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S. Scrittura

 

 

 

Ti racconto

una

storia

 

 

di suor Maria Agostina

 
 
  1. Un biglietto di sola andata

  2. Israele by night

  3. Voce di un silenzio leggero

  4. Sangue straniero nelle vene d'Israele

  5. Il "Servo" di Jahvèh

  6. Un ribelle per Dio (1)

  7. Un ribelle per Dio (2)

  8. Sentiero a nord-est

  9. La casa di Dio

  10. Fedeltà nelle avversità (1)

  11. Fedeltà nelle avversità (2)

  12. ... e vieni in una grotta

  13. Il segno della lotta

 
 
 

Un biglietto di sola andata

- prima parte -

 

“C’era una volta…”. Un principe azzurro? No. Una fanciulla che viveva nel bosco? No. “C’era una volta… Dio e un clan di nomadi semiti che ben presto diventerà il suo popolo”.

Comincia proprio così la nostra nuova rubrica che ci accompagnerà nella lettura e nell’approfondimento di alcuni brani biblici, per una conoscenza più consapevole ed intelligente della Sacra Scrittura, il libro attraverso cui Dio vuole incontrarci per parlarci di sé e di noi. I Padri della Chiesa la definivano “lettera di Dio” agli uomini. Essa infatti non è altro che “un’amorosa e benefica comunicazione del Padre ai figli”.

Ci soffermeremo di volta in volta su quei brani – forse più significativi o spesso meno conosciuti – che hanno narrato la storia d’Israele ed anche la nostra, che della prima è un prolungamento nel tempo per la fede in quel Dio che “in principio” ha chiamato all’esistenza tutte le cose.

Allora:c’era una volta un uomo che viveva con la sua famiglia in Mesopotamia (l’attuale Iraq), in una città chiamata Ur. Il suo nome era Abràm. Egli era “di stirpe nobile” – secondo l’etimologia del nome – era cioè molto ricco in bestiame, argento e oro (Gen 13,2). Aveva tutto quello che un uomo del suo tempo poteva desiderare. Tutto, tranne la cosa più importante: era ormai avanti negli anni e sua moglie Sàrai era sterile. La loro esistenza, nonostante il benessere, non era stata allietata dal sorriso di un figlio e questa situazione pesava molto sui due coniugi come una maledizione.

Un giorno però ad Abràm successe qualcosa di strano e straordinario insieme. Sentì una voce ed una proposta insolite: Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra (ivi 12,1-3). Detto fatto.  Pacchi e pacchettini, giusto il tempo di smontare le tende dell’accampamento, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava (Eb 11,8).

Quello fu proprio un viaggio di sola andata, senza più possibilità di ritorno. Da quel giorno egli non si guardò più indietro e riconobbe che la sua vita era guidata, secondo modalità misteriose, da quel Dio (“El”) capace di realizzare quanto promesso.

Di tappa in tappa Abràm raggiunse il paese abitato dai Cananei ma vi si accampò come straniero. La promessa di Dio era chiara: Alla tua discendenza io darò questo paese (Gen 12,7). Ma quale discendenza da una coppia anziana e per di più sterile? Eppure quella voce l’aveva veramente udita: farò di te un grande popolo. Forse Lot, il figlio di suo fratello che dopo la morte del padre viveva con lui, avrebbe costituito la sua posterità.

Chi decide però di intraprendere un viaggio munito di un biglietto di sola andata, è tenuto a sapere che l’impossibile e l’imprevedibile nascondono sempre la firma di Dio. Abràm aveva accettato di fidarsi lasciando la sicurezza della sua terra e partendo per riceverne un’altra, anche se in seguito molto spesso la sua fede fu messa alla prova, non solo da Dio ma persino dalla sua stessa impazienza di veder realizzato al più presto quanto sperato perché promesso.

Il Signore non si fece attendere a lungo. Attraverso una sapiente opera pedagogica stimolò Abràm e la moglie Sàrai a crescere nella fede, a “mollare l’ancora” dei propri calcoli personali e, dopo aver sancito un’alleanza con riti via via più solenni (tra i quali Anche il cambiamento del nome, simbolo di inizio di vita nuova), donò loro il primo e forse più prezioso frutto della promessa. La nascita di un figlio rallegrò finalmente la vita di Abramo e Sara: Isacco (che significa “Dio mi fa sorridere”) scolpì la gioia sul volto dei due anziani genitori e diede corpo alla speranza, frutto della fiducia nelle parole di Jahvèh.

Ma ben presto qualcosa cambiò. La pace e la serenità di quella famiglia ricevettero una forte scossa, proprio come un fulmine a ciel sereno, e Abramo assaporò per un momento tutta l’amarezza e l’alto prezzo richiesto da un biglietto di sola andata: Dio gli chiese di sacrificargli la vita di Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome (Eb 11, 17-18). Quel giorno Abramo risentì ancora una volta la voce di Dio che lo chiamava ad uscire, non più dalla sua terra e dalla casa di suo padre ma dalla propria autosufficienza e dalla tentazione di credersi oramai “arrivato”, perché abbondantemente premiato per la sua cieca obbedienza. È vero: aveva dimostrato di possedere una buona dose di fede (qualcuno forse direbbe di incoscienza), ma adesso la richiesta di Jahvèh toccava il paradosso: sacrificare il figlio, l’unico, quello della promessa. Dio glielo aveva donato e adesso gli chiedeva di restituirglielo. Questa nuova chiamata (Gen 22, 1-2) aveva forti somiglianze con la prima (ivi 12,1): vi erano implicati un lasciare e un andare verso un luogo sconosciuto che sarebbe stato indicato dal Signore al momento giusto.

Abramo, sempre più consapevole di tenere in mano un biglietto impegnativo per un viaggio-avventura che lo avrebbe coinvolto fino in fondo, accettò nuovamente di fidarsi. Anzi, s. Paolo dice che per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede… sperando contro ogni speranza (Rm 4, 20.18). Si dispose perciò, materialmente ed affettivamente, a sacrificare il figlio e s’incamminò verso la montagna. Fu un viaggio in salita (e non solo geograficamente). Aveva accanto a sé l’amato Isacco, si scambiavano le ultime parole, gli ultimi sguardi. Come poteva Dio fargli questo? Eppure sapeva di potersi fidare e lo voleva con tutto se stesso. Proprio in quel momento, tragico e terribile, risentì la voce del Signore: Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male!… Giuro per me stesso: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione… perché tu hai obbedito alla mia voce (Gen 22, 12.16-18). Dio aveva mantenuto fede alla promessa e all’Alleanza e aveva dimostrato ad Abramo – e in lui a tutte le nazioni della terra – che quanto egli chiede, seppure assurdo e paradossale, è per un bene più grande e per una felicità più piena.

 

Una breve riflessione: attenzione ad accettare biglietti di sola andata, perché una volta cominciato il viaggio bisogna portarlo a termine fino al capolinea e non si può più tornare indietro. Il Signore non scherza e non inganna: ti chiede tutto ma è subito pronto a darti tutto; vuole che tu vada a lui con lo zaino vuoto perché possa esserci maggiore spazio per contenere i suoi doni. Ti chiede di mollare la presa delle sicurezze umane perché tu possa avere le mani libere per aggrapparti a lui. Fa un’alleanza con te e s’impegna solennemente ad essere il tuo Dio, purché tu sia disposto ad accettare tutte le sue richieste, anche e soprattutto le più assurde e irragionevoli.

Il nostro Dio è fatto così: vuol farci crescere facendoci fare passi da gigante nella fede perché sa che ne siamo capaci se ci abbandoniamo a lui e che può pretenderlo. Siamo fatti “della sua stessa pasta” e sa di poter osare quando noi gliene diamo il permesso.

In questo nostro cammino di crescita, però, non ci lascia mai soli: è sempre lì accanto a noi a misurare la strada secondo i nostri passi, secondo il nostro ritmo di marcia e – parafrasando la “parabola” dell’Anonimo brasiliano – proprio nei momenti più difficili di questo percorso è pronto a prenderci in braccio, perché sa che i nostri piedi zoppicanti non potrebbero da se stessi compiere i salti che lui ci chiede e ci aiuta a fare.

Questo è l’inizio e il fondamento di ogni storia di alleanza con Dio: lo è stato per Israele e lo è per ciascuno di noi, figli di Abramo, nostro padre nella fede.

 

Febbraio / Marzo 2006 - Anno X - n° 1

 


Israele by night

- seconda parte -

 

Quando si fa un viaggio è di rito la sosta in un negozio di souvenir. Miniature dei principali monumenti, oggetti di artigianato locale e le immancabili cartoline da spedire a parenti ed amici con l’ormai nota espressione di saluto: “… c’ero anch’io…”. Di tutti i tipi e di tante forme e colori, le più belle però rimangono le cosiddette “by night”. Chissà perché, ma la città avvolta nella notte e rischiarata dalle luci domestiche suscita sempre un certo fascino. Naturalmente decidiamo di comprare proprio quelle.

Cosa c’entra tutto questo con la nostra rubrica? Semplicemente ho deciso, dal mio simbolico viaggio nella storia d’Israele, di spedirvi una sua cartolina “by night”. I “negozietti” del posto ne mostrano di ben quattro tipi: si tratta della tradizione rabbinica delle “Quattro Notti”. Più precisamente, si distinguono quattro notti fondamentali nella Storia della Salvezza. La prima è quella della creazione (Gen 1,3), la seconda è la notte dell’alleanza con Abramo (Gen 15,17-18), la terza è quella della liberazione dall’Egitto (Es 12,42), la quarta e ultima notte sarà quella del compimento definitivo della salvezza, quando verrà il Messia promesso.

Tra tutte ho scelto la terza per il suo stretto legame con la nostra festa di Pasqua. Dalla ricchissima “guida turistica”, che è la Bibbia, potremo scoprire che questa cartolina descrive la pasqua (cioè “passare oltre”) del Signore e di quello che presto diventerà il suo popolo (Es 12,11). Ma proviamo a leggere con più attenzione il libro dell’Esodo.

Inizialmente vi è descritta la “notte” dei figli d’Israele costretti a dura schiavitù dal faraone, oppressi per timore di una loro possibile alleanza con i popoli nemici, obbligati ad assistere all’uccisione dei figli maschi per evitarne l’incontenibile proliferazione.

La notte – si può leggere su qualsiasi dizionario – è “lo spazio di tempo fra il tramontare e il nascer del sole, in  cui la terra è coperta dalle tenebre”.

Tenebre fitte infatti incombono sugli ebrei, il cui stesso nome indica la condizione di schiavitù (‘ibrì, in ebraico), quella schiavitù che, con sentimenti di solitudine, abbandono e morte, caratterizza gli albori del popolo eletto.

Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da questo paese verso il paese ch’egli ha promesso con giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe (Gen 50,24). Queste furono le ultime parole pronunciate da Giuseppe prima di morire. Egli aveva impedito che i suoi fratelli (gli antenati del popolo d’Israele) morissero di fame, accogliendoli in Egitto, dove aveva ottenuto il favore del faraone che lo aveva messo a capo dei suoi beni e di tutto il suo popolo. Ma col passare dei secoli sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe… Allora vennero imposti loro dei sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i loro gravami… (Es 1,8.11). Dov’era Dio in tutto questo? Le parole-testamento di Giuseppe però non avrebbero tardato ancora oltre a realizzarsi: era ormai vicino il giorno in cui Jahvèh avrebbe visitato i suoi figli. Del resto lo aveva già fatto con Sara, rendendone fecondo il grembo sterile per mantenere fede alla promessa della discendenza (Gen 21,1). Le ripetute “visite” di Dio, lungo la storia del suo popolo, sono appunto segni della sua presenza, della sua azione, della continuità del suo disegno salvifico e manifestano la sua fedeltà alle promesse.

Proprio nel periodo della notte più buia, quando il grido dell’oppressione si faceva sempre più forte, Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe, guardò la condizione degli Israeliti e se ne prese pensiero (Es 2,24-25). È la prima luce che Dio accende nella nostra cartolina notturna e lo fa addirittura su di un monte che svetta sullo sfondo del panorama: sull’Oreb-Sinai Dio si manifesta a Mosè, l’ebreo-egiziano, sotto le sembianze di un roveto che arde e non si consuma e gli affida la missione di far uscire gli israeliti dall’Egitto verso la Terra Promessa, una terra dove scorre latte e miele (Es 3,7-8.10).

 Ma il faraone non molla tanto facilmente la presa, non può lasciarsi sfuggire la mano d’opera per le sue grandiose costruzioni. Jahvèh allora è costretto a “farsi sentire” e colpisce l’Egitto con nove piaghe, frutto di una natura sfigurata e ostile di cui Dio si serve per il suo disegno di salvezza. Nessuna di queste però riesce a piegare il cuore impietrito del faraone, anche se la nona dà un assaggio di quello che il Signore si sta preparando ad operare per il suo popolo: vennero dense tenebre su tutto il paese d’Egitto… Non si vedevano più l’un l’altro… Ma per tutti gli Israeliti vi era luce là dove abitavano (Es 10,22-24). Dio accende una seconda luce e si prepara all’azione definitiva. Dà istruzioni a Mosè e ad Aronne per la celebrazione della pasqua precisando: E’ la pasqua del Signore! In quella notte io passerò per il paese d’Egitto e colpirò ogni primogenito nel paese d’Egitto (Es 12,11-12). È ancora notte, ma questa volta il buio attanaglia e terrorizza gli egiziani, quelli cioè che prima avevano assunto a forza e prepotenza la propria risibile vigliaccheria, opprimendo un popolo per timore di perderne il controllo. Proprio in quella stessa notte, attraverso una colonna di fuoco, Jahvèh guida gli Israeliti alla libertà “camminando” alla loro testa e illuminandone il cammino. È la terza luce. È una luce che è vita e libertà, sinonimi di risurrezione. L’acqua richiama la vita e dunque il grembo materno. Nel passaggio del Mar Rosso, simbolicamente,  Israele esce dall’acqua per nascere come popolo-figlio di Dio chiamato alla libertà. Adesso la nostra cartolina  mostra tutta la sua bellezza.

Il canto dell’Exsultet, all’inizio della liturgia della Veglia Pasquale, è un meraviglioso inno alla notte come luogo della presenza e dell’intervento straordinario di Dio. Si fa memoria dei prodigi dell’Esodo e della Risurrezione di Cristo, l’uno tipologia dell’altra che ne è il compimento.

Si fece buio su tutta la terra quando Gesù, emesso un alto grido spirò (Mt 27,45.50). Era “notte” dunque per quanti avevano sperato la salvezza da quell’uomo. Era ormai morto, o meglio, si era lasciato uccidere senza opporre resistenza, senza aver fatto udire la sua voce, senza aver liberato Israele dai Romani: “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni…” (Lc 24,21), constatano delusi i due discepoli di Emmaus.

Ma passato il sabato, cioè la notte della fede e le tenebre dello smarrimento, all’alba del primo giorno della settimana… E’ risorto, come aveva detto ( Mt 28, 1. 6). Al termine della notte, anche quella più oscura e più lunga, c’è sempre l’alba della rinascita, della salvezza, del passaggio di Dio che accende una luce nuova. Sul far del mattino… Israele vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito (Es 14, 27. 31).

La “notte” non è mai l’ultima parola di Dio sull’esperienza spirituale dell’uomo; semmai si tratta di un momento di passaggio e di preparazione per qualcosa di straordinariamente grande, quale il rinnovarsi dell’Alleanza tra due partners che imparano ad amarsi facendo esperienza l’uno dell’Altro. Ed è proprio in questi momenti che si scolpiscono profondamente nel cuore le parole che il Signore ha pronunciato per bocca del profeta Isaia: Per un breve istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso amore…Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace (54,7.10).

Non c’è notte né morte dunque per il discepolo di Cristo, perché in lui era la vita e la vita era la luce degli uomini (Gv 1,4).

 

Aprile / Maggio 2006 - Anno X - n° 2

 


Voce di un silenzio leggero

- terza parte -

 

Elia camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb. Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco…Gli fu detto: “Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore”. Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna (1Re 19,8-9.11-13).

È capitato anche a me qualcosa di simile tempo fa. Mi trovavo in giardino e, nel silenzio, ascoltavo i suoni che provenivano da fuori e intorno a me. “Ci fu un vento impetuoso e gagliardo” (Urbino è famosa per questo) che scuoteva gli alberi agitandoli, generando così il fruscio delle foglie. “Dopo il vento ci fu un terremoto”: in quel momento si trovò a passare un elicottero, o qualcosa del genere, il cui rumore assordante disturbò il silenzio che fino ad allora aveva regnato. “Dopo il terremoto ci fu un fuoco”: un raggio di sole che a mezzodì, facendo capolino tra le nuvole, riuscì a riscaldare l’aria. “Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero” (voce di un silenzio leggero, secondo una traduzione più letterale): l’orgoglioso vento urbinate abbassò la sua cresta per cedere il posto ad un venticello delicato. In quel momento ricordai il brano della Scrittura sopraccitato e custodii nel cuore quest’esperienza.

Lungi dall’essermi ritenuta interlocutrice di Dio come il grande profeta Elia, tuttavia sentii sulla mia pelle cosa significa rendere attuale e concreta nella propria vita la Parola divina. Quel brano del primo libro dei Re, che tante volte avevo letto e meditato, non era più semplicemente un racconto, ma aveva preso forma e consistenza nella mia storia personale. Era diventato una pagina della “mia” Sacra Scrittura, quella che quotidianamente porto avanti insieme a Dio.

Questo passo biblico descrive il culmine di una forte esperienza vissuta da Elia e, per comprenderne la portata, dobbiamo necessariamente conoscere il retroscena. “Un nome, un programma”: è proprio il caso di dirlo nei confronti di Elia. Il nostro profeta racchiude nel suo nome un programma di vita: “il mio Dio è Jahvèh” o “solo Jahvèh è Dio”. Egli è il profeta ardente di zelo per il Signore degli eserciti (1Re 19,10.14) e il grido di battaglia che scandirà la sua missione tuona con forza: per la vita del Signore, alla cui presenza io sto (1Re 17,1;18,15). Egli sarà chiamato a difendere strenuamente la purezza della religione trasmessa dai padri, in un tempo in cui i culti pagani della fecondità allettavano il popolo e lo stesso re d’Israele. I profeti di Baal, la divinità Cananea, erano quattrocentocinquanta ed Elia era rimasto solo, l’unico profeta del vero Dio (1Re 18,22). Elia lancia una sfida sul monte Carmelo: il loro Dio contro il suo Dio. Baal non si “presenta” all’appuntamento, Jahvèh invece si manifesta nel fuoco che consuma interamente il giovenco immolato. È lui il vero Dio, acclamato dal popolo attraverso il curioso gioco di parole tra il nome di Elia e la professione di fede in Jahvèh: Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!, cioè “Elia! Elia!”. Ai falsi profeti del falso Dio è riservata la sorte che allora minacciava i vinti: sono uccisi dal vincitore.

A questo punto Elia potrebbe anche ritenersi soddisfatto. È stato osannato ed ha ottenuto che il popolo riconoscesse Jahvèh quale unico e solo Dio d’Israele. In realtà comincia proprio il peggio: la regina Gezabele, sostenitrice del culto di Baal, vuole vendicare i suoi profeti e cerca Elia per ucciderlo. Ma cosa fa il nostro profeta di fuoco? Coraggiosamente… scappa. Sembra quasi scandalizzato: aveva difeso con tutte le sue forze la verità di Jahvèh e adesso, anziché esserne ricompensato, si ritrova da lui abbandonato alla crudeltà di una donna che fa di tutto per ucciderlo. Ma chi è questo Dio per il quale si era battuto e che adesso lo abbandonava, ingrato e incurante delle gravi minacce? È un Dio che sconcerta, che lascia senza parole e al quale il profeta chiede di prendere la propria vita. Elia scappa per paura di morire per mano di una donna e si ritrova, disperato, ad invocare la morte per mano di Dio. Si inoltra nel deserto, ma qui un angelo lo invita ad alzarsi, a mangiare e ad intraprendere un cammino (1Re 18,20-19,7).

È qui che si inserisce il nostro brano. Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb (o Sinai - 1Re 19,8). Questo versetto richiama in maniera impressionante l’esperienza di Mosè e del popolo ebreo in fuga dall’Egitto: nel deserto sono nutriti da un cibo donato da Dio; camminano verso il monte Sinai; il numero quaranta richiama la loro peregrinazione nel deserto, segno di una lunga e lenta purificazione prima di poter arrivare alla Terra Promessa. Anche Elia dovrà prendere forza, mangiando un pane donato dal Signore, per intraprendere un faticoso cammino in salita verso il monte dell’Alleanza e della manifestazione piena di Jahvèh. Ma tutto questo non sarà possibile senza una profonda conversione, un processo di purificazione dalle false idee e pretese su Dio. Elia, il grande profeta che si gloriava di poter gridare orgogliosamente: “Per la vita del Signore, alla cui presenza io sto”, è arrivato ad una svolta importante nella sua vita, deve imparare cosa significhi veramente stare alla presenza del Signore. E lo imparerà molto presto.

Dio si serve della fuga del suo profeta per trasformarla in occasione propizia, affinché questi faccia un’autentica esperienza di lui.

Elia si rifugia in una caverna, come Mosè, per non vedere il volto di Dio e non morire. Nell’animo del nostro profeta convivono curiose contraddizioni. Prima fugge per non essere ucciso, poi invoca disperato la morte, infine si nasconde per non morire. Insomma: un po’ di coerenza, per favore! In realtà, la morte tanto temuta è quella spirituale più che quella materiale. Se si vuol vedere Dio bisogna prima morire, cioè far tacere la propria presunzione di sapere già tutto, di essere i possessori della verità, di poter arrivare a Dio con le sole proprie forze e di poterlo racchiudere entro formulette e schemi personalizzati da ostentare orgogliosamente al primo sprovveduto che capita. È necessario far tacere il “teologo” che è in noi e lasciare spazio al “neofita” fresco di conversione, che non ha vergogna di stare continuamente a bocca aperta come un ebete, felice di stupirsi di tutto. E il Signore, appunto, invita Elia ad uscire dalla caverna e a fermarsi “spoglio di tutto” alla sua presenza. Ed ecco, il Signore passò (1Re 19,11). Vento-terremoto-fuoco, segni stereotipi della teofania divina lungo l’arco della Storia della Salvezza: da Abramo a Mosè… fino a Gesù e all’esperienza della Pentecoste. Ma per Elia non sarà così. Lui vivrà qualcosa di diverso. Dio non si lascia incontrare chiedendoci di segnargli un appuntamento nella nostra agenda. No, l’appuntamento lo stabilisce lui, come-dove-quando vuole. Infatti, per ben tre volte si ripete: ma il Signore non era… (1Re 19,11-12). Dice a proposito s. Agostino, nel commento al salmo 85: “…pensa a quello che tu stesso pensi di Dio e ogni volta ripeti: Sì, ma Dio non è questo, Dio non è questo!…”.

Voce di un silenzio leggero che butta giù ogni nostra “costruzione” su Dio. È solo nel silenzio che Elia può “vedere”il Signore e stare veramente alla sua presenza. Nei segni grandiosi del vento, del terremoto e del fuoco Dio taceva, nell’umiltà del silenzio Dio parla e si rivela all’uomo che lo cerca, superando ogni sua aspettativa. Il Dio in cui crediamo non è un artista del circo che si presta ad affascinare il pubblico con esibizioni stupefacenti. No, egli vuole lasciarci “senza fiato”, anzi aspetta proprio che facciamo tacere tutto in noi e fuori di noi per poi mostrarsi personalmente, “a faccia a faccia”.

Elia si era arruolato tra le fila del “Dio degli eserciti” ed aveva condotto la sua vita e la sua missione in funzione di questo. Non aveva ancora capito di essere stato chiamato dalla voce di un silenzio leggero. Solo dopo questa forte esperienza il nostro profeta potrà ritornare sui suoi passi (1Re 19,15), consapevole di aver riconosciuto la presenza di Jahvèh nella sua vita e di trovarvisi dinanzi, di “stare”, nel senso di “avere consistenza-abitare-fermarsi-essere irremovibile”.

Spesso ci interroghiamo circa la presenza e la manifestazione di Dio nelle grandi circostanze della vita: eventi grandiosi, belli o brutti, personali o mondiali che ci stimolano a riflettere e ad avanzare supposizioni più o meno plausibili. Il più delle volte invece, in quello che comunemente chiamiamo “il banale quotidiano”, la vita ci scorre davanti e a malapena ci rendiamo conto di quello che succede intorno a noi. Questo è il nostro venticello leggero, il momento in cui risuona la voce: Esci e fermati alla presenza del Signore (1Re 19,11). Usciamo dal tram-tram monotono e fermiamoci anche solo per un momento per assistere ad un evento meraviglioso. Dio sta passando nella nostra vita e ci fa fare esperienza di lui.

 

Novembre / Dicembre 2006 - Anno X - n° 3

 


Sangue straniero nelle vene d'Israele

- quarta parte -

 

Con questo nostro incontro ci immergiamo in un libro della Scrittura tanto piccolo quanto bello e suggestivo: è il libro di Rut e si articola in vivaci scene della vita quotidiana di un dolce e nostalgico passato che l’autore stesso sembra aver quasi dimenticato, tanto da descriverlo con toni favolistici. Vi troviamo la campagna, la mietitura e un incontro fortuito che porterà alle nozze dei due protagonisti del racconto.

Al di là però del classico “C’era una volta” e del romantico “E vissero felici e contenti”, pure presenti, l’autore del libro di Rut vuole trasmetterci qualcosa di veramente significativo in quella che è la storia d’Israele. Proviamo a scoprirlo.

Siamo nel periodo che precede il sorgere della monarchia e una normalissima famiglia di Betlemme a causa della carestia è costretta ad emigrare nella vicina campagna di Moab (territorio straniero al di là dei confini d’Israele). Contrariamente a quanto prescrive la legge mosaica, i due figli degli emigrati sposano due donne moabite e, per questo, pagane. Ma tutto ciò non sembra affatto scandalizzare l’autore del nostro libro, che anzi se ne serve come di un particolare necessario su cui far leva per la “morale della favola”.

Ad un certo punto la svolta: muoiono il padre e i due figli, e Noemi rimane sola con le sue nuore. Avendo avuto notizia della fine della carestia nel proprio paese d’origine, decide di tornarvi per trascorrere gli ultimi anni nella terra che il Signore aveva donato al suo popolo. Congeda perciò le nuore, esortandole a rientrare nella casa paterna con la speranza di un nuovo e più fortunato matrimonio. Seppure con profondo dolore, Orpa lascia la suocera e ritorna al suo popolo e ai suoi dèi (1,15). Rut invece resiste quasi a dispetto della più che ragionevole insistenza della suocera, alla quale ormai si è legata e che non vuole assolutamente abbandonare. Rut è davvero “l’amica” (secondo l’etimologia del nome) che rimane al fianco di Noemi e alla quale restituirà la pienezza della gioia e di una vita significativa.

Decidendo di partire con la suocera, Rut accetta prima di tutto il suo credo, il suo Dio, le sue leggi, e lo fa con una bellissima professione di fede che altro non è se non la più espressiva formula di alleanza che sia mai stata pronunciata, tanto dal “vecchio” quanto dal “nuovo” Israele: Non insistere con me perché ti abbandoni e torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi separerà da te (1,16-17).

E Dio non tarderà a rispondere a questa sua fedele ancella.

Le due donne – specifica l’autore – arrivarono a Betlemme quando si cominciava a mietere l’orzo (1,22): così Rut si sottopone subito alla legge ebraica e, poiché vedova, accetta di sfamare sé e la suocera andando a spigolare per la campagna. È qui che incontra Booz, un parente della famiglia di suo marito, che venuto a conoscenza della storia di questa giovane donna le rivolge la benedizione di Jahvèh: Mi è stato riferito quanto hai fatto per tua suocera dopo la morte di tuo marito e come hai abbandonato tuo padre, tua madre e la tua patria per venire presso un popolo, che prima non conoscevi. Il Signore ti ripaghi quanto hai fatto e il tuo salario sia pieno da parte del Signore, Dio d’Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti (2,11-12). Essendo poi stata informata da Noemi circa la legge del levirato (una vedova senza figli sposa il parente più stretto del marito defunto per assicurargli una discendenza), Rut ne richiede essa stessa l’attuazione, con grande sorpresa e ammirazione da parte di Booz. Dall’unione nuziale nascerà Obed, padre di Iesse, padre di Davide (4,17).

Non c’è che dire: si tratta proprio di una romantica storia struggente. Chissà se le donne d’Israele la raccontavano – e la raccontano ancora – ai loro bambini per farli addormentare.

Tuttavia, se questa storia è incorporata nel Canone delle Scritture (cioè l’insieme di libri ritenuti divinamente ispirati e, dunque, “Parola di Dio”) avrà certamente un messaggio di spessore più elevato da trasmettere a chiunque si accosti alla sua lettura. Vediamo un po’.

Si parla subito di una terra straniera e perciò pagana: Moab per l’esattezza. Una terra ed un popolo odiati “a pelle” dagli ebrei, tanto da spenderci contro anche qualche legge: “L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità del Signore; nessuno dei loro discendenti, neppure alla decima generazione, entrerà nella comunità del Signore; non vi entreranno mai perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua nel vostro cammino quando uscivate dall’Egitto… Non cercherai né la loro pace, né la loro prosperità, finché tu viva, mai” (Dt 23,4-5.7). Eppure  Rut è una moabita che sposa un ebreo della tribù di Giuda, la tribù “regina” tra le dodici d’Israele, la tribù dalla quale nascerà il Messia, il liberatore del popolo (Gen 49, 8-10). Ma ancora più forte è la conclusione del libro: la moabita è mostrata quale antenata addirittura del grande re Davide, il re per eccellenza, il favorito di Jahvèh. Dunque, sangue straniero nelle vene d’Israele, nelle vene di un popolo che da sempre ha rivendicato per sé la purezza della fede e dei legami parentali. Israele: un popolo al quale è inesorabilmente “sbattuta in faccia” la verità, che cioè il suo sangue non è proprio del tutto “blu”. Anzi!

Ma questo – dicevo – non scandalizza affatto l’autore sacro e ce lo dimostra la sua simpatia quasi reverenziale nei confronti di Rut la quale, con la sua storia e soprattutto con la sua professione di fede, diventa l’emblema di ogni ebreo – ma anche di ogni cristiano – che sceglie di entrare in rapporto di Alleanza con Dio e che, per la sua risoluta decisione (Quando Noemi la vide così decisa ad accompagnarla…- Rt 1,18), riesce ad abbattere le barriere innalzate dalla legge.

Rut è una vera ebrea, figlia di un popolo al quale ha accettato di appartenere e del quale ha accolto la pienezza della sua realtà (credo religioso, tradizioni…). Con quale devoto e libero assenso si sottopone alla legge (forse un po’ umiliante) che permette alle vedove di spigolare tra le messi per il proprio sostentamento (con il pericolo legato ad una bellezza giovanile che non passa di certo inosservata – Rt 2,9). Ma, ancora, con quanta più dolce accondiscendenza accetta con amore un matrimonio imposto dal dovere: Stendi il lembo del tuo mantello sulla tua serva, perché tu hai il diritto di riscatto (3,9), dice a Booz, parente del marito defunto, fino a quel momento sconosciuto e per giunta più anziano di lei. Parole – quelle di Rut – non meno toccanti di quelle che Jahvèh ha pronunziato su Israele per bocca del profeta: “Passai vicino a te e ti vidi; ecco, la tua età era l’età dell’amore; io stesi il lembo del mio mantello su di te… giurai alleanza con te, dice il Signore Dio, e divenisti mia” (Ez 16,8). Nella tradizione semitica, stendere il mantello è una simbologia nuziale: con questo gesto l’uomo si impegna a proteggere la futura moglie, le dà un’identità oramai inscindibile dalla propria, fa con lei un’alleanza. Nella persona di Booz, ebreo della tribù di Giuda, è Dio stesso che giura Alleanza eterna anche con i pagani che accettano d’innestarsi nella radice santa che è Israele, il popolo eletto, erede e depositario della promesse divine (Rm 11,16-24). “Il popolo discendente da Abramo sarà il depositario della promessa fatta ai patriarchi, il popolo della elezione, chiamato a  preparare la ricomposizione, un giorno, nell’unità della Chiesa, di tutti i figli di Dio; questo popolo sarà la radice su cui verranno innestati i pagani diventati credenti” (CCC 60).

Non a caso è proprio Davide il “figlio” di questa Alleanza, perché è dalla discendenza di Davide che Dio susciterà il Messia, il suo Figlio e Servo obbediente, che restaurerà le sorti delle tribù d’Israele. Dio non ha paura di contaminarsi col sangue pagano. Tutt’altro! Nella sua sapienza al di là di ogni logica umana, Egli ha voluto che suo Figlio, nella successione dinastica,  nascesse da una donna pagana che diventa così, quasi paradossalmente, “madre di Dio” (Mt 1,1-16). Gesù stipulerà la Nuova ed Eterna Alleanza nel suo sangue, ed è significativo che in esso sia confluito quello del popolo ebraico e quello dei popoli pagani: la tradizione semitica ci insegna che dove c’è comunione di sangue c’è anche comunione di vita. “In Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo… per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo… e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo… i Gentili cioè sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere partecipi della promessa” (Ef 2,13-16; 3,6).

Nel Regno di Dio non occorre alcuna carta d’identità e non esiste alcun cavilloso procedimento burocratico per ottenerne la cittadinanza: la storia di Rut dimostra che Dio è il Dio di tutte le genti che in Abramo, in Isacco e in Giacobbe hanno riconosciuto la radice fondamentale del grande albero genealogico che ci fa tutti figli di un unico Padre e sua stirpe eletta. “In verità sto rendendomi conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto" (At 10,34-35).

 

Gennaio / Febbraio 2007 - Anno XI - n° 1

 


Il "servo" di jahvèh

- quinta parte -

 

Per chi ha dimestichezza con la Bibbia, il titolo di questo articolo richiama subito alla mente quella sezione del libro di Isaia che tratta dei quattro canti del servo del Signore (Is 42-53). Eppure, non è soltanto al grande profeta che intendo riferirmi perché nella Bibbia non c’è unicamente “quel” servo del Signore. A partire dal primo versetto del capitolo 42: Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio (Is 42,1) ha inizio un elenco interminabile di personaggi, maschili e femminili, che incarnano mirabilmente l’attributo di sottomissione.

Isaia afferma subito che il “servo” trova la sua sussistenza in Dio ed è oggetto della sua compiacenza, della sua predilezione e, molto più importante, della sua elezione. Jahvèh stesso lo rivendica come sua proprietà: è “mio”. Sappiamo che nell’antichità il padrone marchiava i propri servi per suggellarne l’appartenenza: erano suoi e nessuno poteva usurparne il diritto. D’altro canto, un uomo che si metteva al servizio di un potente, lo accettava come suo signore e gli prestava obbedienza fino alla morte. Anche il servo di Jahvèh porta il marchio: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza (Gen 1,26); e si sottopone alla sua signoria: Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto (Mt 4,10).

Ma chi è, propriamente, il servo di Jahvèh? Questa figura salvifica che presenta i tratti della sofferenza e dell’intercessione? Chi è questa figura che i cristiani vedono pienamente realizzata in Gesù di Nazaret: Messia, Figlio dell'uomo e Servo obbediente di Dio?

L’elenco, dicevamo, sarebbe infinito. La storia sacra ce ne da diverse descrizioni affermando così una verità indiscutibile: servo è colui che si mette al servizio di Dio, che lo accetta come suo Signore, che si considera come sua proprietà, che desidera onorarlo e amarlo con tutta la sua vita, colui che vuole liberamente obbedirgli e che in lui e da lui riconosce di avere sussistenza. Tutto questo perché sa di essere stato scelto e amato precedentemente e gratuitamente. In poche parole, il servo di Jahvèh è un uomo (nell’accezione più generale del termine) che, nella sua piena libertà, risponde con un assenso alla scelta-elezione previa da parte di Dio… e lo fa considerandosi suo servo, sua appartenenza.

Israele è, per eccellenza, il popolo-servo. Il termine “ebreo”, diventato nel tempo sinonimo di israelita con riferimento esplicito alla dimensione religiosa, in origine indicava la condizione di schiavitù subita in Egitto prima del grande Esodo. Con l’Alleanza nel deserto del Sinai e con l’arrivo  nella Terra Promessa, gli ebrei diventano servi, non più di un uomo potente (il faraone), bensì del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Una servitù che, per la comunanza della radice etimologica, si esprime nel culto, nell’adorazione e nell’obbedienza ai comandi divini. Tu, Israele mio servo, tu Giacobbe, che ho scelto… sei tu che io ho preso dall’estremità della terra… e ti ho detto: “Mio servo tu sei ti ho scelto”… io sono il tuo Dio (Is 41,8-10).

Dunque tutto il popolo, nella sua unità costitutiva, è servo di Dio. Tutto il popolo è chiamato a rendergli culto, cioè a “coltivare” un particolare rapporto di elezione-alleanza con il Dio dei suoi padri. Da ciò deduciamo che sin dalla creazione, Dio ha voluto che l’uomo, coltivando la terra affidatagli, rendesse culto al Creatore e ne riconoscesse così la signoria (cfr. Gen 2,15). Questo è così vero che nella Bibbia la ribellione al Signore è descritta come un terreno incolto, una natura selvatica: La vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele… Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue… La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni (Is 5, 6-7). Mentre il giardino coltivato, ossia il “paradiso”, diventa sinonimo di alleanza e di comunione intima con Jahvèh: Il mio diletto era sceso nel suo giardino fra le aiuole del balsamo a pascolare il gregge nei giardini e a cogliere gigli (Ct 6,2).

Ma non soltanto il popolo nella sua unitarietà è il servo di Jahvèh. Abramo alle Querce di Mamre e Lot alle porte della città di Sodoma incontrano gli inviati di Dio (nel linguaggio biblico rappresentano Dio stesso) e si dichiarano loro servitori. Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo… Miei signori, venite in casa del vostro servo… (Gen 18,3;19,2). Così anche Isacco, Giacobbe, Mosè, Giosuè, i sacerdoti e i profeti sono sempre appellati come tali dall’autore sacro o addirittura da Dio stesso: Io inviai a voi tutti i miei servitori, i profeti (Ger 7,25).

Se poi prendiamo in mano le pagine del libro di Isaia che ho citato all’inizio, vi leggiamo le più belle parole che il Signore abbia mai pronunciato rivolte al suo servo: Ho posto il mio spirito su di lui… ti ho preso per mano… ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni… tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo… io sono con te… il Signore ti ha fatto, ti ha formato e ti aiuta… non sarai dimenticato da me… ti ho disegnato sulle palme delle mie mani (Is 42,1.6;43,1.4-5;44,2.21;49,16).

Anche nel Nuovo Testamento ritroviamo la figura del servo: Maria, la madre del Signore (chiamata così da Elisabetta), non fa di questa predilezione un motivo di vanto. Anzi, preferisce identificarsi con un termine più consono al suo stato: Sono la serva del Signore… ha guardato l’umiltà della sua serva (Lc 1,38.48).

Giovanni Battista, il precursore, all’inizio della missione pubblica di Gesù è colui che si fa da parte, che “diminuisce” perché soltanto “lui” cresca (cfr. Gv 3,30).

Lo stesso Paolo apre le sue lettere definendosi servo di Cristo Gesù (Rm 1,1).

E dopo la Pentecoste, all’interno delle prime comunità cristiane (cfr. At 6,1-7) è istituita la “diakonìa”, un ministero che si fonda sul servizio, come insegna Gesù stesso (cfr. Gv 13, 1-14). I diaconi-servitori si occupavano della distribuzione delle elemosine e della amministrazione dei beni ecclesiastici.

Fin qui tutto normale. Ma se ad un certo punto si scambiassero i ruoli e fosse Dio il servo?

Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte (Fil 2,5-8).

All’inizio di questo articolo, abbiamo affermato che Gesù possiede tutte le caratteristiche del servo: ha il marchio del suo “padrone” (apparso in forma umana) e presta obbedienza fino alla morte. Il fatto stesso di poterlo chiamare per nome (lo chiamerai Gesù – Lc 1,31) indica la sua disponibilità a lasciarsi possedere dall’uomo (fino a quel momento infatti Dio non aveva mai rivelato il suo nome).

Gesù è il vero Servo di Dio che si fa anche servo dell’uomo. Egli è colui che è venuto per servire e non per essere servito (cfr. Mc 10,45) e lo fa fino al dono totale di sé al Padre e ai fratelli perché – e qui sta la novità del Servo di Jahvèh descritto dal profeta – nonostante la sofferenza che lo porta alla morte Gesù salva.

Ci sono due episodi emblematici e tra loro molto simili nella vita di Gesù, dai quali si evince questa realtà: subito dopo il battesimo al Giordano e al momento della Trasfigurazione si ode una voce dal cielo che dice: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto (Mt 3,17;17,5). Sono parole che riprendono letteralmente Isaia 42,1, ma, grazie al duplice significato del termine greco (pais) sostituiscono “servo” con “figlio”: Gesù è servo perché è figlio ed è figlio in quanto si è fatto servo.

Anche in Luca troviamo qualcosa di simile: il figlio prodigo, pentito, ritorna a casa e chiede al padre di poter essere trattato almeno come un servo, ma è accolto quale figlio, com’è realmente. Il fratello maggiore, invece, che rivendica il diritto di aver sempre servito fedelmente il padre, è da questi chiamato “figlio”, scoprendo così il valore autentico della sua identità (cfr. Lc 15,11-32).

Ricordiamo anche l’episodio della lavanda dei piedi narrata dal quarto Evangelista (cfr. Gv 13,1-20). Scrive s. Paolo ai Filippesi che, in quella occasione, Gesù si spogliò e umiliò se stesso, assumendo la condizione di servo chiedendo ai discepoli di seguire il suo esempio.

Ogni cristiano allora, se ha ben compreso a chi appartiene, è chiamato a servire imitando Colui che è il modello. E non si tratta di un servizio che umilia e spersonalizza. È invece un atto di amore gratuito, di piena libertà che si dona in un rapporto di reciproca comunione, a tal punto da sentirci dire: Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamati amici perché vi ho fatto conoscere (cioè vi ho fatto sperimentare in profondità) le cose del Padre mio (Gv 15,15). È a questo punto che si celebra la relazione interpersonale e, insieme al salmista, apriamo il dialogo con Dio rispondendo: Sì, io sono il tuo servo, Signore, io sono tuo servo, figlio della tua ancella (Sal 115,16).

 

Maggio / Giugno 2007 - Anno XI - n° 2

 


Un ribelle per Dio (1)

- sesta parte -

 

Continuiamo il nostro panorama biblico prendendo in esame un libro tanto piccolo quanto denso di messaggi teologici significativi: il libro di Giona. Esso è stato inserito tra i profeti minori anche se, vedremo, presenta delle caratteristiche tutte particolari. Si tratta di un libro che con la profezia in senso stretto, in realtà, a poco a che fare. È vero, c’è un oracolo che Dio consegna al suo messaggero perché lo faccia conoscere ai destinatari, ma il tutto acquista uno specifico sapore di ammaestramento del profeta stesso e, attraverso di lui, di quanti si pongono in certo qual modo al suo livello. Dunque un racconto didattico: più che un annuncio, vi è qui un insegnamento che Jahvèh vuole trasmettere e proprio a chi invece a sua volta avrebbe dovuto consegnarlo ad altri.

L’inizio è classico di qualunque altra vocazione profetica: Fu rivolta a Giona figlio di Amittai questa parola del Signore: Alzati, và a Ninive… (1,1-2); non lo è tuttavia il prosieguo. Infatti, continua subito con un eloquente “però”. Giona, come ogni chiamato che si rispetti, si alza e va… però per fuggire lontano dal Signore (1,3).

Se è vero che “il buongiorno si vede dal mattino”, ci si prospetta una lettura avvincente: Dio affida una “missione speciale” ad un uomo che in realtà gli si ribella sin dal primo momento. Insomma, un osso duro che certamente gli darà filo da torcere.

Ma qual è questa strana missione che provoca una tale reazione del nostro profeta? Và a Ninive e proclama che la loro malizia è salita fino a me (1,2). Tutto qui? Cosa c’è di tanto spaventoso da dovere scappar via? Primo: Ninive, capitale dell’Assiria, è il peggior nemico d’Israele (e quindi di Giona); è il terribile mostro che ha assoggettato il popolo con ogni crudeltà costringendolo all’esilio dalla Terra Promessa. Secondo: l’oracolo pronunciato da Jahvèh non è poi così innocuo come sembra. «Dì al tuo peggior nemico che io, Dio, sono a conoscenza di tutto il male che compie». Si direbbe una raffinata vendetta da parte del profeta che, a nome di Dio e dall’alto di tale pulpito, può sbattere in faccia al nemico tutti i suoi peccati e, puntando il dito, con fare altero può gridargli fino in fondo la sua colpevolezza. Ma non è così. In realtà nella Bibbia le minacce di Dio sono sempre un’offerta di salvezza, un invito alla conversione, una volontà di misericordia. Come un papà che sgrida severamente il figlio che ne ha combinata una delle sue, ma subito gli avvicina la guancia per farsi dare un bacio fragoroso come richiesta e accettazione di scuse. Insomma, Giona deve andare dal suo peggior nemico e dirgli: «se desisti dal male, Dio è pronto a perdonarti». E no, questo proprio no, è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Giona non è d’accordo e scappa via da un Dio che si fa mettere i piedi in faccia da un mucchietto di niniviti senza scrupoli. Ma che razza di Dio è quello che non riesce a fare vendetta del male subìto dal suo popolo? Non era stato forse proprio lui a giurare, in sede di Alleanza, che i nemici d’Israele li avrebbe considerati come suoi propri nemici?

Ormai al colmo della stizza, Giona comincia il suo cammino in discesa: scende a Giaffa per imbarcarsi e fuggire lontano dal Signore; scende nella stiva della nave; “scende” in un sonno profondo. Quella di Giona non è la naturale obiezione che, di primo acchito, ogni chiamato manifesta giudicandosi troppo piccolo per una missione tanto grande e speciale. No. Giona non si fa questi problemi. Lui pensa proprio di essere all’altezza di tale compito e non ha dubbi sulla sua riuscita. Ma è proprio questo che non vuole: il suo peggior nemico non deve convertirsi, non deve essere salvato. Lui ne ha sognato un destino tutto diverso: la distruzione. È la legge del taglione: il male va ripagato con la sua stessa moneta, alla pari. È questo un modo per denunciare e punire apertamente ogni sorta di male, per farne capire l’entità. Dio deve fare vendetta per manifestare le colpe di Ninive, non può soprassedere: è una questione di giustizia. La giustizia di Dio invece è molto diversa e si chiama perdono.

Giona quindi scende sempre più in fondo al suo radicale rifiuto di Dio e della sua misericordia. Non vuole proprio sentirne parlare.

Dio però non molla e vuole dare una lezione al suo profeta. Recita l’orante del Sal 138: “Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza? Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli inferi, eccoti”. Non c’è luogo dove il profeta possa nascondersi.

Dio scatena una tempesta spaventosa. I marinai, pagani, invocano ognuno la propria divinità per propiziarsene i favori. Il profeta di Jahvèh invece non prega ma dorme. Viene riportato alla realtà proprio dai marinai pagani che lo sollecitano a svegliarsi e a pregare. Gettano le sorti per sapere chi è il colpevole di tanto male e, non a caso, cadono proprio su Giona. Alla richiesta di spiegazioni egli risponde prontamente: Sono Ebreo e venero il Signore Dio del cielo, il quale ha fatto il mare e la terra (1,9). Una risposta non molto esatta in verità. Anziché “venero”, avrebbe dovuto dire “fuggo, rifiuto”. Sorprende però che il profeta, nel parlare di sé, fa subito riferimento a Dio. Nonostante tutte le resistenze, egli non può fare a meno di professare la sua fede che rivela in filigrana la sua vera identità. Trovato il colpevole non resta che buttarlo in mare per placarne la furia. A questo punto i marinai si convertono al Dio di Giona, mentre questi tocca il fondo di tutta la sua vicenda. Dio manda un grosso pesce che inghiotte il profeta per tre giorni e tre notti. Da quel particolare rifugio sottomarino egli eleva (finalmente!) la sua preghiera. Ma aspettiamo prima di cantar vittoria.

Il Signore, ancora una volta, comanda e il pesce libera Giona.

Chissà se tutto questo gli è servito per imparare la lezione. Riavvolgiamo il nastro e ricominciamo da capo: forse è la volta buona.

 

(continua nel prossimo articolo)

 

Luglio / Agosto 2007 - Anno XI - n° 3

 


Un ribelle per Dio (2)

- settima parte -

 

(continua dal articolo precedente)

 

Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore. Alzati, và a Ninive… Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore (3,1-3). Ce l’abbiamo fatta, possiamo essere soddisfatti. Giona comincia a percorrere la grande città pronunziando il famoso oracolo.

Colpo di scena: non ha ancora terminato il suo giro che già ne raccoglie i frutti. I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno… dal più grande al più piccolo… fino al re di Ninive (3,5-6). E naturalmente Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece (3,10). Tutto è bene quel che finisce bene.

Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu indispettito (4,1).

Ci risiamo un’altra volta. Che delusione: tanta fatica per niente. Certo però che non si è mai vista una persona che non prova soddisfazione per un suo successo, ma che anzi se ne indispettisce come un bambino capriccioso.

Giona fa la sua bella lamentela al Signore. Finalmente ha il coraggio di ammettere apertamente la verità: non tollera la misericordia di Dio verso i peccatori (ma forse non lo è anche lui? Magari non lo sa) e per questo era fuggito via, proprio per non essere complice di perdono e di salvezza.

Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere! (4,3). Ormai ha davvero toccato il fondo e il Signore glielo fa prontamente notare: Ti sembra giusto essere sdegnato così? (4,4). Permaloso qual è, neanche risponde, ma esce dalla città e sta a guardare da lontano cosa succede.

Anche questa volta Dio non perde l’occasione per fargli capire che sta sbagliando: gli fa crescere vicino una pianta di ricino perché gli faccia ombra e Giona ne gode immensamente. Dopo un po’ però Dio manda un verme a rodere il ricino e questo si secca. Fa poi soffiare un vento afoso fino a far star male Giona e a portarlo a dire: Meglio per me morire che vivere (4,8). E ancora Dio: Ti sembra giusto essere così sdegnato per una pianta di ricino? (4,9). E finalmente Giona risponde: Si, è giusto; ne sono così sdegnato al punto da invocare la morte! (4,9). Che tipo: non si sarebbe lasciato minimamente scalfire dalla distruzione di un intero popolo, anzi, e invece arriva al punto di disprezzare la sua stessa vita, pur di non perdere il sollievo procurato da una semplicissima pianta.

La vicenda si conclude - effetto sorpresa - con una domanda aperta rivolta da Dio al suo profeta e, in lui, a ciascuno di noi: Tu ti dai pena per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica… e io non dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra? (4,10-11). Dio sta cercando di far riflettere il suo uomo, vuole che apra il cuore e si lasci guidare dalla legge dell’amore che porta a compimento quella antica, fatta di prescrizioni e doveri che induriscono gli animi. Infatti, qualche secolo dopo, all’obiezione dei farisei sulla validità della Legge (“Perché allora Mosè ha ordinato…?” - Mt 19,7), Gesù risponde con semplicità e fermezza: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso…” (Mt 19,8).

Dio ha voluto far conoscere a Giona, per via esperienziale, la sua misericordia, la sua tenerezza e premura (lo ha salvato dal mare e dal grosso pesce e gli ha dato l’ombra fresca di una pianta) ed egli ne ha goduto; non ha saputo però fare altrettanto e, proprio per questo, da vittima di un crudele nemico si trasforma a sua volta in carnefice e aguzzino. Giona non riesce a capire questo Dio che pure dice di venerare e servire, non lo conosce veramente, per questo fugge via dinanzi ad una chiamata che lo sconcerta, anzi lo scandalizza. Giona non prega, non riesce a dire: sia fatta la tua volontà… rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo… Giona è tristemente ripiegato su se stesso, sul suo male e sul suo bene e non vede al di là dei suoi interessi. Il suo nome in ebraico significa “colomba”, l’animale sacro proprio per gli abitanti di Ninive e, per tutti, simbolo della pace e dell’amore. In questa vicenda però la nostra colomba non riesce a spiccare il volo al di sopra della vendetta e della condanna. Una colomba testardamente aggrappata al suo ricino che ormai non c’è più e che, proprio per questo, non sa portare agli uomini un emblematico ramoscello d’ulivo.

La storia di Giona evidenzia molto bene la contrapposizione tra un chiamato che si ribella e oppone rifiuto e una serie di “personaggi pagani” che invece sanno obbedire a Jahvèh. I marinai, i niniviti e i loro animali, il grosso pesce, il verme e… soprattutto la creazione stessa, cioè il mare, il ricino, il vento afoso. Come nella Genesi, ogni realtà creata obbedisce alla parola di Dio e attua ciò che essa significa. Solamente l’uomo, che Dio ha plasmato perché sia suo amico, non sa mettersi al suo giusto posto e giudica secondo le sue corte vedute: un albero “buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile” (Gen 3,6) fa presto dimenticare l’ammonimento divino; Ninive, la grande città malvagia e assassina, merita soltanto di essere distrutta affinché sia fatta giustizia.

Tuttavia, nonostante il netto rifiuto, Giona porta avanti la sua missione, realizzando così pienamente la sua vocazione e perciò la sua vera identità. Egli è profeta e dovunque possa scappare, anche in capo al mondo, non potrà fare a meno di portarsi dietro se stesso e la sua realtà. Egli è l’uomo chiamato da Dio ad annunciare e offrire il suo perdono e il suo amore. Non si tratta però di un perdono frutto di un ingenuo buonismo. Qui si parla di perdono vero, quello che non minimizza la colpa, ma che anzi la condanna apertamente. Il male c’è e deve essere superato e distrutto. Questo può farlo solamente chi è vittima innocente: Dio nel suo Figlio Gesù. Per questo, nei secoli dei secoli, egli è l’unico in grado di dare il perdono che salva, che riscatta la vita di chi ha sbagliato offrendogli una nuova possibilità, una nuova esistenza. Chi commette un male, molto spesso non si rende realmente conto del grave danno che provoca, è come quei centoventimila niniviti che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra. “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” invoca Gesù dalla croce (Lc 23,34).

È stata davvero una lettura avvincente, proprio come dicevamo all’inizio di questo lungo viaggio in compagnia del profeta Giona.

Permettetemi in finale una postilla: non facciamo il suo stesso errore giudicandolo troppo male. Egli è stato figlio del suo tempo e delle sue tradizioni. Era normale per un Israelita parlare di giustizia in termini di vendetta. Attenzione però: non si trattava di vendetta cieca e feroce. La pena era sempre proporzionata alla colpa, né più né meno (e questo era già un grosso passo avanti). In secondo luogo, la vendetta era molto spesso riservata a Dio. Difficilmente si assisteva al classico “Mezzogiorno di fuoco” del Far West, né vi erano lotte tra cosche rivali perché si lasciava a Dio il compito di prendersi cura del suo popolo e di punirne i nemici. In Giona c’è ognuno di noi, bambino capriccioso incapace di gioire del bene degli altri, incapace di cambiare pagina e cominciare una nuova storia senza dover necessariamente tornare a sbirciare qua e là nel passato, alla ricerca di chissà quale brutto scheletro.

 

Ottobre / Novembre 2007 - Anno XI - n° 4

 


Sentiero a nord-est

- ottava parte -

 

“All’inizio del cammin di nostra vita ci ritrovammo per un deserto, chè la diritta via ci era oscura”.

Parafrasando il grande poeta Dante, così avrebbe potuto esprimersi ciascun israelita che avesse dovuto raccontare la sua storia di “popolo”.

Nell’ampia letteratura di ogni epoca e di ogni nazione, la vita è sempre stata paragonata ad un cammino. Più o meno lungo, più o meno faticoso, più o meno ricco di esperienze significative, più o meno consapevole della meta alla quale giungere, pur tuttavia un cammino, un percorso lungo un sentiero preciso e specifico per ciascuna persona.

La Sacra Scrittura ci narra del grande cammino del popolo d’Israele, un cammino caratterizzato da diverse tappe significative.

Israele è un popolo da sempre nomade: per condizione (pastori che vivono in un territorio prevalentemente desertico, costretti quindi a spostarsi continuamente in cerca di pascoli) e per costrizione (frequenti periodi di carestia che inevitabilmente richiedono la migrazione verso zone più ricche; l’esodo dalla schiavitù egiziana; la deportazione e il rientro dall’esilio; la diaspora-dispersione nelle regioni più remote). Proprio a causa di questo continuo movimento, Israele non conosce nella sua lingua - e nella sua vita - il termine e il concetto di “rimanere”. Siamo di fronte ad un popolo che è sempre in cammino, che non ha stabilità né una fissa dimora. Un popolo costretto ed abituato a vivere nelle tende, a piantarle e a levarle di volta in volta, di luogo in luogo. Un popolo che comincia a sentirsi veramente tale solo quando - spoglio di tutto, senza provviste, senza itinerario, senza scorte armate - intraprende un nuovo cammino, non più spinto da necessità materiali, bensì attratto da un invito e da una promessa da parte di Dio, il Dio dei suoi padri. Comincia così un cammino che dura quarant’anni, cioè tutto il tempo necessario affinché Israele capisca di essere il popolo di Dio, di essere stato scelto da lui tra tutti gli altri e di appartenergli in modo speciale. Ci troviamo naturalmente all’interno del grande evento dell’Esodo dall’Egitto verso la Terra Promessa. In mezzo però c’è il lungo cammino nel deserto. Un cammino ed un tempo (40 anni) che non vogliono alcuna fretta - nonostante l’incalzare dei nemici alle calcagna - ma calma, pazienza, un ritmo lento e cadenzato che permetta di camminare uniti, di aspettarsi l’un l’altro. Occorre l’amore per chi è al proprio fianco, così da camminare al passo dei bambini e del bestiame che non consentono fughe né scorciatoie, perché non ci si salva da soli… se veramente si è “popolo”: Gli Israeliti partirono da Ramses alla volta di Succot, in numero di seicentomila uomini capaci di camminare, senza contare i bambini. Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con loro e insieme greggi e armenti in gran numero (Es 12,37-38; cfr. anche Gen 33,14). In questo difficile percorso Israele sperimenta più volte sulla sua pelle la pressante tentazione di pretendere garanzie, di voler arrivare subito, di veder accorciare le distanze, di camminare sicuro senza inciampi né difficoltà. Ma il Signore, per bocca di Mosè, lo invita continuamente a fidarsi e ad affidarsi, a non cedere per via e ad accettare la lenta e faticosa marcia di avanzamento. Non si può, al primo ostacolo, abbandonare l’impresa, scuotere le spalle e fare marcia indietro: Gli Israeliti ripresero a lamentarsi e a dire: «Chi ci potrà dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio… » (Nm 11,4-5). Il popolo rimpiange le cipolle d’Egitto, il duro pane della schiavitù, quando invece sperimenta giorno per giorno la premura di un Dio che provvede a sfamarlo e a dissetarlo con doni del cielo: la manna, le quaglie e l’acqua dalla roccia. E all’orizzonte - lontano ma pur reale - una terra dove scorre latte e miele… un paese del quale il Signore tuo Dio ha cura e sul quale si posano gli occhi del Signore tuo Dio dal principio dell’anno sino alla fine (Dt 11,9.12). Nel cuore di Israele c’è però buio e avanza tremendamente il dubbio; il cammino sembra procedere verso l’ignoto e forse verso l’inesistente: sarà poi vero che esiste questa Terra Promessa? E se esiste, forse non ci arriverò mai, morirò prima… e allora, perché tanta fatica? È il deserto, fisico e spirituale. Ma è proprio in questo lento peregrinare che il popolo ha tutto il tempo di riflettere, di ripensare alla sua vita, alla sua storia: Ricordati di quello che il Signore tuo Dio fece al faraone e a tutti gli Egiziani; ricordati delle grandi prove che hai viste con gli occhi, dei segni, dei prodigi, della mano potente e del braccio teso, con cui il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire… Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti ha fatto percorrere… Ricordati, non dimenticare… (Dt 7-9). Ricordare, cioè “conservare nel cuore” - come Maria -, gli eventi salvifici della propria vita: luoghi nei quali Dio si è fatto presente e operante, luoghi abitati dalla sua volontà d’amore e perciò benedetti.

La strada tuttavia è lunga - forse anche troppo - e il popolo ha la sensazione di girare e rigirare su se stesso, come un cane che si morde la coda, e crede che Dio lo stia ingannando per farlo perdere nel deserto. In realtà Israele è chiamato a vivere l’esperienza del “lasciarsi fare”, lasciarsi portare da Dio e proprio per la strada che solo lui conosce: la strada migliore, forse la più lunga, ma sicuramente la più giusta. La strada lungo la quale Dio incontrerà Israele e Israele incontrerà Dio in un’Alleanza eterna, la strada che porta alla Terra Promessa.

Ho intitolato quest’articolo “Sentiero a Nord-Est” riallacciandomi al Corso formativo di quest’anno. Il nostro percorso umano-spirituale lungo un sentiero a nord-est è lo stesso di quello del popolo ebraico: uscendo dall’Egitto il popolo si è diretto verso est per poi andare a nord verso la Terra di Canaan. L’est, dove sorge il sole che illumina il cammino, è Gesù, Via e Luce del mondo; il nord, dove di notte la stella polare indica la direzione giusta, è il Padre che guida i nostri passi ed è la meta del nostro andare e del nostro vivere. Giorno e notte Dio era presente in mezzo al popolo e lo guidava attraverso il deserto con una colonna di nube e di fuoco: Il Signore tuo Dio ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino che avete fatto (Dt 1,31). Giorno e notte Dio è presente nella nostra vita, la abita e - se ci lasciamo fare - ci guida sulla via da percorrere. Ciascuno di noi ha il suo sentiero sul quale incamminarsi, purchè l’ago della bussola punti sempre a nord-est e si rispettino determinate condizioni: bisogna intraprendere il viaggio spogliandosi di tutto ciò che è inutile e che anzi ci appesantisce (le ansie, le preoccupazioni, la corsa contro il tempo). Non ci sono scorciatoie, niente che possa abbreviare le distanze, perché il cammino della vita dura appunto tutta una vita. Occorre perciò camminare lentamente, “al passo dei bambini e del bestiame” che sono in noi, senza fretta, per avere tutto il tempo necessario per prendere consapevolezza di se stessi e della propria vita. Solo procedendo lentamente, infatti, si riescono a notare anche le più piccole tracce che  Dio lascia sul nostro sentiero, i suoi più piccoli interventi, proprio quelli che ad un occhio distratto e superficiale potrebbero sembrare insignificanti e casuali. Il Signore ci vuole “passeggiatori e non corridori della vita”, proprio come lui che alla brezza del giorno della creazione si dilettava a passeggiare nel giardino, magari in compagnia dell’uomo (cfr. Gen 3,8). E quando poi ci sembra di girare e rigirare a vuoto e faticosamente, è proprio lì che dobbiamo saper vedere la mano di Dio che ci sta misteriosamente portando all’incontro con lui… nella pazienza di un cammino, ma anche nella fedeltà ad un cammino che lenisce le ferite ai nostri piedi stanchi spalancandoci l’ingresso ad una terra dove scorrono un latte ed un miele che sanno di cielo e che ci fanno benedire quel giorno nel quale abbiamo avuto il coraggio di levare la tenda dal suolo delle nostre schiavitù e di addentrarci in un sentiero sconosciuto dietro la guida di un sole che sorge dall’alto e di una stella che brilla nella notte.

 

Gennaio / Febbraio 2008 - Anno XII - n° 1

 


La casa di Dio

- nona parte -

 

Incontriamo questa volta un nuovo personaggio della Storia sacra, uno degli antichi patriarchi, proprio quello che diventerà il capostipite del popolo d’Israele: Giacobbe.

Egli è figlio, insieme al suo gemello Esaù, di Isacco e Rebecca. Molto più scaltro del fratello fin dal seno materno (cfr. Gen 25,19ss.), riuscirà a sottrargli con inganno ogni benedizione riservata al figlio primogenito (gemelli sì ma, essendo stati partoriti uno alla volta, il primogenito fu Esaù). Cosa volete che sia ad esempio un bel piatto di lenticchie fumanti e gustose? Niente, per chi rientra a casa dopo una lauta cena con gli amici. Ma per Esaù, che ritorna sfinito dal lavoro nei campi, può addirittura valere il diritto di primogenitura (cioè una speciale benedizione divina, il primato sugli altri fratelli, la prosperità e ogni sorta di bene), che egli cede grossolanamente al fratello (cfr. Gen 25,29ss.). Per non parlare poi del “gioco sporco” col quale la cara mamma Rebecca (tipica donna “mediterranea”) e il suo figlioletto preferito Giacobbe mettono spalle al muro l’anziano e cieco padre Isacco e il poco accorto fratello Esaù (cfr. Gen 27,1ss.). Scacco matto: per Esaù che non può più sperare in nessuna seppur minima benedizione, ma anche per Giacobbe che si ritrova con una bella “taglia sulla testa”, perseguitato dal fratello ormai al colmo della sopportazione. A Giacobbe non resta che fuggire il più lontano possibile. Siccome però non può passare da vigliacco, mamma Rebecca gli trova una scusa perfetta: è ormai tempo che Giacobbe prenda moglie, non però tra le donne del luogo - di religione pagana - bensì tra quelle che appartengono al loro grande clan familiare. Così Giacobbe parte e si dirige verso il paese natale della madre, per prendersi una moglie tra le sue cugine: Giacobbe partì da Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un luogo, dove passò la notte, perché il sole era tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale e si coricò in quel luogo. Fece un sogno…(Gen 28,10-12). Giacobbe, prosegue il racconto, sogna una scala poggiata sulla terra, la cui cima tocca il cielo e una schiera di angeli che vi salgono e vi scendono. Poi gli si presenta anche Dio, il Dio dei suoi padri Abramo e Isacco e rinnova, per lui e in lui, l’Alleanza e le promesse già fatte ad Abramo (la benedizione, la discendenza numerosa, la promessa della terra, la protezione divina). Giacobbe si sveglia, capisce che Dio gli ha parlato veramente in quel luogo e che esso è “casa di Dio”, perciò lo chiama Betel. Consacra quel luogo al Signore ungendo la pietra sulla quale si era coricato e aveva sognato e finalmente fa anche lui alleanza con Dio.

Il sogno, nella tradizione religiosa di ogni tempo e soprattutto in quella biblica, è sempre indice di una teofania, cioè di una particolare manifestazione di Dio e della sua volontà all’uomo. La Sacra Scrittura, dal primo libro della Genesi all’ultimo dell’Apocalisse, è piena di sogni teofanici importantissimi. Il sogno però è anche una delle realtà più naturali nella vita concreta dell’uomo: si sogna sempre, tutte le notti. Si sogna anche se non ci si ricorda di averlo fatto. Si sogna senza esserne coscienti di farlo: infatti bisogna sempre attendere di svegliarsi per sapere di aver sognato. Dio è così, è come il sogno. La sua teofania più usuale è proprio quella di irrompere nella storia dell’uomo attraverso i fatti spiccioli della sua vita. Fatti spiccioli che però diventano “e-venti”, cioè luoghi nei quali si attua la “venuta” di Dio. Così come il sogno, Dio arriva… sempre. Al nostro risveglio però, cioè nella gestione pratica della nostra vita, possono accadere due cose differenti. Uno: potremmo non ricordarci di aver sognato, cioè di aver ricevuto una “visita” da parte di Dio, e fare le nostre cose come se non fosse mai successo niente. Due: come Giacobbe, potremmo accorgerci di essere diventati protagonisti di una storia straordinaria. Quale? Un bel giorno ci svegliamo con un chiodo fisso: quella strana scala che abbiamo sognato, avvolta da una luce soffusa, affollata di angeli che vanno in su e in giù. Scrolliamo la testa, ancora mezzo assonnati, mettiamo su il caffé (d’obbligo per un italiano d.o.c.) e apriamo la porta di casa per prendere una boccata d’aria. Caschiamo indietro di botto: giusto il posto del polveroso zerbino e quella scala che avevamo sognato è proprio lì, davanti ai nostri occhi sgranati e increduli. Da quella scala arrivano alcuni angeli che portano in braccio un Bambino appena nato e lo lasciano a noi, chiedendoci di averne cura…

Nella simbologia biblica la scala rappresenta l’incontro-unione tra il cielo e la terra, tra Dio e l’uomo. Ricordiamo l’episodio della torre di Babele (la famosa Ziqqurat mesopotamica, una piramide a gradoni) con la quale gli uomini volevano superbamente raggiungere il cielo (cfr. Gen 11). Nel sogno di Giacobbe, però, e nel nostro sogno-realtà, la scala non è una nostra arrogante costruzione, ma è un’iniziativa di Dio che vuole venirci incontro. È la sua Incarnazione nella nostra vita. Per questa scala, che è Gesù fatto uomo, Dio scende verso di noi e fa sì che noi saliamo verso di lui. Da questa scala Dio si fa presente a Giacobbe e a noi: egli è il Dio dei nostri padri, della nostra storia. Oggi però vuole diventare il nostro Dio, il Dio di Giacobbe, il mio Dio. Ecco il Signore gli stava davanti e disse: «Io sono il Signore, il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco… Ecco io sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai… non ti abbandonerò senza aver fatto tutto quello che t’ho detto» (Gen 28,13.15). queste parole Dio le rivolge a ciascuno di noi attraverso suo figlio Gesù: io sono con te, io sono l’Emmanuele, io sono il Dio della tua vita, il Dio che vuole farsi carne in te. Facendosi carne, Dio vuole instaurare un rapporto personale con me, con te. Mi chiede di riservargli un posto nella mia storia, di fargliela abitare, affinché diventi la sua nuova casa, la sua Betel (che in ebraico vuol dire “casa di Dio”). Come ha fatto Maria, la prima Betel di carne per un Dio che si fa carne, grembo fecondo di colui che è la Vita.

È vero, siamo in Quaresima e parlare dell’Incarnazione può sembrare un po’ “fuori stagione”. Natale e Pasqua sono però i due risvolti di uno stesso mistero: non ci può essere l’uno senza l’altra e viceversa. Incarnazione e Croce sono come due scale di Giacobbe ben piantate a terra (Dio si fa uomo e soffre da vero uomo), ma con la cima incollata in cielo (l’uomo Gesù è l’Unigenito Figlio del Padre). Solo passando per queste due scale l’uomo può fare una vera esperienza di Dio e di se stesso. Ogni piolo o gradino gli svelerà una parte del grande mistero di Alleanza che intesse la storia e, come in uno specchio, vi vedrà riflessa la sua stessa vita.

Da quando quella mattina ci siamo svegliati e abbiamo visto la scala davanti alla porta di casa, la nostra vita è cambiata, non è stata più la stessa (per questo Giacobbe ha voluto cambiare il nome di quel luogo). Da quando quel Bambino è stato affidato alle nostre cure e da quando poi le sue braccia adulte si sono allargate sulla croce per noi… non è più lo stesso, non può più esserlo. In quel momento ci siamo sentiti chiamare per nome, per essere coinvolti in un rapporto unico e personale. Ci si chiede di salire quella scala, gradino dopo gradino. Non dobbiamo però immaginare chissà quale grande e straordinaria cosa. Ho scritto all’inizio, infatti, che Dio ci si presenta nei fatti spiccioli della nostra vita, nelle cose di tutti i giorni: in quella sveglia che al mattino vorremmo tanto non sentire, in quel semaforo rosso che ci fa impazientire, nella gioia di rientrare a casa dopo una lunga giornata di lavoro… Quella sveglia, quel semaforo, quel rientrare a casa (e quanto altro ancora) diventano una nuova Betel, un luogo in cui posso fare esperienza di Dio. E allora? E allora: mi alzo e ungo quel luogo, cioè lo riconosco come sacro, lo chiamo con un nome nuovo, cioè da oggi lo guardo con occhi diversi e… faccio questo voto: «Se Dio sarà con me e mi proteggerà… il Signore sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretta come stele (la sveglia, il semaforo…), sarà una casa di Dio…» (Gen 28,20-22).

Gradino dopo gradino: proviamo a chi arriva prima?

 

Maggio / Aprile 2008 - Anno XII - n° 2

 


Fedeltà nelle avversità (1)

- decima parte -

 

Nella vita basta un attimo e cambia tutto, si capovolgono le carte in tavola e comincia un altro gioco dove, da un momento all’altro, puoi ritrovarti “vincente o perdente” come si trattasse della stessa cosa.

Chi non conosce la storia di Giobbe? Uomo fedele a Dio che d’un tratto, quasi per un meschino capriccio della corte celeste, si ritrova spoglio di tutti i suoi averi, privato dei suoi figli e colpito nel suo stesso corpo. Deriso dalla moglie arcigna e dagli amici “teologi”, intenta un processo a quel Dio che, beffardo, ha ripagato amaramente la sua ossequiosa fedeltà. Messo spalle al muro e riconosciuta la sua sciocca presunzione, si rimette al progetto d’amore di Dio, del quale pure ignora le “mosse vincenti” nel grande gioco della vita, e viene ripagato oltre misura e oltre ogni misero calcolo di dare e avere.

C’era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe…(Gb 1,1): sembra proprio l’inizio di una fiaba e forse, in un certo senso, lo era per gli ebrei. Il prologo e l’epilogo di questo libro infatti non sono che un antico racconto popolare tramandato di bocca in bocca, di padre in figlio. Solamente più tardi si è giunti a svilupparlo secondo un messaggio chiaro e ben definito. La redazione finale risale al V-III sec. a.C. quando il popolo, rientrato dall’amaro esilio babilonese e ormai pago a casa sua, comincia ad interrogarsi circa il destino dell’individuo ed il senso ultimo della sofferenza. È la cosiddetta riflessione sapienziale, che vuole scandagliare il mistero della creazione, dell’uomo e, non ultimo, di Dio. In questa cornice risalta pressante la teoria della retribuzione: Dio premia l’uomo giusto e fedele assicurandogli il benessere in tutti gli aspetti della sua vita; mentre invece punisce il peccatore infliggendogli una crudele, ma pur giusta e doverosa, sofferenza. Quanto mai attuale è in noi questo modo di pensare, quanti Giobbe ci camminano a fianco: gente disgraziata che nella vita non fa che accumulare sventura su sventura, dolore su altro dolore. E nel buio della sofferenza risuona un grido amaro: perché proprio a me? Cosa ho fatto di male per meritare tutto questo? Il nostro Giobbe si fa voce di questi interrogativi e nelle ultime pagine del libro ci aiuta a trovare la risposta giusta, l’unica: l’abbandono fiducioso nelle mani provvidenti di Dio.

Ma andiamo con ordine.

Nella terra di Uz, luogo in realtà sconosciuto e per questo paradigma della “città dell’uomo”, vive un certo Giobbe: uomo integro e retto, temeva Dio ed era alieno dal male (1,1). Con questi requisiti egli è l’emblema della perfezione, ricompensato dal Signore (ecco qui la teoria della retribuzione) con la ricchezza, il benessere e una numerosa famiglia che vive in pace in armonia. Non a caso il numero dei figli e dei possedimenti di Giobbe è dieci o un suo multiplo, ossia la totalità. Insomma: quest’uomo era il più grande fra tutti i figli d’oriente (1,3).

Ma ad un tratto c’è un colpo di scena: nella “città di Dio” i membri della corte celeste si riuniscono in consiglio e anche satana andò in mezzo a loro (1,6). Satana in Paradiso, com’è possibile? Niente panico, non si tratta del diavoletto con corna e forcone. Non è infatti Satana (con l’iniziale maiuscola), bensì il satana, cioè una specie di avversario o di spia (quasi un guastafeste) che si diverte a stuzzicare Dio a danno dell’ignaro Giobbe: egli è fedele al Signore solo perché ne riceve in cambio ricchezza e benessere. Ma stendi un poco la mano e tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia! (1, 11). E iniziano le prove, amare più del fiele. In un crescendo di notizie tragiche, la vita e la felicità di Giobbe precipitano inesorabilmente in un baratro che non ha fondo. Arriva un primo messaggero ad annunciare la prima disgrazia e poi, quasi a voler rigirare il coltello nella piaga, la conclusione: sono scampato io solo che ti racconto questo (1,15). E chi sei tu per essere scampato a tanto male, perché tu e non io che sono sempre stato giusto e fedele? E poi subito, quasi a non lasciar fiato: mentr’egli ancora parlava, entrò un altro… (1,16). Questo strazio per ben quattro volte (è il numero della totalità dei mali) fino alla notizia che nessuno vorrebbe mai udire: la morte tragica e violenta dei propri figli, tutti i figli.

Mi è capitato più volte, purtroppo, di sentirmi dire: “la cosa peggiore per un genitore è quella di sopravvivere al proprio figlio”. Ed in quel momento, tu che ascolti quell’amara confidenza puoi soltanto tacere custodendo con geloso rispetto quel grido di dolore che strazia anche le orecchie più insensibili.

Prima di mettermi a scrivere quest’articolo su Giobbe ci ho riflettuto abbondantemente sopra e per lungo tempo ho avuto la forte tentazione di scappar via, di non prendere in mano la penna che mi avrebbe inchiodata ad un’umiliante verità: cosa penso di poter dire io, come oso pronunciarmi riguardo a cose che non ho sperimentato sulla mia pelle e che quindi sono per me “concetti”, riflessioni e non vita vissuta? Troppo grande per me! Temevo di sentirmi dire: “si fa presto a scrivere, a buttar giù belle frasi con parole che sembrano piovere dal cielo, ma la verità è un’altra. Cresci e lo scoprirai”. Nel frattempo però (in questa continua lotta tra il voler fuggire e il voler tuttavia rimanere) ho incontrato e conosciuto personalmente Giobbe nel volto di famiglie (alcune a me particolarmente vicine) che vivono momenti forti di prova, colpite e purtroppo a volte anche private dei loro membri più giovani e indifesi. Profondamente toccata, interrogata ed edificata dalla loro esperienza di vita, mi sono finalmente decisa - penna e coraggio in mano - a balbettare qualcosa con la mia voce timida e tremula. Non pretendo di saperla tutta, anzi non ne so proprio niente, ma cercherò di far parlare il cuore sperando di riuscirci il più possibile.

Ritorniamo al nostro racconto biblico. Giobbe ha perso quanto aveva di più caro. Gli rimangono soltanto le lacrime. Ma pur nel dolore si apre a Dio: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore! (1,21).

Si aggiorna la seduta della corte celeste e Dio fa notare al satana di aver preso un abbaglio: Giobbe è ancor saldo nella sua integrità (2,3). E il satana, non ancora pago, incalza: tutto quanto ha, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia! (2,4-5). Giobbe viene così colpito con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo (2,7). Qui interviene la moglie, forse inasprita dalla tragica perdita dei figli, a ridicolizzare l’integrità del marito che risponde: Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male? (2,10). Queste ultime parole e le prime (cfr.1,21) mi fanno pensare a ciò che anche i “miei Giobbe” hanno più volte detto nella loro esperienza di dolore: “se il Signore ha permesso questo c’è sicuramente un motivo più grande ed egli ci dà la forza per viverlo, anche se con fatica”. E incassi in silenzio il colpo, imparando la lezione che non sei tu a dover dare conforto, ma sono loro ad insegnarti chi è Dio, qualora credessi già di saperlo. Risuonano le parole di Giobbe di fronte alla maestà e al mistero di Dio e del suo agire nella storia degli uomini: io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (42,5-6).

(Continua nel prossimo articolo) 

 

Agosto / Settembre 2008 - Anno XII - n° 3

 


Fedeltà nelle avversità (2)

- undicesima parte -

 

(Continua dall'articolo precedente)

 

Dopo la magistrale risposta data alla moglie (cfr. 2,10), Giobbe si vede arrivare i suoi tre amici più cari. Lo scorgono da lontano, piangono di dolore e siedono accanto a lui in silenzio per sette giorni e sette notti (cfr. 2,11-13), ossia il tempo del lutto, quasi che Giobbe fosse morto.

Come il silenzio primordiale è stato infranto dalla parola di Dio che ha consacrato e benedetto il giorno e la notte dando loro vita, così il silenzio dei quattro amici è infranto dallo stesso Giobbe che grida il suo dolore e maledice il giorno della sua nascita e la notte del suo concepimento. Nel suo lungo discorso (cfr.3,1-26) egli usa toni aspri e di forte imprecazione. Egli è la voce dell’uomo di ogni tempo che colpito dal male “lotta con Dio, per credere in lui, per comprendere la sua giustizia, il suo silenzio, per comprendere la salvezza che lui ci offre, la quale molto spesso pare in contrasto con l’ingiustizia che l’uomo subisce” (M. R. Marenco Bovone). Giobbe non maledice Dio, ma la sua esistenza. È consapevole che la sua vita dipende da un Altro e che non può disporne a suo piacimento. Dunque non fa che affermare la superiorità di Dio, rimettendosi al suo mistero e all’imperscrutabilità del suo intervento nella vita dell’uomo. Nell’abisso di dolore Giobbe cerca Dio, il suo vero volto. Questa nuova esperienza gli fa dire che egli non è così come lo aveva creduto fino a quel momento e in questa ricerca grida per essere sicuro di venire ascoltato. E il suo grido giunge perfino ad essere imprecazione.

A turno si succedono i discorsi dei tre amici che con la loro teologia saccente pensano di potere spiegare quanto sta accadendo a Giobbe. La sua disgrazia è conseguenza della sua colpevolezza, del suo peccato: quale innocente è mai perito e quando mai furon distrutti gli uomini retti? Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina affanni, li raccoglie (4,7-8). Ma Giobbe protesta la sua innocenza e la sua integrità: Su, ricredetevi: non siate ingiusti! Ricredetevi; la mia giustizia è ancora qui! (6,29). I conti non tornano. Giobbe non ha mai peccato contro Dio, è sicuro della sua innocenza e della sua fedeltà inviolata. Eppure tutto sembra dargli torto. Secondo la teoria della retribuzione egli sta pagando - e amaramente - per qualche sua colpa che, a ragion veduta, deve essere stata molto grande. Colui che si crede giusto, e lo grida con tutte le sue forze, sta subendo la sorte dell’iniquo. Quante volte succede questo anche nelle nostre esperienze di vita. Molto spesso le situazioni si ribaltano: chi fa il male la fa franca e vive da pascià, mentre invece a chi sta tranquillo in casa sua va tutto storto e senza un perché.

Anche Giobbe non capisce. Due più due non fanno quattro e per quanto provi a rigirarli questi numeri non danno il risultato che ci si aspetterebbe. Spiazzato si rivolge a Dio, lo chiama in causa ed intenta quasi un processo. Esige spiegazioni più che convincenti, magari le scuse pubbliche e - perché no - un soddisfacente risarcimento danni: Ma io all’Onnipotente vorrei parlare, a Dio vorrei fare rimostranze (13,3)… Oh, potessi sapere dove trovarlo, potessi arrivare fino al suo trono! Esporrei davanti a lui la mia causa e avrei piene le labbra di ragioni. Verrei a sapere le parole che mi risponde e capirei che cosa mi deve dire (23,3-5)… Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi risponda! (31,35).

Dopo tanto e vano parlare interviene Dio a chiudere la bocca a tutti. Da notare che Dio risponde a Giobbe di mezzo al turbine (38,1), cioè “ex cathedra”, dall’alto della sua maestà onnipotente, per dare sentenze e ragioni indiscutibili ed inconfutabili dalla piccolezza dell’uomo. Il Signore risponde a due riprese, ma lo fa con una serie interminabile di domande che occupano ben quattro capitoli (38-41) e alle quali Giobbe non è capace di rispondere. Si tratta di domande quanto mai provocatorie sull’origine del mondo e di tutte le realtà create, sul governo del mondo, sull’ordine della natura e del mondo animale. Aspra la constatazione ironica che rimette Giobbe al suo posto giusto, quello di semplice creatura: Certo, tu lo sai, perché allora eri nato e il numero dei tuoi giorni è assai grande! (38,21). A metà del suo discorso Jahvèh si interrompe e rigira a Giobbe la sua stessa protesta: Il censore vorrà ancora contendere con l’Onnipotente? L’accusatore di Dio risponda! (40,2). Mi sembra di vederlo questo povero Giobbe sprofondarsi miseramente sotto terra peggio di uno struzzo: Ecco, sono ben meschino: che ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca (40,4). E alla fine le sue ultimi parole, quelle che lo coroneranno come il “giusto Giobbe”: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te… Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo… Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (42,2.3b.5-6).

È vero, il problema del male e della sofferenza pone interrogativi seri, domande che supplicano una risposta di senso e molto spesso questa risposta forse non c’è, o meglio, non rispetta i canoni del nostro metro di giudizio. Per noi uomini esistono solo le situazioni estreme: il bianco o il nero, il bene o il male, l’innocenza o la colpevolezza, la gioia o il dolore e una cosa è ben distinta dall’altra. Ci manca quell’elasticità, quella capacità (propria di Dio e di quanti gliela domandano in dono) che riesce a guardare con occhi diversi la realtà. Come un grande ricamo che poggia i suoi cavalletti sulla terra ed ha il suo telaio tra le nubi del cielo. Noi, poveri mortali, ne vediamo solo il rovescio e per quanto esso sia “pulito” e ben fatto rappresenta per noi solo un groviglio di fili. Quando poi il Signore decide di prenderci in braccio per farci sedere accanto a lui e lo vediamo al lavoro con ago e filo ci incantiamo dinanzi alla bellezza dei disegni, allo scintillio dei colori e delle sfumature e, come Giobbe, possiamo soltanto metterci la mano sulla bocca. Certo, la vita è un po’ diversa da un ricamo e quel groviglio di fili molto spesso lacera la nostra carne. Quell’ago che fa su e giù nella tela, in realtà si infigge nel nostro cuore che, sanguinando, macchia la bellezza dei disegni.

Quando Giobbe chiede a Dio: “perché?”, egli non dà una risposta, perché in realtà il male non può essere spiegato, nessuna ragione al mondo può giustificarlo appieno. Dio risponde soltanto con la sua presenza che si farà poi carne nel Figlio Gesù. egli è la vera risposta, lui che è entrato dentro il male fino alla morte per trasformarlo in occasione di salvezza, in dono di una vita nuova. Gesù ha realmente sperimentato il dolore, ha bevuto fino in fondo il calice amaro del suo non senso e nel consegnarsi ad esso nell’amore e per amore di un bene più grande è riuscito a vincerlo. Diceva Meister Eckhart, un mistico medievale: “Nulla sa più di fiele del soffrire, nulla sa più di miele dell’aver sofferto; nulla di fronte agli uomini sfigura il corpo più della sofferenza, ma nulla di fronte a Dio abbellisce l’anima più dell’aver sofferto”.

Dopo questa cruda esperienza, e grazie ad essa, Giobbe conosce veramente Dio, lo incontra personalmente e la sua vita cambia, la sua fede mette radici profonde e sicure. Sente che Dio lo ama, lo ha sempre amato anche quando lo ha provato. Anzi, in quei momenti lo ha amato ancora di più, anche se poteva sembrare distante e nemico. Giobbe lo riconosce e Dio non può che premiare l’uomo che si affida totalmente a lui: viene risanato nella sua carne, viene ricolmato di beni (il doppio di quanti ne aveva prima) e, più importante, la sua vita è nuovamente allietata dalla presenza dei figli (la più grande benedizione che un ebreo possa ottenere da Dio). E vissero felici e contenti.

Ci sono casi in cui la sofferenza abbruttisce l’anima dell’uomo, facendolo richiudere in se stesso e atrofizzandone il cuore. Questa è la vera sconfitta, la vera disgrazia, più grave della stessa pena che si sta vivendo. Quando invece si ha il coraggio e la forza di rialzarsi dalle macerie del proprio dolore, si scopre che è possibile ricominciare a vivere e a sperare. Anche l’esperienza più amara può acquistare un senso che noi non immaginiamo neanche. Questo lo so non perché l’ho letto in qualche libro o perché “tanto si dice sempre così”. No, l’ho sentito con le mie orecchie e proprio da gente che era stata profondamente colpita e non in modo lieve. Magari, se la guardi con attenzione, vedi brillare gli occhi e senti la voce che si annoda alla gola, ma non è più dolore, non è disperazione: è una gioia serena acquistata a caro prezzo e, proprio per questo, autentica. È lo stupore di sentirsi oggetto dell’attenzione di Dio. E senti che il cuore si allarga ad un amore più grande, più vero, ad un amore che ha il gusto di agro-dolce, ma che solo può riempirti la vita.

 

Chiedo scusa ai tanti “Giobbe” di ogni tempo, lascio finalmente la penna e, in silenzio, contemplo la loro fedeltà nelle avversità.

 

Ottobre / Novembre 2008 - Anno XIV - n° 4

 


...e vieni in una grotta

- dodicesima parte -

 

Ogni anno, a Natale, tutto dice festa, gioia, luci, musiche, tenerezza. Anche i cuori più duri si lasciano scalfire dall’amore che circola ovunque.

Strade e case sono addobbate alla perfezione: l’albero e il presepe sempre più originali. C’è tutto: manca solo lui, Gesù. E cosa fa? Mentre noi gli prepariamo una culla di bambagia, lui pensa bene di nascere in una banalissima grotta. Luca, nel suo vangelo, ci dice che per Maria e Giuseppe non c’era più posto negli alloggi di Betlemme. Ma siamo proprio sicuri che si tratti di un ripiego forzato e quindi della classica sfortuna di chi è perseguitato dalla “nuvoletta nera”? non sarà invece che il nascere in una grotta sia stato voluto e - direi - “programmato” da Dio fin dall’inizio? Del resto, se il mito greco vi ha fatto nascere Zeus ed Hermes, non poteva accadere anche per il Figlio di Dio?

Nello scenario biblico ed extra-biblico la grotta assume connotazioni particolari. Già nella preistoria le grotte e le caverne erano adibite ad azioni cultuali magiche ed erano, dunque, custodi del mistero. Ancora, la grotta rappresenta il grembo della madre terra, l’alveo fecondo che genera la vita, il luogo mitico delle nozze sacre tra gli dei. Ma è anche spazio di morte, luogo idoneo alla sepoltura dei defunti e, perciò, antro del regno dei morti, quasi una zona di confine che permette di accedere ad un altro mondo. Da sempre la grotta è stata rifugio e riparo di viandanti sorpresi dalle intemperie o dal sopraggiungere della notte. Ma è stata anche abitazione di gente povera e stalla per gli animali domestici. Verrebbe da dire: di tutto, di più.

Nell’Antico Testamento essa figura tra le attrici co-protagoniste. Il ruolo dove riesce ad esprimere al massimo il suo talento è nell’essere in relazione con il divino. La grotta, infatti, o la cavità della rupe, è uno dei luoghi (assieme alla montagna, al deserto…) dell’epifania (manifestazione) di Dio al suo popolo o ad un suo rappresentante. Si sa che l’uomo non può vedere il volto di Dio - pur essendo questo il suo desiderio più struggente -, perché vedere Dio in faccia significa morire. Quando Dio si manifesta ai suoi eletti lo fa sempre in maniera velata: un angelo, un roveto ardente, una voce, una visione, una nube… Quando però l’uomo avanza pretese, facendosi forte della sua intimità con Jahvèh, accade questo: Mosè disse al Signore: «Mostrami la tua Gloria!». Rispose: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore… Ma tu non potrai vedere il mio volto… Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finchè sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Es 33,18-23). Davvero molto bella questa immagine: Dio accetta la richiesta imperativa di Mosè, ma teme per lui e lo fa entrare in una grotta (io ti porrò…). Fa effetto poi la sua grande mano che copre e protegge la piccolezza sfrontata dell’uomo.

Anche il grande profeta Elia sale sul monte per stare alla presenza del Signore ed entra in una caverna, perché sa di non poterlo vedere in faccia. Ed ecco, il Signore passa… non nel vento impetuoso o nel terremoto o nel fuoco, ma nel sussurro di una brezza leggera. Quando l’avverte, Elia si ferma all’ingresso della caverna coprendosi il volto con il mantello (1Re 19,9-13).

Per entrambi - Mosè ed Elia - la grotta è stata testimone del passaggio di Dio, custode di un incontro straordinario tra il Creatore e la sua creatura. È Dio che si appressa all’uomo e gli si manifesta.

E non doveva essere così anche per Gesù, l’Emmanuele, il Dio-con-noi?

La grotta era stata il luogo dove poter “vedere” Dio senza, in realtà, vedere il suo volto; con Gesù diventa il luogo dove poter vedere Dio… che si fa uomo per essere visto da tutti. La grotta è, ancora una volta, custode del mistero, grembo fecondo che genera la vita, luogo sacro delle nozze tra Dio e l’uomo, il cui frutto è un Dio Bambino.

È nella grotta di Betlemme che, per la prima volta, Dio si è reso visibile al mondo e, da questo faccia a faccia, sarà Dio - e non l’uomo - a morire in Gesù che offrirà la sua vita per la salvezza di tutti. E se la grotta di Betlemme lo ha accolto nel suo nascere, quella di Gerusalemme ha custodito (solamente per poco) il suo corpo donato all’umanità.

Adesso non mi stupisce più il fatto che Gesù sia nato in una grotta e, anzi, lo considero un segno del cielo, più ancora della stella che ha brillato in quella notte.

I primi a vederlo? Suo padre e sua madre, naturalmente, e poi i pastori accorsi all’annuncio dell’angelo. Ma mi piace pensare che la stessa grotta, quella notte, abbia avuto occhi per contemplare quel bambino e che, come per incanto, sia stata invasa da una luce particolare. “Il cielo in una stanza”… o meglio: “il cielo in una grotta”.

Mi viene poi in mente che Betlemme significa “casa del pane”: la grotta non sarà stata forse il primo “tabernacolo” del Pane celeste offerto all’uomo?

Tutto questo però è successo 2000 anni fa. Noi invece, dopo il 6 gennaio, rimetteremo a posto ogni cosa: le statuine, le casette, le luci, la stella cometa e anche la grotta che avevamo preparato con cura. E allora: finisce tutto e arrivederci al prossimo anno? No di certo! C’è anche per noi oggi la grotta di Betlemme e, fra le tante possibili, io preferisco la più vicina a Dio e a me (sono pigra e non amo faticare tanto per spostarmi in lunghe distanze): il mio cuore. È lì che ogni giorno devo preparare la mangiatoia per Gesù con la paglia delle piccole e grandi cose che mi accadono. È lì che lui vuole incontrarmi per farmi vedere il suo volto e, nel suo, ritrovare il mio sotto una luce nuova. E a me, che come i pastori me ne sto fuori a guardia di me stessa (cfr. Lc 2,8), un angelo dà l’annuncio di una grande gioia e l’invito ad andare, nel bel mezzo della mia notte, in quella grotta dove giace il frutto dell’amore di Dio per me.

Prima di concludere, mi sia permessa una breve riflessione “tecnica”: nei pressi del Mar Morto, nella zona detta di Qumran, ci sono tante grotte dove, nel periodo immediatamente precedente e successivo all’evento Cristo, ha vissuto una comunità religiosa ebraica. Circa mezzo secolo fa sono stati ritrovati per caso dei rotoli con alcuni passi dell’Antico Testamento. Un pastore arabo, in cerca della sua capra che si era smarrita per quelle grotte, vi ha trovato delle giare contenenti i rotoli e oggi, nel mondo biblico, questa è una scoperta sensazionale. Ebbene: un pastore va in cerca della sua capra “smarrita” (cfr. Lc 15,4-7) ed entra in una grotta (come i pastori a Betlemme) che, per circa 2000 anni, ha custodito la Parola di Dio… anche questo è un caso? Chissà, forse sì!

A Natale accendiamo pure le luci del nostro presepe e contempliamo Gesù che viene per noi. Ma dopo, quando le feste sono finite e abbiamo rimesso tutto nello scatolone, diamoci appuntamento per la mezzanotte e celebriamo un nuovo Natale nella grotta del nostro cuore: chissà che non ci capiti di cullare tra le braccia un Dio fatto Bambino.

 

Marzo / Aprile 2009 - Anno XIII - n° 1   

 

 

 

 
   

 

 

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