa, cattolica, apostolica.

Tralasciando in questa riflessione le peculiarità appena esposte, (ne diremo in un secondo momento), parliamo qui del mistero e delle sue immagini bibliche principali.

 

«Cristo sì, Chiesa no»

 

È un ritornello cantato anche da molti cattolici che si dicono praticanti, ma che dimostrano di non conoscere la loro madre: la Chiesa. Certamente ci sono molte attenuanti - prima fra tutte la disinformazione - come anche molti scandali causati, purtroppo, da coloro che dovrebbero invece testimoniare quanto bella sia la Chiesa. Sappiamo però come l’uomo sia debole; egli è come un soffio, dice la Scrittura, i suoi giorni come ombra che passa (Sal 39, 6-7). Per questa sua ontologica fragilità non dobbiamo mai scandalizzarci del male, ma guardare sempre al positivo che c’è e - soprattutto - all’opera di Dio che ci salva nonostante noi e la nostra miseria.

“La Chiesa è retrograda, pretende l’assenso all’infallibilità di certi dogmi incomprensibili; non si schiera con i poveri e lei stessa è ricca; nel corso della storia si è dimostrata dura e intollerante con chi non la pensava come lei, fino a giustificare un certo tipo di persecuzione (inquisizione); con la prospettiva di un aldilà eterno ha giustificato la sofferenza e la povertà di tanti suoi figli; è scientificamente arretrata, non sa stare al passo con i tempi e per certe sue posizioni immobilistiche non riesce a dialogare con il mondo…” e via dicendo. Di questo passo l’elenco delle accuse potrebbe continuare, ma fermiamoci qui.

Noi fedeli crediamo che quanto qui sopra può anche essere vero, almeno in parte: la Chiesa è Sposa di Cristo e suo mistico Corpo, ma è pure vero che è fatta da uomini e non da angeli, che essa è sempre bisognosa di purificazione e di conversione. Per esempio, le sacre ceneri che poniamo sul nostro capo il mercoledì in cui inizia la Quaresima, è il gesto penitenziale più eloquente di altri che dichiara: “Signore, siamo peccatori, salvaci. Senza di te siamo solo polvere e cenere, senza la tua grazia e il tuo perdono riusciamo solo a compiere il male. Aiutaci tu”. E questo atto di umiltà lo compie tutta la chiesa, dal Papa fino all’ultimo fedele sperduto sulla faccia della terra. Quindi non dobbiamo mai meravigliarci del limite umano, ma ricordarci che solo il Signore “scrive dritto sulle nostre righe storte”, e per fortuna è sempre lui che dice l’ultima parola di salvezza sulle vicende umane.

Il cristiano maturo che vive della fede sa giudicare in base alla sua fede. Non dice: credo “nella” Chiesa ma “la” Chiesa, volendo sottolineare con l’articolo il mistero che essa è, la presenza in lei dello Spirito effuso dal Risorto a Pentecoste e che tutto opera. La Chiesa è allora una realtà della fede, non certo un optional che può essere disgiunto da Cristo, suo Capo. Noi credenti confessiamo che nella forma esternamente visibile, talvolta anche miserabile, della Chiesa nel suo percorso storico e nel suo volto deforme, opera lo Spirito di Cristo.

«Cristo sì, Chiesa no», dunque. Nella schiera di coloro che affermarono questo assunto ci fu anche sant’Agostino, che durante il suo peregrinare alla ricerca della verità teneva caro il nome di Cristo “bevuto con il latte materno”, ma rifiutava in blocco la Chiesa, perché credeva che insegnasse favole per vecchiette e non le risposte esistenziali che cercava! Sarà invece proprio la Chiesa, scoperta nella testimonianza di Ambrogio, Simpliciano e tanti fedeli della comunità milanese, che amerà come una sposa e non cesserà di difendere con forza, coraggio e dottrina.

 

La chiesa in cui crediamo

 

Qual è allora la Chiesa in cui crediamo?

Chiesa significa convocazione popolare e deriva dalla parola greca ekklesìa, dal verbo ek-kalein, “chiamare fuori”; designa quindi nel Nuovo Testamento l’assemblea dei fedeli cristiani che si riunisce davanti a Dio (CCC 751). Ciò significa che l’iniziativa è presa da Dio; è lui che convoca, che riunisce e chiama i suoi figli. Non sono gli uomini che si collegano per loro decisione, ma rispondono all’appello di un Altro. Cipriano di Cartagine e Agostino d’Ippona diranno che la Chiesa è il “popolo di Dio radunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”, ad indicare l’origine soprannaturale della Chiesa stessa; dalla Trinità essa discende e alla Trinità ritornerà alla fine del tempo.

La Chiesa, però, non è solamente un’entità umana e terrena, né tantomeno astratta o virtuale ma misterica, portatrice di vita divina pur nella dimensione terrena ed umana. La Chiesa vive nella storia ed ha una sua storia, ma al tempo stesso la trascende perché non finisce col il finire degli eventi umani.

Dice il Concilio: La Chiesa ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina; tutto questo in modo che quanto in lei è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura verso la quale siamo incamminati (Sacrosanctum Concilium 2).

 

Le premesse e la storia rivelata della convocazione del popolo di Dio cominciano con la chiamata di Abramo, al quale Dio promise di diventare il capostipite di un popolo. Proseguono con l’elezione d’Israele a popolo di esclusiva appartenenza a Dio; con la sua elezione esso doveva diventare segno della raccolta finale di tutti i popoli. Ma già i profeti accusano Israele di aver rotto il patto diventando infedele: allora annunciano una nuova Alleanza mediante la quale Dio si sceglierà un nuovo popolo. Questo nuovo popolo è formato da tutti gli uomini che in Cristo Gesù sono salvati e redenti dal suo sangue, per cui la croce e la risurrezione di Cristo sono il vero e autentico fondamento della Chiesa; il sangue e l’acqua scaturiti dal costato di Gesù sono simboli dei sacramenti fondanti la Chiesa: il battesimo e l’eucaristia. Infine la fondazione della Chiesa si compie mediante l’effusione dello Spirito Santo a Pentecoste e viene ufficialmente proclamata “nuovo popolo di Dio” formato dai molti popoli della terra. Lo Spirito Santo è il solo ed unico principio vitale della Chiesa.

Ella inoltre, seguendo il lungo percorso storico di Dio con gli uomini, è ancora in cammino verso il suo compimento finale; è Chiesa pellegrina che nelle sue istituzioni, proprio perché vive nel mondo, porta l’aspetto e le contraddizioni di questo mondo, vive tra le creature santificate e sempre bisognose di purificazione; nella celebrazione della liturgia anticipa la glorificazione finale, ma nello stesso tempo essa imita Gesù nella sua forma di servo, rifiutato dai suoi, perseguitato e messo a morte; è la Chiesa dei poveri e dei sofferenti, dei peccatori e dei salvati; è la Chiesa dei martiri e dei santi che sull’esempio di Gesù, offrono la vita per suo amore.

La Chiesa si può capire pienamente solo in una prospettiva di fede, perché la realtà che la riguarda si fonda, in ultima analisi, nella decisione di salvezza da parte di Dio Padre, la quale si realizza con l’incarnazione del Figlio suo Gesù e nell’opera dello Spirito Santo. Essendo visibile e terrena ha bisogno, per realizzare la propria missione nel mondo, di ordinamenti giuridici e di strutture di governo; d’altro canto è realtà spirituale, cioè investita dallo Spirito di Cristo. Per poter esprimere queste due realtà congiunte il Concilio Vaticano II insegna che la Chiesa è in Gesù Cristo il sacramento, cioè il segno e lo strumento della salvezza dell’umanità (LG 1; 9), ossia ciò che è visibile e che appartiene alla Chiesa è segno e strumento per la sua dimensione spirituale, ella è strumento che rende presente e comunica la salvezza, nonché il frutto dell’opera della salvezza stessa.

La Chiesa in cui crediamo non può, allora, essere considerata una S.p.A. qualsiasi o coincidere con il cupolone di san Pietro in Vaticano! E molti purtroppo la pensano così.

La sua misteriosa realtà non può essere ridotta ad un unico concetto, ma è resa solo con l’aiuto di una pluralità di immagini che si integrano a vicenda, prese dalla Scrittura e dai santi Padri: popolo di Dio, piantagione di Dio, gregge, edificio, casa di Dio, famiglia di Dio, Corpo di Cristo, Sposa di Cristo, tempio dello Spirito, comunità dei credenti, comunione dei santi. Attenendoci alle immagini bibliche della Chiesa, ci soffermiamo qui su Popolo di Dio, Corpo di Cristo, Tempio dello Spirito Santo.

 

Popolo di Dio

 

Questo concetto, riscoperto e approfondito con il Concilio, ha contribuito al rinnovamento e alla coscienza della Chiesa stessa, superando la maniera individualistica di vivere la fede e rafforzando l’idea che siamo tutti corresponsabili. Se infatti nei secoli precedenti era idea-guida la considerazione che la Chiesa fosse formata da una struttura piramidale (papa, cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi, laici), ora essa è popolo di Dio in cui ciascun membro, in forza del battesimo, ha una sua propria dignità, missione e vocazione che non è quella di un altro. Siamo membra gli uni degli altri, dice san Paolo (Rm 12, 5), cioè senza di me gli altri non sono tutto, né io senza gli altri; il papa da solo non è la Chiesa, né un prete o un laico, ma tutti insieme siamo il popolo che Cristo si è acquistato con il suo sangue.

Nel modo poi in cui lo è un popolo qualsiasi rispetto ad un singolo individuo, anche la Chiesa esiste anteriormente al singolo, il quale non entra di sua iniziativa nella Chiesa ma viene assunto, cresce e viene portato da essa; nella Chiesa non si nasce ma si viene incorporati tramite la fede e il battesimo.

Come popolo di Dio, però, non è da intendersi nel senso comune della parola, spesso interpretata come un’assemblea politica per discutere, decidere, deliberare o quant’altro; la Chiesa-popolo di Dio si riunisce per ascoltare la Parola del Signore, per ringraziarlo dei suoi doni e di quello che ha fatto, le mirabilia Dei compiute per noi, e per celebrare la sua gloria. È popolo sempre in itinere, non ancora giunto alla meta, che cammina in terra straniera e non ha qui una patria; non può mai cedere alla tentazione di insediarsi o fermarsi, ma deve continuamente ripartire e seguire il suo Signore, che ha sofferto ed è morto per lui. Alla fine, quando Dio sarà tutto in tutti, non ci sarà più bisogno della Chiesa come mezzo di salvezza, perché essa non è la meta ultima, ma lo è il Signore.

 

Corpo di Cristo

 

Già fin dall’antichità si riteneva che, come un corpo umano non può sussistere senza la connessione di tutte le sue membra, così anche uno Stato non può fondarsi senza la collaborazione di tutte le parti che lo compongono. San Paolo riprende questo paragone e lo applica alla Chiesa: è un corpo diversificato e costituito con diverse membra. Se un membro soffre tutte le membra soffrono insieme, se un membro gode o è onorato, tutte le altre membra gioiscono con lui (1Cor 12, 26). Paolo tuttavia corregge quest’immagine collocandola nel giusto posto, cioè non dice: come il corpo così anche la Chiesa, bensì: così anche Cristo. Questo per sottolineare che la Chiesa non nasce dalla cooperazione delle membra, ma che esiste interamente in Gesù, è fondata su di lui; lui è il Capo di questo corpo, affermando in tal modo che non è solo paragonata ad un corpo, ma che essa è Gesù Cristo nel suo corpo. L’uno e l’altra si appartengono inseparabilmente, ma non sono la stessa cosa. Il Capo insieme alle membra formano il Cristo totale, dice sant’Agostino. Pur con tutta l’unità che esiste fra Gesù e la sua Chiesa, egli resta sempre il Capo e il Signore della Chiesa, la quale vive di lui e per lui. Tutte le membra devono impegnarsi per conformarsi a lui finché in esse non sia formato Cristo (Gal. 4, 19). Come il corpo al Capo veniamo associati alle sue sofferenze e soffriamo con lui per essere con lui glorificati (Lumen Gentium 7). La Chiesa è una con Cristo.

 

Tempio dello Spirito Santo

 

Nel mondo antico il tempio eretto in onore della divinità rappresentava il luogo dell’attiva sua presenza sulla terra. Fu una gloria per Israele avere un tempio splendente e magnifico elevato all’Altissimo da Salomone, ma fu anche circostanza emblematica per il popolo ebraico il fatto che per molto tempo non possedette un tempio, perché Dio era presente in mezzo al suo popolo lungo il cammino nel deserto: il popolo stesso era tempio del Dio vivente. Anche nel Nuovo Testamento troviamo la Chiesa o la comunità dei credenti come tempio, come luogo della presenza di Dio e di Gesù Cristo: Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro (Mt 18, 20). Ma la Chiesa intende il tempio non come una costruzione materiale bensì spirituale, fatta di pietre vive - i cristiani - la cui pietra angolare è Cristo. La presenza di Dio e di Gesù avviene nello Spirito Santo, per mezzo dello Spirito noi diventiamo popolo di Dio nel Nuovo Testamento; esso è il principio di ogni azione vitale e salvifica in ciascuna delle membra di Cristo, è simile all’anima nel corpo: ne è il principio vitale. Dello Spirito essa deve vivere e con lui rinnovarsi di continuo; lo Spirito la ringiovanisce, le comunica fecondità e forza spirituale sempre nuova. Egli opera in tantissimi e svariati modi: mediante la Parola di Dio, mediante i sacramenti e la grazia che questi comunicano, mediante le virtù e i doni (lo abbiamo visto nei numeri precedenti) che fanno operare il bene, attraverso doni particolari, i carismi, dati ad alcuni per l’edificazione dell’intero Corpo di Cristo. Non dobbiamo poi dimenticare che lo Spirito opera come e dove lui vuole e sa, con mezzi che solo Dio conosce nel suo mistero.

 

Dicembre 2008 - Anno XVI - n° 5


L'identità della Chiesa

- decima parte -

 

Quali sono i segni distintivi che qualificano la Chiesa? Li recitiamo nel Credo: essa è una, santa, cattolica ed apostolica. Vediamoli singolarmente.

 

Unità della Chiesa

 

L’unità della Chiesa è fondata nel mistero di Gesù Cristo stesso: come unico è Cristo, mediatore tra Dio e gli uomini, unico lo Spirito che tutto impregna di sé e assiste la Chiesa nel suo peregrinare nel tempo, così essa è una nel senso che, secondo il volere del suo Fondatore, esiste un’«unica» e «singolare» Chiesa. Sappiamo bene quale fu il testamento di Gesù: “Che tutti siano uno come tu, Padre, sei in me ed io in te, affinché anch’essi siano in noi, così che il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 21-23).

Anche s. Paolo parla più e più volte nelle sue lettere di unità: “… un solo corpo, un solo Spirito… un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo; un solo Dio Padre di tutti che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti” (Ef 4, 1-6). Questi testi ci dicono che l’unità della Chiesa non è un semplice dato di fatto, tantomeno un’utopia e neppure un prodotto artificiale; essa è in Cristo già realtà come frutto dello Spirito Santo. Le divisioni, che purtroppo esistono, sono scandalo e peccato, non conformi alla volontà di Dio, oscurano l’immagine della Sposa di Cristo e ostacolano la missione di pace e di unità che essa ha nel mondo. Non ci è consentito rassegnarci alla lacerazione della cristianità.

L’immagine più bella e realistica dell’unità della Chiesa è quella che ci viene consegnata dalla testimonianza degli apostoli: La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune… Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno (Atti 4, 32-35). I primi cristiani prendevano parte all’insegnamento degli apostoli (dottrina) e alla comunione dei beni materiali (distribuzione proporzionale), alla frazione del pane (eucaristia) e alla preghiera (liturgia). Unica era la fede quindi, quella in Cristo morto e risorto, una l’Eucaristia e i beni di cui vivevano, come unico era l’insegnamento degli apostoli a cui i fedeli facevano riferimento. Questa quadruplice unità fonda la Chiesa anche oggi e la costituisce, ma ciò non significa che essa viva di una sorta di uniformità, tutt’altro. All’interno dell’unità ecclesiale è possibile una grande varietà di metodi d’annuncio del vangelo, di liturgie, preghiere e riti, di approfondimenti teologici, di inculturazioni del vangelo. Non solo sono possibili ma desiderabili, altrimenti la Chiesa non potrebbe radunare persone di ogni nazione, di razze, popoli, lingue, mentalità e culture diverse; questa è la molteplicità nell’unità che solo lo Spirito è capace di creare. Ciò che cozza contro l’unità è la pluralità disordinata, dove non ci sono più variazioni dell’unico create dalla fantasia dello Spirito, ma solo opposizioni inconciliabili: esse sono l’apostasia, l’eresia e lo scisma.

L’apostasia è il ripudio totale e volontario, dopo averla abbracciata, della fede cristiana; l’eresia è l’ostinata negazione, dopo il Battesimo, della verità rivelata oppure l’esasperazione o la diminuzione di parti di essa. L’eresia offende l’unità dell’unica fede e presuppone sempre la colpa personale, per cui non ogni opinione errata è eresia, ma lo diventa quando c’è l’ostinazione e irrigidimento volontario. Lo scisma invece è la deliberata mancanza di sottomissione al Sommo Pontefice e toglie l’unità della comunione vissuta con tutti i membri della Chiesa.

L’unità è stata donata da Cristo alla sua Chiesa fin dall’inizio della sua esistenza, fin dalla Pentecoste. Noi crediamo che sussista senza possibilità di essere perduta nella Chiesa cattolica e speriamo che essa cresca sempre di più sino alla fine dei secoli (cfr. CCC 820).

 

Santità della Chiesa

 

Nessuno di noi può contestare che nella Chiesa esiste il peccato, il limite e purtroppo lo scandalo. Tuttavia crediamo che la Chiesa sia santa, cioè santificata e purificata dal Sangue prezioso di Cristo sparso per noi sulla croce e dall’effusione dello Spirito Santo. Grazie al dono di Gesù, essa è anche santificante, cioè tutte le sue attività (sacramenti, liturgia, insegnamenti, vita cristiana in genere) convergono verso la santificazione degli uomini e la glorificazione di Dio (cfr. CCC 824). La santità le appartiene come essenza ontologica e profonda perché il Signore, fondamento e pietra angolare della Chiesa, è il  Santo in senso assoluto e i cristiani sono i santificati; già fin dalle origini essi venivano chiamati “santi”. Tuttavia sempre, fin dall’inizio, esistevano controversie, difficoltà e debolezze… ma noi sappiamo e crediamo che essa sia santa. Perché? Perché santità non significa perfezione assoluta o purezza immacolata, bensì essere messi a parte dalla realtà mondana e appartenere a Dio. In questo senso allora vivono i cristiani e la Chiesa nel mondo, pur non essendo del mondo. La Chiesa è santa perché è in cammino verso Dio, perché il Dio tre volte Santo la santifica, perché Cristo è indissolubilmente unito a lei e perché è sempre presente con la forza dello Spirito. Dio vuole la nostra santificazione e a questa siamo chiamati tutti, quale che sia il nostro stato: vescovi, sacerdoti, laici sposati e non, consacrati. La santità non è opera nostra ma frutto dello Spirito e della nostra collaborazione, non consiste in opere straordinarie o miracolismi vari, ma nella fedeltà ordinaria e quotidiana al dono del battesimo, fino all’eroismo se necessario. La santità è per tutti l’unica meta mentre le strade per raggiungerla sono diverse; quando la Chiesa canonizza alcuni suoi figli e li addita al mondo come modelli di santità, riconosce in loro la potenza operante dello Spirito e conferma di essere santa e santificatrice.

 

Cattolicità della Chiesa

 

Il termine «cattolico», usato per la prima volta da S. Ignazio di Antiochia per parlare della Chiesa, significa letteralmente “riguardante la totalità”, ciò che si riferisce all’universale. Quindi con il titolo sopraddetto si intende tutta la Chiesa vasta quanto il mondo, la quale annuncia tutta la vera fede. La Chiesa è allora cattolica per distinguerla dalle comunità che si ritagliano una parte di verità e che vogliono essere chiesa per un determinato popolo soltanto, una determinata cultura, classe o gruppo. Quando affermiamo di credere nella Chiesa cattolica, quindi, noi affermiamo di credere nella chiesa che annuncia tutta intera la fede e tutta intera la salvezza per tutto l’uomo e per tutta l’umanità; tutte le verità e i mezzi della salvezza abitano in essa.

La cattolicità della Chiesa si realizza soprattutto in tre modi:

  • la Chiesa è cattolica perché è inviata a tutto il mondo per annunciare il Vangelo a tutte le creature, a tutte le nazioni, civiltà, razze e classi; partecipa a tutti le sue ricchezze ed è arricchita a sua volta dalla ricchezza di tutti;

  • la Chiesa è cattolica quando abita uno spazio storico ben determinato - Chiesa locale - guidata dal vescovo unito al Papa nella successione apostolica. Ogni Chiesa locale è a tutti gli effetti cattolica;

  • la Chiesa locale ed universale sono cattoliche quando hanno al loro interno tutta la ricchezza di doni, servizi, carismi e stati di vita che realizzano tutta l’esistenza cristiana in diversi e variegati modi, dal matrimonio allo stato laicale, dal sacerdotale al religioso, in comunione fra loro.

Cattolicità non significa dunque monotona uniformità, ma è sinonimo di apertura, universalità; già sant'Agostino, da innamorato della Chiesa, la chiamava semplicemente la «Catholica» per indicare, con questo termine, solo la Chiesa corpo di Cristo, presente in tutto il mondo.

 

Apostolicità della Chiesa

 

La Chiesa è costituita sul fondamento degli apostoli che Gesù Cristo stesso ha costituito (cfr. Mt 16, 18). Essa può essere la vera Chiesa di Gesù unicamente se è apostolica e custodisce attraverso i tempi l’identità e la successione apostolica. Ma ci chiediamo: come possono gli apostoli essere presenti fino ad oggi? Chi è un apostolo?

Sappiamo dai vangeli che Gesù ne scelse dodici che “stessero con lui” (Mc 3, 14), lo amassero e lo seguissero per un particolare servizio. Dopo la Pasqua si chiamavano apostoli coloro che erano testimoni della resurrezione e che erano da lui mandati ad annunciare il vangelo; in senso allargato invece, sono denominati apostoli uomini e donne chiamati ad un servizio missionario particolare. Per esempio, san Bonifacio è detto l’apostolo della Germania, Cirillo e Metodio sono gli apostoli degli Slavi perché sono stati gli evangelizzatori di questi popoli, ma l’uso della parola apostolo in questo caso è impropria. In senso esatto l’apostolo è di un solo tempo, perché è legato alla missione immediata di Cristo Risorto; gli apostoli sono le colonne della Chiesa. Allora come possono essere presenti fino alla fine del mondo?

Per capire dobbiamo rifarci ai testi del Nuovo Testamento: in essi si documenta che fin dall’inizio gli apostoli si sono cercati aiutanti e collaboratori e hanno incaricato altri uomini a compiere e prolungare l’opera dopo la loro morte, affinché la missione da essi iniziata potesse continuare fino alla fine dei tempi. Soprattutto nelle lettere di Paolo, in particolare a Tito e Timoteo, si delinea la successione apostolica, quando egli incarica questi discepoli di “imporre le mani” su altri e istruirli nel servizio; in questo modo si delinea il passaggio dal tempo apostolico a quello post-apostolico. Il Concilio Vaticano II riassume la dottrina della Scrittura e della Tradizione quando insegna che «i vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli apostoli quali pastori della Chiesa» (LG 20-21); in loro c’è la missione affidata da Cristo agli apostoli, anzi è presente Egli stesso nella sua Chiesa.

La Chiesa allora può dirsi apostolica se in essa la fede degli apostoli è viva e feconda, in forza del fatto che vi si continua la loro missione che deve durare fino alla fine del tempo.

 

Marzo / Aprile 2009 - Anno XVII - n° 1


La Chiesa, Comunità di Santi

- undicesima parte -

 

«Credo la comunione dei santi». Con questo atto di fede prosegue il nostro Credo.

Può risultare un’espressione oscura, un po’ difficile da comprendere ed invece non lo è, se pensiamo che i primi cristiani, fin dal tempo degli apostoli, venivano chiamati santi.

Il Catechismo afferma che comunione dei santi ha due significati, strettamente collegati fra loro: la comunione alle cose sante e la comunione tra le persone sante (CCC 948).

La Chiesa è comunione alle cose sante, alle realtà sante; è grazie ad essa, infatti, che sussiste una comune partecipazione ai beni della salvezza: i sacramenti e soprattutto l’Eucaristia. È sulla condivisione della fede nella Parola di Dio, sulla comunione al Corpo e Sangue di Cristo e la partecipazione alle necessità dei fratelli che si costruisce la Chiesa. Essa non è, infatti, la casa di persone isolate come monadi, che vanno avanti ciascuna per conto proprio e vivono dei beni propri, tutt’altro: la Chiesa è una società di santi - appunto - che attingono a beni comuni, li stessi per tutti ed infinitamente sufficienti per tutti: la Parola di Dio, la ricchezza spirituale dei sacramenti e il servizio della carità.

 

La Parola di Dio

 

La parola umana è il mezzo più appropriato per esprimere i sentimenti, i messaggi, i pensieri, l’informazione. Con la parola si può lenire il dolore di chi soffre, si può però anche ferire e addirittura uccidere moralmente chi è già saturo di disperazione; si può incoraggiare al bene, sostenere nell’amicizia, chiarire un equivoco, oppure fomentare incomprensioni e dissensi, e via dicendo. Ciò di cui oggi soffriamo è proprio lo spreco delle parole dette più o meno opportunamente, spesso vuote, false, senza scopo di edificazione, svuotate del loro significato. Pensiamo solo ai mezzi di comunicazione (TV, giornali, web): si stampano chilometri di carta, si parla, si comunicano notizie, ma è difficile trovare chi trasmetta la verità o contenuti significativi. Pensiamo però anche in positivo, alla parola che rivela il mondo interiore, quelle ricchezze nascoste che altrimenti non si conoscerebbero, conferendo ad essa un carattere attivo, buono, efficace.

Se diciamo tutto questo per la parola dell’uomo, quanto più  possiamo dirlo della Parola di Dio ed in modo infinitamente superiore, perché la Parola di Dio non è come quella umana che - direbbe sant’Agostino - ha un inizio ed una fine: quella di Dio opera ciò che dice, quindi crea, sostiene, illumina, conforta, sferza, lenisce, rimprovera, abbraccia e tutte queste cose le fa realmente, in modo vivo ed efficace, come penetrerebbe una spada a doppio taglio fra le giunture e le midolla, fra l’anima e lo spirito (cfr. Eb 4, 12-13). Il tesoro più grande allora che i cristiani condividono come bene è proprio la Parola di Dio che in Gesù, Verbo del Padre, si è fatta carne. È lui la Parola del Signore ed è lui il nostro unico bene, non paragonabile con nessun altro bene di questo mondo.

 

 I Sacramenti

 

Altro bene spirituale che i credenti hanno in comune sono i Sacramenti. Di questi parleremo più diffusamente nei prossimi articoli, qui ci limitiamo a dire che essi sono forme sensibili della grazia e dell’amore di Dio, cioè sono segni efficaci che compiono ciò che significano. Per esempio il Battesimo, sacramento iniziale fondamentale della salvezza e dell’appartenenza a Cristo, realizza veramente nell’anima di chi lo riceve quello che significa esteriormente: il bagno nell’acqua attua il lavacro dal peccato originale. E così per gli altri sacramenti.

Quindi, un bene spirituale ricevuto dal singolo non è solo per lui stesso, ma sovrabbonda a beneficio di tutti perché siamo un unico corpo e membra gli uni degli altri. Se uno si santifica accresce la santità dell’intero corpo ecclesiale, e il bene spirituale che circola all’interno del corpo - come il sangue nelle arterie e nelle vene - vivifica tutte le membra del corpo stesso.

È in virtù di questa verità di fede che noi cristiani possiamo pregare vicendevolmente, chiedere che il Signore doni grazia e salvezza a tutti, perché il tesoro spirituale è per tutti. La comunione dei santi significa questo: l’unione operata nei sacramenti e dai sacramenti.

 

La Carità

 

Negli Atti degli Apostoli troviamo: Ogni cosa era fra loro (i primi cristiani) comune (4, 32). Il cristiano non possiede niente che non sia in comune con i fratelli, condivide un bene con tutti, pronto a sollevare sia spiritualmente che materialmente le miserie dei più poveri. Nella comunione dei santi nessuno di noi vive per se stesso o muore per se stesso (cfr Rm 14, 7), ma se un membro soffre tutte le membra soffrono insieme e se un membro gioisce anche gli altri gioiscono con lui. Il più piccolo dei nostri atti, perciò, vissuto nella carità di Cristo e in grazia di Dio, ha ripercussioni benefiche su tutti, vivi e morti. Allo stesso modo però, anche il peccato nuoce alla comunione ed ogni anima che si sottrae alla grazia di Dio ferisce l’intero corpo ecclesiale.

 

I santi della terra e del cielo

 

La parola santo, se ci fa fare riferimento a tutti i cristiani santificati dalla grazia di Cristo, ci fa pensare anche e soprattutto a coloro che la Chiesa ha elevato agli onori degli altari e che veneriamo come tali. Questi fratelli e sorelle che già hanno raggiunto la gloria (Chiesa trionfante), sono modelli e intercessori, pregano per noi, chiedono grazia e salvezza al Signore per noi, loro fratelli che ancora lottiamo e soffriamo sulla terra (Chiesa militante). A nostra volta anche noi possiamo e dobbiamo pregarli e venerarli, ma anche e soprattutto raccomandare a Dio i fratelli che - passati da questa vita - stanno purificandosi in Purgatorio (Chiesa purgante). Questo è l’intero corpo ecclesiale, Chiesa trionfante, purgante e militante e in questo organismo circola così tanto bene spirituale da considerarci un tutt’uno. Quando diciamo: credo la comunione dei santi la nostra fede è anche in tutta questa santità che cielo e terra si comunicano. Per questo sono efficaci i suffragi per i defunti (celebrazioni di sante Messe, preghiere, sacrifici, elemosine), affinché si affretti il loro ingresso in Paradiso a contemplare il volto di Dio; a loro volta le anime sante del Purgatorio possono intercedere per noi e la loro preghiera è molto efficace.

 

Mi sembra importante concludere questo articolo spendendo qualche parola sul significato della preghiera d’intercessione.

A noi monache di vita contemplativa viene ordinariamente richiesto di pregare ed intercedere per tanti casi e situazioni penose di altri, o anche per ringraziare Dio di una grazia ricevuta, per il buon esito di un esame clinico e di tanti altri eventi della vita dei nostri amici. Certo, il nostro compito nella Chiesa è proprio la preghiera, l’intercessione, la supplica e questo noi facciamo principalmente con la Liturgia delle Ore, che si snoda durante tutta la giornata, poi con la nostra vita consacrata offerta al Signore, con le gioie, i sacrifici, il lavoro affidato al cuore di Cristo affinché Lui, primo vero ed unico mediatore, lo presenti al Padre per la salvezza di tutti.            

Intercedere, far “da ponte” tra chi chiede e chi dona, ci colloca così nel cuore di Gesù, nel mistero della sua intercessione e misericordia alla quale anche noi ci affidiamo quotidianamente, consegnandogli la nostra povertà e miseria che ci fanno vicini ad ogni uomo, ad ogni fratello. Più il nostro cuore vive in sintonia con la misericordia di Dio, più - oserei dire - è un cuore che supplica, che intercede per altri.

Quando interponiamo la mediazione di Gesù, il Padre ci ascolta perché vede tutti i suoi figli “attraverso il Figlio” come se lui facesse da filtro, vede noi come tanti cristi, quindi tutti figli suoi. Interporre l’intercessione di Maria Ss.ma e dei santi è giusto, mai però devono prendere il posto di Gesù, l’unico mediatore; i santi sono intercessori nel grande Intercessore: Cristo.

Sant’Agostino esprime molto bene questa realtà dell’intercessione nel commento al salmo 85, 1: se Cristo è nostro capo e noi membra del suo corpo, quando lo preghiamo lo facciamo attraverso lui stesso, con la sua stessa voce:

 Dio non avrebbe potuto elargire agli uomini dono più grande di quello di costituire loro capo lo stesso suo Verbo per mezzo del quale aveva creato l'universo, unendoli a lui come membra, in modo che egli fosse Figlio di Dio e Figlio dell'uomo, unico Dio insieme con il Padre, unico uomo insieme con gli uomini. Ne segue che quando parliamo a Dio e preghiamo, non dobbiamo separare da lui il Figlio, e quando prega il corpo del Figlio, esso non ha da considerarsi staccato dal suo capo; per cui la stessa persona, l'unico salvatore del corpo mistico, il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio di Dio, è colui che prega per noi, che prega in noi e che è pregato da noi. Prega per noi come nostro sacerdote; prega in noi come nostro capo; è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo dunque in lui la nostra voce e in noi la sua voce.

È importante che ogni cristiano prenda consapevolezza di “essere in Cristo” e di “essere con” altri fratelli, uniti in un legame indistruttibile, perché realizzato dal sangue di Gesù e dal suo sacrificio.

 

La comunione con i santi. «Non veneriamo la memoria dei santi solo a titolo d’esempio, ma più ancora perché l'unione di tutta la Chiesa nello Spinto sia consolidata dall'esercizio della fraterna carità. Poiché come la cristiana comunione tra coloro che sono in cammino ci porta più vicino a Cristo, cosi la comunione con i santi ci unisce a Cristo, dal quale come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso Popolo di Dio» (LG 50).

 

La comunione con i defunti. «La Chiesa di quelli che sono in cammino, riconoscendo benissimo questa comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, fin dai primi tempi della religione cristiana ha coltivato con una grande pietà la memoria dei defunti e, poiché santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché siano assolti dai peccati (2 Mac 12, 45), ha offerto per loro anche i suoi suffragi» (LG 50). La nostra preghiera per loro può non solo aiutarli, ma anche rendere efficace la loro intercessione in nostro favore.

 

Settembre / Ottobre 2009 - Anno XVII - n° 2


Credo la Resurrezione della carne,

la Vita eterna. Amen.»

- dodicesima e ultima parte -

 

Siamo arrivati alla fine del nostro Credo cristiano che culmina con la professione: Credo la resurrezione della carne, la vita eterna. Amen.

 

Noi fermamente crediamo e fermamente speriamo che come Cristo è veramente risorto dai morti e vive per sempre, così pure i giusti, dopo la loro morte, vivranno per sempre con Cristo risorto, e che egli risusciterà nell’ultimo giorno (CCC 989).

 

Il contenuto di questo paragrafo del Catechismo è ciò che costituisce la speranza cristiana, la fede in una vita che non ha termine con la morte, eredità del peccato, ma che va oltre e culmina nella vita eterna. La speranza, inoltre, è quella certezza in virtù della quale noi possiamo affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto ed accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino (Benedetto XVI, Spe salvi 1). Più avanti nella sua Enciclica, il Papa afferma che in questo modo i cristiani hanno un futuro, sanno che la loro vita non finisce nel vuoto: solo quando il futuro è certo come realtà positiva diventa vivibile anche il presente... La porta oscura del tempo del futuro è stata spalancata. Chi ha speranza vive diversamente; gli è stata donata una vita nuova (Ss 2).

 

La resurrezione di Cristo e la nostra

 

La fede nella resurrezione dei morti è stata rivelata da Dio al suo popolo progressivamente ed è stata come la conseguenza connaturale nella fede in Dio Creatore dell’uomo tutto intero, anima e corpo che non può - in un certo qual modo - lasciare che la sua creatura finisca nel nulla. Nella Scrittura abbiamo testimonianze di fede nella resurrezione in Giobbe e nei libri dei Maccabei che confessano - durante il loro martirio - di credere come certa la vita senza fine e la resurrezione dei loro corpi.

Ma è solo con la venuta del Figlio di Dio nella carne umana, reale, vera, concreta assunta da Maria, che ciò che noi crediamo sulla resurrezione è diventata assoluta realtà: Gesù è risorto, ha sconfitto la morte una volta per sempre, egli è il Signore della vita e anche noi resusciteremo come lui, con lui, per mezzo di lui. Come dicevano i Padri della Chiesa, il principio della salvezza è la carne (Caro cardo salutis, Tertulliano) assunta dal Verbo nell’incarnazione, altrimenti come avrebbe egli potuto soffrire realmente espiando i nostri peccati e donandoci la salvezza? Per questo, se il Verbo di Dio ha voluto assumere un corpo umano, quanto grande è la dignità del nostro corpo! Esso è soggetto alla morte e alla corruzione come castigo del peccato originale, ma è destinato alla resurrezione finale.

Ma cosa significa resuscitare?

Con la morte fisica, separazione dell’anima dal corpo, il corpo cade nella corruzione mentre l’anima va incontro a Dio, pur restando in attesa di essere riunita al suo corpo glorificato. In forza della resurrezione del suo Figlio Gesù, Dio restituirà definitivamente la vita incorruttibile ai nostri corpi riunendoli alle anime.

Chi resusciterà? Tutti gli uomini che sono morti: quanti fecero il bene per una resurrezione di vita e quanti fecero il male per una resurrezione di condanna (Gv 5, 29).

Come? Come è risorto Cristo, con il proprio corpo non ritornando ad una dimensione vitale terrena ma con un corpo glorificato, trasfigurato. Il come, in verità, supera di molto le possibilità dell’umana immaginazione e della nostra comprensione intellettuale; è accessibile solo alla fede.

Quando risorgere? Definitivamente “nell’ultimo giorno”, alla fine del mondo. La resurrezione dei morti è associata al ritorno del Signore Gesù alla fine del tempo.

 

Il senso cristiano della morte

 

Con la morte Dio chiama a sé l’uomo; così come ogni uomo è stato voluto e chiamato gratuitamente alla vita dal Signore, così egli lo richiamerà a sé quando, dove e come lui vorrà. La morte in Cristo ha un significato positivo: pur rimanendo il dramma lacerante e doloroso di un distacco, di uno strappo - specialmente se violento e improvviso - essa non è il termine nel nulla, ma il ritorno dell’anima a Colui che l’ha creata. La liturgia esprime con parole impareggiabili questo mistero: Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta ma trasformata, e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo (prefazio del defunti). La morte quindi è la fine del nostro pellegrinaggio terreno, del tempo della grazia e della misericordia che Dio offre all’uomo per realizzare la vita secondo la sua volontà, per conseguire la santità. Non esistono “altre vite” dopo quell’unica che ci è data in dono: non c’è “reincarnazione” dopo la morte.

Il cristiano, proprio perché incorporato a Cristo con il battesimo, partecipa già alla vita celeste di Cristo risorto, anche se questa è ancora nascosta “in Dio”. Inoltre, nutriti dell’Eucaristia farmaco dell’immortalità, abbiamo già la caparra, l’anticipazione della vita eterna; chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna ed io lo resusciterò nell’ultimo giorno (Gv 6, 54) dice il Signore. Chi si ciba nella vita dell’Eucaristia, cioè di Gesù stesso, non morirà in eterno perché possiede in sé la Resurrezione in persona.

 

Le testimonianze più significative sulla bellezza della vita e il desiderio di morire “per essere con Cristo” ci vengono dai santi, i quali hanno capito il vero significato della vita e della morte: il loro amore per il Signore è talmente grande che poca cosa sembra l’esistenza, troppo breve, fugace e limitata per “avere il tempo sufficiente” per amarlo; per questo desiderano la morte, non per masochismo ma come definitivo abbraccio con lui nell’eternità. Per me vivere è Cristo, morire un guadagno(s. Paolo), Il mio amore è crocifisso… un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: Vieni al Padre (s. Ignazio d’Antiochia), Voglio vedere Dio, ma per vederlo bisogna morire (s. Teresa d’Avila), Laudato sii mi Signore per sora nostra morte corporale, dalla quale nullu homo vivente po’ skappare (s. Francesco), Non muoio, entro nella vita (s. Teresa di Lisieux), Che io muoia per non morire e vedere il tuo volto (s. Agostino) e si potrebbero aggiungerne infinite altre testimonianze.

 

Credo la vita eterna. amen.

 

Nella Sacra Scrittura e nella tradizione della Chiesa la vita eterna nella comunione con Dio viene descritta con immagini diverse: come un convito di nozze celesti, come vita luce pace. Anche con la parola “cielo” noi descriviamo quella dimensione che vivremo nell’aldilà, come fosse situata al di sopra di noi, negli spazi immensi sopra il firmamento. In realtà, sono tutte immagini efficaci che ci richiamano alla verità dell’assoluta trascendenza e totale diversità della vita eterna, ma non possono farci fermare alla materialità di ciò che significano. La vita eterna sarà uno stato di felicità perfetta nella contemplazione beatifica del volto di Dio. Il cielo o paradiso è l’eterna comunione dell’uomo con Dio in cui lo conosceremo così come egli è; il “dove” è curiosità umana e terrena, veramente difficile da soddisfare! Sarà il posto più giusto e desiderato da ciascuno: è il seno di Dio, quel grembo per cui siamo stati fatti e a cui desideriamo ritornare.

Nella vita senza fine Dio-Trinità ci manifesterà tutta la pienezza della sua vita e del suo amore, il mistero insondabile della sua realtà divina in cui inabissarci totalmente: sarà il paradiso. La comunione definitiva con Dio non sarà poi un isolamento dal resto della realtà, ma sarà perfetta in lui la comunione dei santi, la concordissima e perfettissima immersione in Dio e - in lui - fra tutti i beati e santi del paradiso, compresi i nostri parenti, gli amici con cui abbiamo condiviso la vita terrena, le persone che abbiamo amato. Essendo il cielo il compimento e coronamento della vita, anche il frutto lavorato e sofferto del nostro pellegrinaggio terreno entrerà nella trasfigurazione dell’eternità, e la gioia eterna sarà anche per la ricompensa ricevuta; non che vanteremo alcun merito davanti a Dio, ma egli - coronando i nostri meriti - non farà altro che coronare i suoi doni, perché tutto è grazia.

 La dottrina della Chiesa ha espressamente difeso, nel corso del tempo, anche l’esistenza di un luogo di dolore, lontano da Dio: l’inferno. Le convinzioni che sostengono questo credo sono basate sulle parole della Scrittura e di Gesù stesso (Mt 5, 29-20; 25, 41-46), quindi su un fondamento biblico sicuro. Ma la prudenza della Chiesa e la misericordia che ha appreso da Cristo stesso la induce a non dichiarare per certo che qualcuno (nome e cognome) sia all’inferno, ma ad affermare e venerare solo i santi del paradiso, che addita come modelli di vita cristiana. Quindi nessuno sa chi vi sia nel luogo della perdizione, certo è che Dio garantisce la dignità e la libertà dell’uomo, pertanto può rifiutare la sua grazia. Fino all’ultimo la misericordia farà di tutto per salvare un uomo, ma non può violentarne la libertà, senza la quale non ci sarebbe neanche amore. L’inferno è in definitva autoesclusione per colpa propria dalla comunione con Dio e quindi allontanamento dalla contemplazione del suo volto. Per tutti dobbiamo pregare, perché ogni uomo comprenda che la vera libertà - infine - non è mettersi contro Dio ma aderire a lui, alla salvezza che egli offre.

 L’esistenza della vita dopo la morte ha suggerito la preghiera per i defunti, affinché possano essere accolti nelle braccia del Padre e purificati dalle loro colpe. La prassi della preghiera e del suffragio per i defunti la troviamo fin dall’inizio della Chiesa, come è dimostrato anche in molte iscrizioni catacombali. Conclusa l’esistenza, l’uomo non può più cooperare attivamente alla propria santificazione, ma può essere aiutato dalla preghiera dei fratelli ad affrettare l’incontro con Dio. Questo stato intermedio viene chiamato, con un termine classico, purgatorio cioè il luogo in cui ci si purifica. Le anime che abitano questo stato sono “sante” (le anime sante del purgatorio) e non sono “povere” (le povere anime del purgatorio), perché sperimentano tutta la ricchezza della misericordia di Dio, aspettando solo di essere totalmente purificate per vederlo… In questo consiste il loro tormento: non sono ancora abbastanza pure per essere interamente colmate dall’amore di Dio; è questa sofferenza che purifica le loro colpe, i nostri suffragi, le opere buone, le elemosine e soprattutto la celebrazione del santo Sacrificio offerto per loro, affrettano il momento del ricongiungimento a Dio, quando entreranno in paradiso per l’eternità.

 Il Credo termina con la parola ebraica Amen. Nella lingua di origine si ricongiunge direttamente con la parola credere ed esprime - alla radice - la solidità, l’affidabilità e la fedeltà. Si capisce allora perché l’Amen può esprimere tanto la fedeltà di Dio verso di noi che la nostra fiducia in lui (cfr. CCC 1062).

Nella scrittura è Dio stesso che si definisce l’Amen, cioè il Fedele, colui che non cambia e porta a termine il suo progetto di salvezza. Nei Vangeli anche Gesù usa l’espressione Amen amen, ripetuta due volte: In verità in verità vi dico per sottolineare la verità inequivocabile di quello che sta per affermare.

L’ Amen finale del Credo riprende e conferma le due parole iniziali: Io credo. Credere significa dire Amen a tutte le verità credute e proclamate, alle promesse di Dio e significa dare completa fiducia e credibilità a lui, a ciò che ci ha rivelato. “Io credo. Amen.” È questa la nostra fede, la norma della nostra vita. Dice s. Agostino ai catecumeni: Il Simbolo sia per te come uno specchio. Guardati in esso, per vedere se tu credi tutto quello che dichiari di credere e rallegrati ogni giorno per la tua fede (Disc 58, 11).

 

Il Credo sia anche per noi lo specchio in cui dobbiamo ritrovare la nostra immagine di cristiani, confrontandoci con esso quotidianamente; sia la bussola per il cammino e il punto di riferimento sicuro nei vacillamenti della nostra fede.

 


 

È bene, in questo contesto, spendere qualche parola sulla reincarnazione come credenza oggi molto gettonata, specialmente fra i giovani.

Essa è - nell’induismo - il cammino che consente ad un anima di accedere, attraverso purificazioni successive e diverse vite, alla liberazione dalla pesantezza e dall’illusione, per giungere alla estinzione in Brama.

La resurrezione indica, invece, il tornare a vivere una vita vera dopo la morte, non con le caratteristiche di quella precedente, ma non per questo meno reale. Essa rimanda alla dimensione vissuta da Cristo dopo la resurrezione: un corpo glorificato, che entrava a porte chiuse, ma reale, vero. 

Se la Resurrezione di Cristo e quella della nostra carne alla fine dei tempi viene messa in discussione non ci può essere fede cristiana. È in gioco non una cosa da nulla, ma il centro di tutto. Purtroppo ci sono molti cristiani che credono alla reincarnazione, ma tale credenza non è cristiana; purtroppo essa non è una semplice idea di moda, riflette invece l’angoscia profonda del nostro tempo. Per esorcizzare la paura della morte e continuare in un qualche modo a vivere, si accetta una teoria del genere, come per trovare in essa un senso all’esistenza umana. C’è incapacità a vivere, a morire, a rispondere alle domande profonde dell’esistenza (chi sono, da dove vengo, dove vado, perché vivo), si cerca un’illusoria immortalità, si dimentica Dio e la propria finitezza, si cade nel nichilismo assoluto. Certo, non illuminata dalla fede la morte è un buco nero da annullare e così l’ipotesi della reincarnazione appare ad alcuni la sola che possa contrastare la fine ineluttabile di questo nostro corpo: comprensibile, ma assolutamente incompatibile con l’idea cristiana di morte come ingresso nella vita in Dio, come cambiamento e non sottrazione di vita. Il destino umano non è la tomba, il dissolvimento, il tornare a vivere in altre forme, ma la vita nuova che solo Gesù Cristo ci può dare con il trionfo sulla morte.

                                          

Fratelli, dovete tener presente che Cristo è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione. Ma soprattutto in questi giorni [pasquali] in cui, commossi da tanta grazia, non vogliamo che quel che è avvenuto una volta per tutte sia dimenticato, e[per questo ne celebriamo l'anniversario, informati dalla fede, confermati dalla speranza, infiammati dalla carità, partecipiamo con solennità alle celebrazioni temporali, desideriamo incessantemente quelle eterne. Se Dio infatti non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci darà ogni cosa insieme con lui?. Cristo ha patito, moriamo al peccato; Cristo è risuscitato, viviamo per Iddio. Cristo è passato da questo mondo al Padre; non qui si attacchi il nostro cuore, ma lo segua nelle cose di lassù. Il capo nostro fu appeso sul legno; crocifiggiamo la concupiscenza della carne. Giacque nel sepolcro; sepolti con lui dimentichiamo le cose passate. Siede in cielo; trasferiamo i nostri desideri alle cose supreme. Dovrà venire come giudice; non ci lasciamo aggiogare con gli infedeli. Egli risusciterà anche i corpi dei morti; al corpo destinato a mutare procuriamo meriti mutando mentalità. Porrà i cattivi alla sua sinistra e i buoni alla sua destra; con le buone opere procuriamoci il buon posto. Il suo regno non avrà fine; non abbiamo paura per la fine di questa vita.

(Sant’Agostino, Disc 229/D 1) 

 

Aprile / Maggio 2011 - Anno XV - n° 2

 

 
   

 

 

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