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S. Scrittura |
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di suor Maria Agostina |
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Un biglietto di sola andata
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Israele by night
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Voce di un silenzio leggero
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Sangue straniero nelle vene
d'Israele
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Il "Servo" di Jahvèh
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Un ribelle per Dio (1)
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Un ribelle per Dio (2)
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Sentiero a nord-est
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La casa di Dio
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Fedeltà nelle avversità (1)
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Fedeltà nelle avversità (2)
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... e vieni in una grotta
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Il segno della lotta
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Un biglietto
di sola andata
- prima parte -
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“C’era una volta…”. Un
principe azzurro? No. Una fanciulla che viveva nel
bosco? No. “C’era una volta… Dio e un clan di nomadi
semiti che ben presto diventerà il suo popolo”.
Comincia proprio così la
nostra nuova rubrica che ci accompagnerà nella lettura e
nell’approfondimento di alcuni brani biblici, per una
conoscenza più consapevole ed intelligente della Sacra
Scrittura, il libro attraverso cui Dio vuole incontrarci
per parlarci di sé e di noi. I Padri della Chiesa la
definivano “lettera di Dio” agli uomini. Essa infatti
non è altro che “un’amorosa e benefica comunicazione del
Padre ai figli”.
Ci soffermeremo di volta
in volta su quei brani – forse più significativi o
spesso meno conosciuti – che hanno narrato la storia
d’Israele ed anche la nostra, che della prima è un
prolungamento nel tempo per la fede in quel Dio che “in
principio” ha chiamato all’esistenza tutte le cose.
Allora:c’era una volta un
uomo che viveva con la sua famiglia in Mesopotamia
(l’attuale Iraq), in una città chiamata Ur. Il suo nome
era Abràm. Egli era “di stirpe nobile” – secondo
l’etimologia del nome – era cioè molto ricco in
bestiame, argento e oro (Gen 13,2). Aveva tutto
quello che un uomo del suo tempo poteva desiderare.
Tutto, tranne la cosa più importante: era ormai avanti
negli anni e sua moglie Sàrai era sterile. La loro
esistenza, nonostante il benessere, non era stata
allietata dal sorriso di un figlio e questa situazione
pesava molto sui due coniugi come una maledizione.
Un giorno però ad Abràm
successe qualcosa di strano e straordinario insieme.
Sentì una voce ed una proposta insolite: Vattene dal
tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che io ti indicherò. Farò di te un grande
popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e
diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti
benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te
si diranno benedette tutte le famiglie della terra
(ivi 12,1-3). Detto fatto. Pacchi e pacchettini, giusto
il tempo di smontare le tende dell’accampamento,
Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo
che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere
dove andava (Eb 11,8).
Quello fu proprio un
viaggio di sola andata, senza più possibilità di
ritorno. Da quel giorno egli non si guardò più indietro
e riconobbe che la sua vita era guidata, secondo
modalità misteriose, da quel Dio (“El”) capace di
realizzare quanto promesso.
Di tappa in tappa Abràm
raggiunse il paese abitato dai Cananei ma vi si accampò
come straniero. La promessa di Dio era chiara: Alla
tua discendenza io darò questo paese (Gen 12,7). Ma
quale discendenza da una coppia anziana e per di più
sterile? Eppure quella voce l’aveva veramente udita:
farò di te un grande popolo. Forse Lot, il figlio di
suo fratello che dopo la morte del padre viveva con lui,
avrebbe costituito la sua posterità.
Chi decide però di
intraprendere un viaggio munito di un biglietto di sola
andata, è tenuto a sapere che l’impossibile e
l’imprevedibile nascondono sempre la firma di Dio. Abràm
aveva accettato di fidarsi lasciando la sicurezza della
sua terra e partendo per riceverne un’altra, anche se in
seguito molto spesso la sua fede fu messa alla prova,
non solo da Dio ma persino dalla sua stessa impazienza
di veder realizzato al più presto quanto sperato perché
promesso.
Il Signore non si fece
attendere a lungo. Attraverso una sapiente opera
pedagogica stimolò Abràm e la moglie Sàrai a crescere
nella fede, a “mollare l’ancora” dei propri calcoli
personali e, dopo aver sancito un’alleanza con riti via
via più solenni (tra i quali Anche il cambiamento del
nome, simbolo di inizio di vita nuova), donò loro il
primo e forse più prezioso frutto della promessa. La
nascita di un figlio rallegrò finalmente la vita di
Abramo e Sara: Isacco (che significa “Dio mi fa
sorridere”) scolpì la gioia sul volto dei due anziani
genitori e diede corpo alla speranza, frutto della
fiducia nelle parole di Jahvèh.
Ma ben presto qualcosa
cambiò. La pace e la serenità di quella famiglia
ricevettero una forte scossa, proprio come un fulmine a
ciel sereno, e Abramo assaporò per un momento tutta
l’amarezza e l’alto prezzo richiesto da un biglietto di
sola andata: Dio gli chiese di sacrificargli la vita di
Isacco e proprio lui, che aveva ricevuto le promesse,
offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto: In
Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome
(Eb 11, 17-18). Quel giorno Abramo risentì ancora una
volta la voce di Dio che lo chiamava ad uscire, non più
dalla sua terra e dalla casa di suo padre ma dalla
propria autosufficienza e dalla tentazione di credersi
oramai “arrivato”, perché abbondantemente premiato per
la sua cieca obbedienza. È vero: aveva dimostrato di
possedere una buona dose di fede (qualcuno forse direbbe
di incoscienza), ma adesso la richiesta di Jahvèh
toccava il paradosso: sacrificare il figlio, l’unico,
quello della promessa. Dio glielo aveva donato e adesso
gli chiedeva di restituirglielo. Questa nuova chiamata
(Gen 22, 1-2) aveva forti somiglianze con la prima (ivi
12,1): vi erano implicati un lasciare e un andare verso
un luogo sconosciuto che sarebbe stato indicato dal
Signore al momento giusto.
Abramo, sempre più
consapevole di tenere in mano un biglietto impegnativo
per un viaggio-avventura che lo avrebbe coinvolto fino
in fondo, accettò nuovamente di fidarsi. Anzi, s. Paolo
dice che per la promessa di Dio non esitò con
incredulità, ma si rafforzò nella fede… sperando contro
ogni speranza (Rm 4, 20.18). Si dispose perciò,
materialmente ed affettivamente, a sacrificare il figlio
e s’incamminò verso la montagna. Fu un viaggio in salita
(e non solo geograficamente). Aveva accanto a sé l’amato
Isacco, si scambiavano le ultime parole, gli ultimi
sguardi. Come poteva Dio fargli questo? Eppure sapeva di
potersi fidare e lo voleva con tutto se stesso. Proprio
in quel momento, tragico e terribile, risentì la voce
del Signore: Non stendere la mano contro il ragazzo e
non fargli alcun male!… Giuro per me stesso: perché tu
hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il
tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione…
perché tu hai obbedito alla mia voce (Gen 22,
12.16-18). Dio aveva mantenuto fede alla promessa e
all’Alleanza e aveva dimostrato ad Abramo – e in lui a
tutte le nazioni della terra – che quanto egli chiede,
seppure assurdo e paradossale, è per un bene più grande
e per una felicità più piena.
Una breve riflessione:
attenzione ad accettare biglietti di sola andata, perché
una volta cominciato il viaggio bisogna portarlo a
termine fino al capolinea e non si può più tornare
indietro. Il Signore non scherza e non inganna: ti
chiede tutto ma è subito pronto a darti tutto; vuole che
tu vada a lui con lo zaino vuoto perché possa esserci
maggiore spazio per contenere i suoi doni. Ti chiede di
mollare la presa delle sicurezze umane perché tu possa
avere le mani libere per aggrapparti a lui. Fa
un’alleanza con te e s’impegna solennemente ad essere il
tuo Dio, purché tu sia disposto ad accettare tutte le
sue richieste, anche e soprattutto le più assurde e
irragionevoli.
Il nostro Dio è fatto
così: vuol farci crescere facendoci fare passi da
gigante nella fede perché sa che ne siamo capaci se ci
abbandoniamo a lui e che può pretenderlo. Siamo fatti
“della sua stessa pasta” e sa di poter osare quando noi
gliene diamo il permesso.
In questo nostro cammino
di crescita, però, non ci lascia mai soli: è sempre lì
accanto a noi a misurare la strada secondo i nostri
passi, secondo il nostro ritmo di marcia e –
parafrasando la “parabola” dell’Anonimo brasiliano –
proprio nei momenti più difficili di questo percorso è
pronto a prenderci in braccio, perché sa che i nostri
piedi zoppicanti non potrebbero da se stessi compiere i
salti che lui ci chiede e ci aiuta a fare.
Questo è l’inizio e il fondamento di ogni storia di
alleanza con Dio: lo è stato per Israele e lo è per
ciascuno di noi, figli di Abramo, nostro padre nella
fede.
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Febbraio / Marzo
2006 - Anno X - n° 1
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Israele by night
- seconda
parte -
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Quando si fa un viaggio è di rito la sosta in un negozio
di souvenir. Miniature dei principali monumenti, oggetti
di artigianato locale e le immancabili cartoline da
spedire a parenti ed amici con l’ormai nota
espressione di saluto: “… c’ero anch’io…”. Di tutti
i tipi e di tante forme e colori, le più belle però
rimangono le cosiddette “by night”. Chissà perché, ma la
città avvolta nella notte e rischiarata dalle luci
domestiche suscita sempre un certo fascino. Naturalmente
decidiamo di comprare proprio quelle.
Cosa c’entra tutto questo con la nostra rubrica?
Semplicemente ho deciso, dal mio simbolico viaggio nella
storia d’Israele, di spedirvi una sua cartolina “by
night”. I “negozietti” del posto ne mostrano di ben
quattro tipi: si tratta della tradizione rabbinica delle
“Quattro Notti”. Più precisamente, si distinguono
quattro notti fondamentali nella Storia della Salvezza.
La prima è quella della creazione (Gen 1,3), la seconda
è la notte dell’alleanza con Abramo (Gen 15,17-18), la
terza è quella della liberazione dall’Egitto (Es 12,42),
la quarta e ultima notte sarà quella del compimento
definitivo della salvezza, quando verrà il Messia
promesso.
Tra tutte ho scelto la terza per il suo stretto legame
con la nostra festa di Pasqua. Dalla ricchissima “guida
turistica”, che è la Bibbia, potremo scoprire che questa
cartolina descrive la pasqua (cioè “passare oltre”) del
Signore e di quello che presto diventerà il suo popolo
(Es 12,11). Ma proviamo a leggere con più attenzione il
libro dell’Esodo.
Inizialmente vi è descritta la “notte” dei figli
d’Israele costretti a dura schiavitù dal faraone,
oppressi per timore di una loro possibile alleanza con i
popoli nemici, obbligati ad assistere all’uccisione dei
figli maschi per evitarne l’incontenibile
proliferazione.
La notte – si può leggere su qualsiasi dizionario – è
“lo spazio di tempo fra il tramontare e il nascer del
sole, in cui la terra è coperta dalle tenebre”.
Tenebre fitte infatti incombono sugli ebrei, il cui
stesso nome indica la condizione di schiavitù (‘ibrì,
in ebraico), quella schiavitù che, con sentimenti di
solitudine, abbandono e morte, caratterizza gli albori
del popolo eletto.
Dio verrà certo a visitarvi e vi farà uscire da
questo paese verso il paese ch’egli ha promesso con
giuramento ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe (Gen
50,24). Queste furono le ultime parole pronunciate da
Giuseppe prima di morire. Egli aveva impedito che i suoi
fratelli (gli antenati del popolo d’Israele) morissero
di fame, accogliendoli in Egitto, dove aveva ottenuto il
favore del faraone che lo aveva messo a capo dei suoi
beni e di tutto il suo popolo. Ma col passare dei secoli
sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva
conosciuto Giuseppe… Allora vennero imposti loro dei
sovrintendenti ai lavori forzati per opprimerli con i
loro gravami… (Es 1,8.11). Dov’era Dio in tutto
questo? Le parole-testamento di Giuseppe però non
avrebbero tardato ancora oltre a realizzarsi: era ormai
vicino il giorno in cui Jahvèh avrebbe visitato i suoi
figli. Del resto lo aveva già fatto con Sara, rendendone
fecondo il grembo sterile per mantenere fede alla
promessa della discendenza (Gen 21,1). Le ripetute
“visite” di Dio, lungo la storia del suo popolo, sono
appunto segni della sua presenza, della sua azione,
della continuità del suo disegno salvifico e manifestano
la sua fedeltà alle promesse.
Proprio nel periodo della notte più buia, quando il
grido dell’oppressione si faceva sempre più forte,
Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua
alleanza con Abramo e Giacobbe, guardò la condizione
degli Israeliti e se ne prese pensiero (Es 2,24-25).
È la prima luce che Dio accende nella nostra cartolina
notturna e lo fa addirittura su di un monte che svetta
sullo sfondo del panorama: sull’Oreb-Sinai Dio si
manifesta a Mosè, l’ebreo-egiziano, sotto le sembianze
di un roveto che arde e non si consuma e gli affida la
missione di far uscire gli israeliti dall’Egitto verso
la Terra Promessa, una terra dove scorre latte e miele
(Es 3,7-8.10).
Ma il faraone non molla tanto facilmente la presa, non
può lasciarsi sfuggire la mano d’opera per le sue
grandiose costruzioni. Jahvèh allora è costretto a
“farsi sentire” e colpisce l’Egitto con nove piaghe,
frutto di una natura sfigurata e ostile di cui Dio si
serve per il suo disegno di salvezza. Nessuna di queste
però riesce a piegare il cuore impietrito del faraone,
anche se la nona dà un assaggio di quello che il Signore
si sta preparando ad operare per il suo popolo:
vennero dense tenebre su tutto il paese d’Egitto… Non si
vedevano più l’un l’altro… Ma per tutti gli Israeliti vi
era luce là dove abitavano (Es 10,22-24). Dio
accende una seconda luce e si prepara all’azione
definitiva. Dà istruzioni a Mosè e ad Aronne per la
celebrazione della pasqua precisando: E’ la pasqua
del Signore! In quella notte io passerò
per il paese d’Egitto e colpirò ogni primogenito nel
paese d’Egitto (Es 12,11-12). È ancora notte, ma
questa volta il buio attanaglia e terrorizza gli
egiziani, quelli cioè che prima avevano assunto a forza
e prepotenza la propria risibile vigliaccheria,
opprimendo un popolo per timore di perderne il
controllo. Proprio in quella stessa notte, attraverso
una colonna di fuoco, Jahvèh guida gli Israeliti alla
libertà “camminando” alla loro testa e illuminandone il
cammino. È la terza luce. È una luce che è vita e
libertà, sinonimi di risurrezione. L’acqua richiama la
vita e dunque il grembo materno. Nel passaggio del Mar
Rosso, simbolicamente, Israele esce dall’acqua per
nascere come popolo-figlio di Dio chiamato alla libertà.
Adesso la nostra cartolina mostra tutta la sua
bellezza.
Il canto dell’Exsultet, all’inizio della liturgia della
Veglia Pasquale, è un meraviglioso inno alla notte come
luogo della presenza e dell’intervento straordinario di
Dio. Si fa memoria dei prodigi dell’Esodo e della
Risurrezione di Cristo, l’uno tipologia dell’altra che
ne è il compimento.
Si fece buio su tutta la terra quando Gesù,
emesso un alto grido spirò (Mt 27,45.50). Era
“notte” dunque per quanti avevano sperato la salvezza da
quell’uomo. Era ormai morto, o meglio, si era lasciato
uccidere senza opporre resistenza, senza aver fatto
udire la sua voce, senza aver liberato Israele dai
Romani: “Noi speravamo che fosse lui a liberare
Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni…” (Lc
24,21), constatano delusi i due discepoli di Emmaus.
Ma passato il sabato, cioè la notte della fede e
le tenebre dello smarrimento, all’alba del primo
giorno della settimana… E’ risorto, come aveva detto
( Mt 28, 1. 6). Al termine della notte, anche
quella più oscura e più lunga, c’è sempre l’alba della
rinascita, della salvezza, del passaggio di Dio che
accende una luce nuova. Sul far del mattino… Israele
vide la mano potente con la quale il Signore aveva agito
(Es 14, 27. 31).
La “notte” non è mai l’ultima parola di Dio
sull’esperienza spirituale dell’uomo; semmai si tratta
di un momento di passaggio e di preparazione per
qualcosa di straordinariamente grande, quale il
rinnovarsi dell’Alleanza tra due partners che imparano
ad amarsi facendo esperienza l’uno dell’Altro. Ed è
proprio in questi momenti che si scolpiscono
profondamente nel cuore le parole che il Signore ha
pronunciato per bocca del profeta Isaia: Per un breve
istante ti ho abbandonata, ma ti riprenderò con immenso
amore…Anche se i monti si spostassero e i colli
vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio
affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace
(54,7.10).
Non c’è notte né morte dunque per il discepolo di
Cristo, perché in lui era la vita e la vita era la
luce degli uomini (Gv 1,4).
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Aprile / Maggio
2006 - Anno X - n° 2
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Voce di un silenzio leggero
- terza parte -
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Elia camminò per quaranta
giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.
Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte,
quand’ecco…Gli fu detto: “Esci e fermati sul monte alla
presenza del Signore”. Ecco, il Signore passò. Ci fu un
vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e
spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non
era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il
Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu
un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco
ci fu il mormorio di un vento leggero. Come
l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si
fermò all’ingresso della caverna
(1Re 19,8-9.11-13).
È capitato anche a me
qualcosa di simile tempo fa. Mi trovavo in giardino e,
nel silenzio, ascoltavo i suoni che provenivano da fuori
e intorno a me. “Ci fu un vento impetuoso e gagliardo”
(Urbino è famosa per questo) che scuoteva gli alberi
agitandoli, generando così il fruscio delle foglie.
“Dopo il vento ci fu un terremoto”: in quel momento si
trovò a passare un elicottero, o qualcosa del genere, il
cui rumore assordante disturbò il silenzio che fino ad
allora aveva regnato. “Dopo il terremoto ci fu un
fuoco”: un raggio di sole che a mezzodì, facendo
capolino tra le nuvole, riuscì a riscaldare l’aria.
“Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero” (voce
di un silenzio leggero, secondo una traduzione più
letterale): l’orgoglioso vento urbinate abbassò la sua
cresta per cedere il posto ad un venticello delicato. In
quel momento ricordai il
brano della Scrittura sopraccitato e custodii nel cuore
quest’esperienza.
Lungi dall’essermi
ritenuta interlocutrice di Dio come il grande profeta
Elia, tuttavia sentii sulla mia pelle cosa significa
rendere attuale e concreta nella propria vita la Parola
divina. Quel brano del primo libro dei Re, che tante
volte avevo letto e meditato, non era più semplicemente
un racconto, ma aveva preso forma e consistenza nella
mia storia personale. Era diventato una pagina della
“mia” Sacra Scrittura, quella che quotidianamente porto
avanti insieme a Dio.
Questo passo
biblico descrive
il culmine di una forte esperienza vissuta da Elia e,
per comprenderne la portata, dobbiamo necessariamente
conoscere il retroscena.
“Un nome, un programma”: è proprio il caso di dirlo nei
confronti di Elia. Il nostro profeta racchiude nel suo
nome un programma di vita: “il mio Dio è Jahvèh” o “solo
Jahvèh è Dio”. Egli è il profeta ardente di zelo per
il Signore degli eserciti (1Re 19,10.14) e il grido
di battaglia che scandirà la sua missione tuona con
forza: per la vita del Signore, alla cui presenza io
sto (1Re 17,1;18,15). Egli sarà chiamato a difendere
strenuamente la purezza della religione trasmessa dai
padri, in un tempo in cui i culti pagani della fecondità
allettavano il popolo e lo stesso re d’Israele. I
profeti di Baal, la divinità Cananea, erano
quattrocentocinquanta ed Elia era rimasto solo, l’unico
profeta del vero Dio (1Re 18,22). Elia lancia una sfida
sul monte Carmelo: il loro Dio contro il suo Dio. Baal
non si “presenta” all’appuntamento, Jahvèh invece si
manifesta nel fuoco che consuma interamente il giovenco
immolato. È lui il vero Dio, acclamato dal popolo
attraverso il curioso gioco di parole tra il nome di
Elia e la professione di fede in Jahvèh: Il Signore è
Dio! Il Signore è Dio!, cioè “Elia! Elia!”. Ai falsi
profeti del falso Dio è riservata la sorte che allora
minacciava i vinti: sono
uccisi dal vincitore.
A questo punto Elia
potrebbe anche ritenersi soddisfatto. È stato osannato
ed ha ottenuto che il popolo riconoscesse Jahvèh quale
unico e solo Dio d’Israele. In realtà comincia proprio
il peggio: la regina Gezabele, sostenitrice del culto di
Baal, vuole vendicare i suoi profeti e cerca Elia per
ucciderlo. Ma cosa fa il nostro profeta di fuoco?
Coraggiosamente… scappa. Sembra quasi scandalizzato:
aveva difeso con tutte le sue forze la verità di Jahvèh
e adesso, anziché esserne ricompensato, si ritrova da
lui abbandonato alla crudeltà di una donna che fa di
tutto per ucciderlo. Ma chi è questo Dio per il quale si
era battuto e che adesso lo abbandonava, ingrato e
incurante delle gravi minacce? È un Dio che sconcerta,
che lascia senza parole e al quale il profeta chiede di
prendere la propria vita. Elia scappa per paura di
morire per mano di una donna e si ritrova, disperato, ad
invocare la morte per mano di Dio. Si inoltra nel
deserto, ma qui un angelo lo invita ad alzarsi, a
mangiare e ad intraprendere un cammino (1Re 18,20-19,7).
È qui che si inserisce il
nostro brano. Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza
datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e
quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb (o Sinai
- 1Re 19,8). Questo versetto richiama in maniera
impressionante l’esperienza di Mosè e del popolo ebreo
in fuga dall’Egitto:
nel deserto sono
nutriti da un cibo donato da Dio; camminano verso il
monte Sinai; il numero quaranta richiama la loro
peregrinazione nel deserto, segno di una lunga e lenta
purificazione prima di poter arrivare alla Terra
Promessa. Anche Elia dovrà prendere forza, mangiando un
pane donato dal Signore, per intraprendere un faticoso
cammino in salita verso il monte dell’Alleanza e della
manifestazione piena di Jahvèh. Ma tutto questo non sarà
possibile senza una profonda conversione, un processo di
purificazione dalle false idee e pretese su Dio. Elia,
il grande profeta che si gloriava di poter gridare
orgogliosamente: “Per la vita del Signore, alla cui
presenza io sto”, è arrivato ad una svolta importante
nella sua vita, deve imparare cosa significhi veramente
stare alla presenza del Signore. E lo imparerà molto
presto.
Dio si serve della fuga
del suo profeta per trasformarla in occasione propizia,
affinché questi faccia un’autentica esperienza di lui.
Elia si rifugia in una
caverna, come Mosè, per non vedere il volto di Dio e non
morire. Nell’animo del nostro profeta convivono curiose
contraddizioni. Prima fugge per non essere ucciso, poi
invoca disperato la morte, infine si nasconde per non
morire. Insomma: un po’ di coerenza, per favore! In
realtà, la morte tanto temuta è quella spirituale più
che quella materiale. Se si vuol vedere Dio bisogna
prima morire, cioè far tacere la propria presunzione di
sapere già tutto, di essere i possessori della verità,
di poter arrivare a Dio con le sole proprie forze e di
poterlo racchiudere entro formulette e schemi
personalizzati da ostentare orgogliosamente al primo
sprovveduto che capita. È
necessario far tacere il “teologo” che è in noi e
lasciare spazio al “neofita” fresco di conversione, che
non ha vergogna di stare continuamente a bocca aperta
come un ebete, felice di stupirsi di tutto. E il
Signore, appunto, invita Elia ad uscire dalla caverna e
a fermarsi “spoglio di tutto” alla sua presenza. Ed
ecco, il Signore passò (1Re 19,11).
Vento-terremoto-fuoco, segni stereotipi della teofania
divina lungo l’arco della
Storia della Salvezza: da Abramo a Mosè… fino a Gesù e
all’esperienza della Pentecoste. Ma per Elia non sarà
così. Lui vivrà qualcosa di diverso. Dio non si lascia
incontrare chiedendoci di segnargli un appuntamento
nella nostra agenda. No, l’appuntamento lo stabilisce
lui, come-dove-quando vuole.
Infatti, per ben tre volte si ripete: ma il Signore
non era… (1Re 19,11-12). Dice a proposito s.
Agostino, nel commento al salmo 85: “…pensa a quello che
tu stesso pensi di Dio e ogni volta ripeti: Sì, ma Dio
non è questo, Dio non è questo!…”.
Voce di un silenzio
leggero che
butta giù ogni nostra “costruzione” su Dio. È solo nel
silenzio che Elia può “vedere”il Signore e stare
veramente alla sua presenza. Nei segni grandiosi del
vento, del terremoto e del fuoco Dio taceva, nell’umiltà
del silenzio Dio parla e si rivela all’uomo che lo
cerca, superando ogni sua aspettativa. Il Dio in cui
crediamo non è un artista del circo che si presta ad
affascinare il pubblico con esibizioni stupefacenti. No,
egli vuole lasciarci “senza fiato”, anzi aspetta proprio
che facciamo tacere tutto in noi e fuori di noi per poi
mostrarsi personalmente, “a faccia a faccia”.
Elia si era arruolato tra
le fila del “Dio degli eserciti” ed aveva condotto la
sua vita e la sua missione in funzione di questo. Non
aveva ancora capito di essere stato chiamato dalla
voce di un silenzio leggero. Solo dopo questa forte
esperienza il nostro profeta potrà ritornare sui suoi
passi (1Re 19,15), consapevole di aver riconosciuto la
presenza di Jahvèh nella sua vita e di trovarvisi
dinanzi, di “stare”, nel senso
di “avere consistenza-abitare-fermarsi-essere
irremovibile”.
Spesso ci interroghiamo circa la presenza e la
manifestazione di Dio nelle grandi circostanze della
vita: eventi grandiosi, belli o brutti, personali o
mondiali che ci stimolano a riflettere e ad avanzare
supposizioni più o meno plausibili. Il più delle volte
invece, in quello che comunemente chiamiamo “il banale
quotidiano”, la vita ci scorre davanti e a malapena ci
rendiamo conto di quello che succede intorno a noi.
Questo è il nostro venticello leggero, il momento in cui
risuona la voce: Esci e fermati alla presenza del
Signore (1Re 19,11). Usciamo dal tram-tram monotono
e fermiamoci anche solo per un momento per assistere ad
un evento meraviglioso. Dio sta passando nella nostra
vita e ci fa fare esperienza di lui.
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Novembre /
Dicembre 2006 - Anno X - n° 3
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Sangue
straniero nelle vene d'Israele
- quarta parte -
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Con questo nostro incontro
ci immergiamo in un libro della Scrittura tanto piccolo
quanto bello e suggestivo: è il libro di Rut e si
articola in vivaci scene della vita quotidiana di un
dolce e nostalgico passato che l’autore stesso sembra
aver quasi dimenticato, tanto da descriverlo con toni
favolistici. Vi troviamo la campagna, la mietitura e un
incontro fortuito che porterà alle nozze dei due
protagonisti del racconto.
Al di là però del classico
“C’era una volta” e del romantico “E vissero felici e
contenti”, pure presenti, l’autore del libro di Rut
vuole trasmetterci qualcosa di veramente significativo
in quella che è la storia d’Israele. Proviamo a
scoprirlo.
Siamo nel periodo che
precede il sorgere della monarchia e una normalissima
famiglia di Betlemme a causa della carestia è costretta
ad emigrare nella vicina campagna di Moab (territorio
straniero al di là dei confini d’Israele).
Contrariamente a quanto prescrive la legge mosaica, i
due figli degli emigrati sposano due donne moabite e,
per questo, pagane. Ma tutto ciò non sembra affatto
scandalizzare l’autore del nostro libro, che anzi se ne
serve come di un particolare necessario su cui far leva
per la “morale della favola”.
Ad un certo punto la
svolta: muoiono il padre e i due figli, e Noemi rimane
sola con le sue nuore. Avendo avuto notizia della fine
della carestia nel proprio paese d’origine, decide di
tornarvi per trascorrere gli ultimi anni nella terra che
il Signore aveva donato al suo popolo. Congeda perciò le
nuore, esortandole a rientrare nella casa paterna con la
speranza di un nuovo e più fortunato matrimonio. Seppure
con profondo dolore, Orpa lascia la suocera e ritorna
al suo popolo e ai suoi dèi (1,15). Rut
invece resiste quasi a dispetto della più che
ragionevole insistenza della suocera, alla quale ormai
si è legata e che non vuole assolutamente abbandonare.
Rut è davvero “l’amica” (secondo l’etimologia del nome)
che rimane al fianco di Noemi e alla quale restituirà la
pienezza della gioia e di una vita significativa.
Decidendo di partire con la
suocera, Rut accetta prima di tutto il suo credo, il suo
Dio, le sue leggi, e lo fa con una bellissima
professione di fede che altro non è se non la più
espressiva formula di alleanza che sia mai stata
pronunciata, tanto dal “vecchio” quanto dal “nuovo”
Israele: Non insistere con me perché ti abbandoni e
torni indietro senza di te; perché dove andrai tu andrò
anch’io; dove ti fermerai mi fermerò; il tuo popolo sarà
il mio popolo e il tuo Dio sarà il mio Dio; dove morirai
tu, morirò anch’io e vi sarò sepolta. Il Signore mi
punisca come vuole, se altra cosa che la morte mi
separerà da te (1,16-17).
E Dio non tarderà a
rispondere a questa sua fedele ancella.
Le due donne – specifica
l’autore – arrivarono a Betlemme quando si cominciava
a mietere l’orzo (1,22): così Rut si sottopone
subito alla legge ebraica e, poiché vedova, accetta di
sfamare sé e la suocera andando a spigolare per la
campagna. È qui che incontra Booz, un parente della
famiglia di suo marito, che venuto a conoscenza della
storia di questa giovane donna le rivolge la benedizione
di Jahvèh: Mi è stato riferito quanto hai fatto per
tua suocera dopo la morte di tuo marito e come hai
abbandonato tuo padre, tua madre e la tua patria per
venire presso un popolo, che prima non conoscevi. Il
Signore ti ripaghi quanto hai fatto e il tuo salario sia
pieno da parte del Signore, Dio d’Israele, sotto le cui
ali sei venuta a rifugiarti (2,11-12). Essendo poi
stata informata da Noemi circa la legge del levirato
(una vedova senza figli sposa il parente più stretto del
marito defunto per assicurargli una discendenza), Rut ne
richiede essa stessa l’attuazione, con grande sorpresa e
ammirazione da parte di Booz. Dall’unione nuziale
nascerà Obed, padre di Iesse, padre di Davide
(4,17).
Non c’è che dire: si tratta
proprio di una romantica storia struggente. Chissà se le
donne d’Israele la raccontavano – e la raccontano ancora
– ai loro bambini per farli addormentare.
Tuttavia, se questa storia
è incorporata nel Canone delle Scritture (cioè l’insieme
di libri ritenuti divinamente ispirati e, dunque,
“Parola di Dio”) avrà certamente un messaggio di
spessore più elevato da trasmettere a chiunque si
accosti alla sua lettura. Vediamo un po’.
Si parla subito di una
terra straniera e perciò pagana: Moab per l’esattezza.
Una terra ed un popolo odiati “a pelle” dagli ebrei,
tanto da spenderci contro anche qualche legge:
“L’Ammonita e il Moabita non entreranno nella comunità
del Signore; nessuno dei loro discendenti,
neppure alla decima generazione, entrerà nella
comunità del Signore; non vi entreranno mai
perché non vi vennero incontro con il pane e con l’acqua
nel vostro cammino quando uscivate dall’Egitto… Non
cercherai né la loro pace, né la loro prosperità, finché
tu viva, mai” (Dt 23,4-5.7). Eppure Rut è una moabita
che sposa un ebreo della tribù di Giuda, la tribù
“regina” tra le dodici d’Israele, la tribù dalla quale
nascerà il Messia, il liberatore del popolo (Gen 49,
8-10). Ma ancora più forte è la conclusione del libro:
la moabita è mostrata quale antenata addirittura del
grande re Davide, il re per eccellenza, il favorito di
Jahvèh. Dunque, sangue straniero nelle vene d’Israele,
nelle vene di un popolo che da sempre ha rivendicato per
sé la purezza della fede e dei legami parentali.
Israele: un popolo al quale è inesorabilmente “sbattuta
in faccia” la verità, che cioè il suo sangue non è
proprio del tutto “blu”. Anzi!
Ma questo – dicevo – non
scandalizza affatto l’autore sacro e ce lo dimostra la
sua simpatia quasi reverenziale nei confronti di Rut la
quale, con la sua storia e soprattutto con la sua
professione di fede, diventa l’emblema di ogni ebreo –
ma anche di ogni cristiano – che sceglie di entrare in
rapporto di Alleanza con Dio e che, per la sua risoluta
decisione (Quando Noemi la vide così decisa ad
accompagnarla…- Rt 1,18), riesce ad abbattere le
barriere innalzate dalla legge.
Rut è una vera ebrea,
figlia di un popolo al quale ha accettato di appartenere
e del quale ha accolto la pienezza della sua realtà
(credo religioso, tradizioni…). Con quale devoto e
libero assenso si sottopone alla legge (forse un po’
umiliante) che permette alle vedove di spigolare tra le
messi per il proprio sostentamento (con il pericolo
legato ad una bellezza giovanile che non passa di certo
inosservata – Rt 2,9). Ma, ancora, con quanta più dolce
accondiscendenza accetta con amore un matrimonio imposto
dal dovere: Stendi il lembo del tuo mantello sulla
tua serva, perché tu hai il diritto di riscatto
(3,9), dice a Booz, parente del marito defunto, fino a
quel momento sconosciuto e per giunta più anziano di
lei. Parole – quelle di Rut – non meno toccanti di
quelle che Jahvèh ha pronunziato su Israele per bocca
del profeta: “Passai vicino a te e ti vidi; ecco, la tua
età era l’età dell’amore; io stesi il lembo del mio
mantello su di te… giurai alleanza con te, dice
il Signore Dio, e divenisti mia” (Ez 16,8). Nella
tradizione semitica, stendere il mantello è una
simbologia nuziale: con questo gesto l’uomo si impegna a
proteggere la futura moglie, le dà un’identità oramai
inscindibile dalla propria, fa con lei un’alleanza.
Nella persona di Booz, ebreo della tribù di Giuda, è Dio
stesso che giura Alleanza eterna anche con i pagani che
accettano d’innestarsi nella radice santa che è Israele,
il popolo eletto, erede e depositario della promesse
divine (Rm 11,16-24). “Il popolo discendente da Abramo
sarà il depositario della promessa fatta ai patriarchi,
il popolo della elezione, chiamato a preparare la
ricomposizione, un giorno, nell’unità della Chiesa, di
tutti i figli di Dio; questo popolo sarà la radice su
cui verranno innestati i pagani diventati credenti” (CCC
60).
Non a caso è proprio Davide
il “figlio” di questa Alleanza, perché è dalla
discendenza di Davide che Dio susciterà il Messia, il
suo Figlio e Servo obbediente, che restaurerà le sorti
delle tribù d’Israele. Dio non ha paura di contaminarsi
col sangue pagano. Tutt’altro! Nella sua sapienza al di
là di ogni logica umana, Egli ha voluto che suo Figlio,
nella successione dinastica, nascesse da una donna
pagana che diventa così, quasi paradossalmente, “madre
di Dio” (Mt 1,1-16). Gesù stipulerà la Nuova ed Eterna
Alleanza nel suo sangue, ed è significativo che in esso
sia confluito quello del popolo ebraico e quello dei
popoli pagani: la tradizione semitica ci insegna che
dove c’è comunione di sangue c’è anche comunione di
vita. “In Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i
lontani siete diventati i vicini grazie al sangue di
Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che
ha fatto dei due un popolo solo… per creare in se
stesso, dei due, un solo uomo nuovo… e per riconciliare
tutti e due con Dio in un solo corpo… i Gentili cioè
sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa
eredità, a formare lo stesso corpo, e ad essere
partecipi della promessa” (Ef 2,13-16; 3,6).
Nel Regno di Dio non
occorre alcuna carta d’identità e non esiste alcun
cavilloso procedimento burocratico per ottenerne la
cittadinanza: la storia di Rut dimostra che Dio è il Dio
di tutte le genti che in Abramo, in Isacco e in Giacobbe
hanno riconosciuto la radice fondamentale del grande
albero genealogico che ci fa tutti figli di un unico
Padre e sua stirpe eletta. “In verità sto rendendomi
conto che Dio non fa preferenze di persone, ma chi lo
teme e pratica la giustizia, a qualunque popolo
appartenga, è a lui accetto" (At 10,34-35).
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Gennaio /
Febbraio 2007 - Anno XI - n° 1
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Il
"servo"
di jahvèh
- quinta parte -
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Per chi ha dimestichezza
con la Bibbia, il titolo di questo articolo richiama
subito alla mente quella sezione del libro di Isaia che
tratta dei quattro canti del servo del Signore (Is
42-53). Eppure, non è soltanto al grande profeta
che intendo riferirmi perché nella Bibbia non c’è
unicamente “quel” servo del Signore. A partire dal primo
versetto del capitolo 42: Ecco il mio servo
che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio
(Is 42,1) ha inizio un
elenco interminabile di personaggi, maschili e
femminili, che incarnano mirabilmente l’attributo
di sottomissione.
Isaia afferma subito che il
“servo” trova la sua sussistenza in Dio ed è oggetto
della sua compiacenza, della sua predilezione e, molto
più importante, della sua elezione. Jahvèh stesso
lo rivendica come sua proprietà: è “mio”.
Sappiamo che nell’antichità il padrone marchiava i
propri servi per
suggellarne l’appartenenza: erano suoi e nessuno poteva
usurparne il diritto. D’altro canto, un uomo che si
metteva al servizio di un potente, lo accettava come suo
signore e gli prestava obbedienza fino alla morte. Anche
il servo di Jahvèh porta il marchio: Facciamo l’uomo
a nostra immagine, a nostra somiglianza (Gen 1,26);
e si sottopone alla sua signoria: Adora il Signore
Dio tuo e a lui solo rendi culto (Mt 4,10).
Ma chi è, propriamente, il
servo di Jahvèh? Questa figura salvifica che presenta i
tratti della sofferenza e dell’intercessione? Chi è
questa figura che i cristiani vedono pienamente
realizzata in Gesù di Nazaret: Messia, Figlio dell'uomo
e Servo obbediente di Dio?
L’elenco, dicevamo, sarebbe
infinito. La storia sacra ce ne da diverse descrizioni
affermando così una verità indiscutibile:
servo è colui che si mette al servizio di Dio, che
lo accetta come suo Signore, che si considera come sua
proprietà, che desidera onorarlo e amarlo con tutta la
sua vita, colui che vuole liberamente obbedirgli e che
in lui e da lui riconosce di avere sussistenza. Tutto
questo perché sa di essere stato scelto e amato
precedentemente e gratuitamente. In poche parole, il
servo di Jahvèh è un uomo (nell’accezione più
generale del termine) che, nella sua piena libertà,
risponde con un assenso alla scelta-elezione previa da
parte di Dio… e lo fa considerandosi suo servo, sua
appartenenza.
Israele è, per eccellenza,
il popolo-servo. Il termine “ebreo”, diventato nel tempo
sinonimo di israelita con riferimento esplicito
alla dimensione religiosa, in origine indicava la
condizione di schiavitù subita in Egitto prima del
grande Esodo. Con l’Alleanza nel deserto del Sinai e con
l’arrivo nella Terra Promessa, gli ebrei diventano
servi, non più di un uomo potente (il faraone), bensì
del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Una servitù
che, per la comunanza della radice etimologica, si
esprime nel culto, nell’adorazione e nell’obbedienza ai
comandi divini. Tu, Israele mio servo, tu Giacobbe,
che ho scelto… sei tu che io ho preso dall’estremità
della terra… e ti ho detto: “Mio servo tu sei ti ho
scelto”… io sono il tuo Dio (Is 41,8-10).
Dunque tutto il popolo,
nella sua unità costitutiva, è servo di Dio. Tutto il
popolo è chiamato a rendergli culto, cioè a “coltivare”
un particolare rapporto di elezione-alleanza con il Dio
dei suoi padri. Da ciò deduciamo che sin dalla
creazione, Dio ha voluto che l’uomo, coltivando la terra
affidatagli, rendesse culto al Creatore e ne
riconoscesse così la signoria (cfr. Gen 2,15). Questo è
così vero che nella Bibbia la ribellione al Signore è
descritta come un terreno incolto, una natura selvatica:
La vigna del Signore degli eserciti è la casa
d’Israele… Egli si aspettava giustizia ed ecco
spargimento di sangue… La renderò un deserto, non sarà
potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni (Is
5, 6-7). Mentre il giardino coltivato, ossia il
“paradiso”, diventa sinonimo di alleanza e di comunione
intima con Jahvèh: Il mio diletto era sceso nel suo
giardino fra le aiuole del balsamo a pascolare il gregge
nei giardini e a cogliere gigli (Ct 6,2).
Ma non soltanto il popolo
nella sua unitarietà è il servo di Jahvèh. Abramo alle
Querce di Mamre e Lot alle porte della città di Sodoma
incontrano gli inviati di Dio (nel linguaggio biblico
rappresentano Dio stesso) e si dichiarano loro
servitori. Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi
occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo…
Miei signori, venite in casa del vostro servo… (Gen
18,3;19,2). Così anche Isacco, Giacobbe, Mosè, Giosuè, i
sacerdoti e i profeti sono sempre appellati
come tali dall’autore sacro o addirittura da Dio
stesso: Io inviai a voi tutti i miei servitori, i
profeti (Ger 7,25).
Se poi prendiamo in mano le
pagine del libro di Isaia che ho citato all’inizio,
vi leggiamo le più belle parole che il Signore abbia
mai pronunciato rivolte al
suo servo: Ho posto il mio spirito su di lui…
ti ho preso per mano… ti ho chiamato per nome: tu mi
appartieni… tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei
degno di stima e io ti amo… io sono con te… il Signore
ti ha fatto, ti ha formato e ti aiuta… non sarai
dimenticato da me… ti ho disegnato sulle palme delle mie
mani (Is 42,1.6;43,1.4-5;44,2.21;49,16).
Anche nel Nuovo Testamento
ritroviamo la figura del servo: Maria, la madre del
Signore (chiamata così da Elisabetta), non fa di questa
predilezione un motivo di vanto. Anzi, preferisce
identificarsi con un termine più consono al suo stato:
Sono la serva del Signore… ha guardato l’umiltà della
sua serva (Lc 1,38.48).
Giovanni Battista, il
precursore, all’inizio della missione pubblica di Gesù è
colui che si fa da parte, che “diminuisce” perché
soltanto “lui” cresca (cfr. Gv 3,30).
Lo stesso Paolo apre le sue
lettere definendosi
servo di Cristo Gesù (Rm 1,1).
E dopo la Pentecoste,
all’interno delle prime comunità cristiane (cfr. At
6,1-7) è istituita la “diakonìa”, un ministero che si
fonda sul servizio, come insegna Gesù stesso (cfr. Gv
13, 1-14). I diaconi-servitori si occupavano della
distribuzione delle elemosine e della amministrazione
dei beni ecclesiastici.
Fin qui tutto normale. Ma
se ad un certo punto si scambiassero i ruoli e fosse Dio
il servo?
Cristo Gesù, pur essendo
di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua
uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la
condizione di servo e divenendo simile agli
uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte (Fil 2,5-8).
All’inizio di questo
articolo, abbiamo affermato che Gesù possiede tutte le
caratteristiche del servo: ha il marchio del suo
“padrone” (apparso in forma umana) e presta obbedienza
fino alla morte. Il fatto stesso di poterlo chiamare per
nome (lo chiamerai Gesù – Lc 1,31) indica la sua
disponibilità a lasciarsi possedere dall’uomo (fino a
quel momento infatti Dio non aveva mai rivelato il suo
nome).
Gesù è il vero Servo di
Dio che si fa anche servo dell’uomo. Egli è colui
che è venuto per servire e non per essere servito (cfr.
Mc 10,45) e lo fa fino al dono totale di sé al Padre e
ai fratelli perché – e
qui sta la novità del Servo di Jahvèh descritto dal
profeta – nonostante la sofferenza che lo porta alla
morte Gesù salva.
Ci sono due episodi
emblematici e tra loro molto simili nella vita di Gesù,
dai quali si evince questa realtà: subito dopo il
battesimo al Giordano e al momento della Trasfigurazione
si ode una voce dal cielo che dice: Questi è il
Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto
(Mt 3,17;17,5). Sono parole che riprendono letteralmente
Isaia 42,1, ma, grazie al duplice significato del
termine greco (pais) sostituiscono “servo” con
“figlio”: Gesù è servo perché è figlio ed è figlio in
quanto si è fatto servo.
Anche in Luca troviamo
qualcosa di simile: il figlio prodigo, pentito, ritorna
a casa e chiede al padre di poter essere trattato almeno
come un servo, ma è accolto quale figlio, com’è
realmente. Il fratello maggiore, invece, che rivendica
il diritto di aver sempre servito fedelmente il padre, è
da questi chiamato “figlio”, scoprendo così il valore
autentico della sua identità (cfr. Lc 15,11-32).
Ricordiamo anche l’episodio
della lavanda dei piedi narrata dal quarto Evangelista
(cfr. Gv 13,1-20). Scrive s. Paolo ai Filippesi che, in
quella occasione, Gesù si spogliò e umiliò se stesso,
assumendo la condizione di servo chiedendo ai discepoli
di seguire il suo esempio.
Ogni cristiano allora, se ha ben compreso a chi
appartiene, è chiamato a servire imitando Colui che è il
modello. E non si tratta di un servizio che umilia e
spersonalizza. È invece un atto di amore gratuito, di
piena libertà che si dona in un rapporto di reciproca
comunione, a tal punto da sentirci dire: Non vi
chiamo più servi… ma vi ho chiamati amici perché vi
ho fatto conoscere (cioè vi ho fatto sperimentare in
profondità) le cose del Padre mio (Gv 15,15). È a questo
punto che si celebra la relazione interpersonale e,
insieme al salmista, apriamo il dialogo con Dio
rispondendo: Sì, io
sono il tuo servo, Signore, io sono tuo servo, figlio
della tua ancella (Sal 115,16).
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Maggio / Giugno
2007 - Anno XI - n° 2
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Un ribelle per Dio (1)
- sesta
parte -
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Continuiamo il nostro panorama biblico prendendo in
esame un libro tanto piccolo quanto denso di messaggi
teologici significativi: il libro di Giona. Esso è stato
inserito tra i profeti minori anche se, vedremo,
presenta delle caratteristiche tutte particolari. Si
tratta di un libro che con la profezia in senso stretto,
in realtà, a poco a che fare. È vero, c’è un oracolo che
Dio consegna al suo messaggero perché lo faccia
conoscere ai destinatari, ma il tutto acquista uno
specifico sapore di ammaestramento del profeta stesso e,
attraverso di lui, di quanti si pongono in certo qual
modo al suo livello. Dunque un racconto didattico: più
che un annuncio, vi è qui un insegnamento che Jahvèh
vuole trasmettere e proprio a chi invece a sua volta
avrebbe dovuto consegnarlo ad altri.
L’inizio è classico di qualunque altra vocazione
profetica: Fu rivolta a Giona figlio di Amittai
questa parola del Signore: Alzati, và a Ninive…
(1,1-2); non lo è tuttavia il prosieguo. Infatti,
continua subito con un eloquente “però”. Giona, come
ogni chiamato che si rispetti, si alza e va… però per
fuggire lontano dal Signore (1,3).
Se è vero che “il buongiorno si vede dal mattino”, ci si
prospetta una lettura avvincente: Dio affida una
“missione speciale” ad un uomo che in realtà gli si
ribella sin dal primo momento. Insomma, un osso duro che
certamente gli darà filo da torcere.
Ma qual è questa strana missione che provoca una tale
reazione del nostro profeta? Và a Ninive e proclama
che la loro malizia è salita fino a me (1,2). Tutto
qui? Cosa c’è di tanto spaventoso da dovere scappar via?
Primo: Ninive, capitale dell’Assiria, è il peggior
nemico d’Israele (e quindi di Giona); è il terribile
mostro che ha assoggettato il popolo con ogni crudeltà
costringendolo all’esilio dalla Terra Promessa. Secondo:
l’oracolo pronunciato da Jahvèh non è poi così innocuo
come sembra. «Dì al tuo peggior nemico che io, Dio, sono
a conoscenza di tutto il male che compie». Si direbbe
una raffinata vendetta da parte del profeta che, a nome
di Dio e dall’alto di tale pulpito, può sbattere in
faccia al nemico tutti i suoi peccati e, puntando il
dito, con fare altero può gridargli fino in fondo la sua
colpevolezza. Ma non è così. In realtà nella Bibbia le
minacce di Dio sono sempre un’offerta di salvezza, un
invito alla conversione, una volontà di misericordia.
Come un papà che sgrida severamente il figlio che ne ha
combinata una delle sue, ma subito gli avvicina la
guancia per farsi dare un bacio fragoroso come richiesta
e accettazione di scuse. Insomma, Giona deve andare dal
suo peggior nemico e dirgli: «se desisti dal male, Dio è
pronto a perdonarti». E no, questo proprio no, è una
cosa che non sta né in cielo né in terra. Giona non è
d’accordo e scappa via da un Dio che si fa mettere i
piedi in faccia da un mucchietto di niniviti senza
scrupoli. Ma che razza di Dio è quello che non riesce a
fare vendetta del male subìto dal suo popolo? Non era
stato forse proprio lui a giurare, in sede di Alleanza,
che i nemici d’Israele li avrebbe considerati come suoi
propri nemici?
Ormai al colmo della stizza, Giona comincia il suo
cammino in discesa: scende a Giaffa per imbarcarsi e
fuggire lontano dal Signore; scende nella stiva della
nave; “scende” in un sonno profondo. Quella di Giona non
è la naturale obiezione che, di primo acchito, ogni
chiamato manifesta giudicandosi troppo piccolo per una
missione tanto grande e speciale. No. Giona non si fa
questi problemi. Lui pensa proprio di essere all’altezza
di tale compito e non ha dubbi sulla sua riuscita. Ma è
proprio questo che non vuole: il suo peggior nemico non
deve convertirsi, non deve essere salvato. Lui ne ha
sognato un destino tutto diverso: la distruzione. È la
legge del taglione: il male va ripagato con la sua
stessa moneta, alla pari. È questo un modo per
denunciare e punire apertamente ogni sorta di male, per
farne capire l’entità. Dio deve fare vendetta per
manifestare le colpe di Ninive, non può soprassedere: è
una questione di giustizia. La giustizia di Dio invece è
molto diversa e si chiama perdono.
Giona quindi scende sempre più in fondo al suo radicale
rifiuto di Dio e della sua misericordia. Non vuole
proprio sentirne parlare.
Dio però non molla e vuole dare una lezione al suo
profeta. Recita l’orante del Sal 138: “Dove andare
lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua
presenza? Se salgo in cielo, là tu sei, se scendo negli
inferi, eccoti”. Non c’è luogo dove il profeta possa
nascondersi.
Dio scatena una tempesta spaventosa. I marinai, pagani,
invocano ognuno la propria divinità per propiziarsene i
favori. Il profeta di Jahvèh invece non prega ma dorme.
Viene riportato alla realtà proprio dai marinai pagani
che lo sollecitano a svegliarsi e a pregare. Gettano le
sorti per sapere chi è il colpevole di tanto male e, non
a caso, cadono proprio su Giona. Alla richiesta di
spiegazioni egli risponde prontamente: Sono Ebreo e
venero il Signore Dio del cielo, il quale ha fatto il
mare e la terra (1,9). Una risposta non molto esatta
in verità. Anziché “venero”, avrebbe dovuto dire “fuggo,
rifiuto”. Sorprende però che il profeta, nel parlare di
sé, fa subito riferimento a Dio. Nonostante tutte le
resistenze, egli non può fare a meno di professare la
sua fede che rivela in filigrana la sua vera identità.
Trovato il colpevole non resta che buttarlo in mare per
placarne la furia. A questo punto i marinai si
convertono al Dio di Giona, mentre questi tocca il fondo
di tutta la sua vicenda. Dio manda un grosso pesce che
inghiotte il profeta per tre giorni e tre notti. Da quel
particolare rifugio sottomarino egli eleva (finalmente!)
la sua preghiera. Ma aspettiamo prima di cantar
vittoria.
Il Signore, ancora una volta, comanda e il pesce libera
Giona.
Chissà se tutto questo gli è servito per imparare la
lezione. Riavvolgiamo il nastro e ricominciamo da capo:
forse è la volta buona.
(continua nel prossimo articolo)
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Luglio / Agosto
2007 - Anno XI - n° 3
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Un ribelle per Dio (2)
- settima
parte -
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(continua dal articolo precedente)
Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola
del Signore. Alzati, và a Ninive… Giona si alzò e andò a
Ninive secondo la parola del Signore (3,1-3). Ce
l’abbiamo fatta, possiamo essere soddisfatti. Giona
comincia a percorrere la grande città pronunziando il
famoso oracolo.
Colpo di scena: non ha ancora terminato il suo giro che
già ne raccoglie i frutti. I cittadini di Ninive
credettero a Dio e bandirono un digiuno… dal più grande
al più piccolo… fino al re di Ninive (3,5-6). E
naturalmente Dio vide le loro opere, che cioè si
erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si
impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare
loro e non lo fece (3,10). Tutto è bene quel che
finisce bene.
Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu
indispettito (4,1).
Ci risiamo un’altra volta. Che delusione: tanta fatica
per niente. Certo però che non si è mai vista una
persona che non prova soddisfazione per un suo successo,
ma che anzi se ne indispettisce come un bambino
capriccioso.
Giona fa la sua bella lamentela al Signore. Finalmente
ha il coraggio di ammettere apertamente la verità: non
tollera la misericordia di Dio verso i peccatori (ma
forse non lo è anche lui? Magari non lo sa) e per questo
era fuggito via, proprio per non essere complice di
perdono e di salvezza.
Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è
per me morire che vivere! (4,3). Ormai ha davvero
toccato il fondo e il Signore glielo fa prontamente
notare: Ti sembra giusto essere sdegnato così?
(4,4). Permaloso qual è, neanche risponde, ma esce dalla
città e sta a guardare da lontano cosa succede.
Anche questa volta Dio non perde l’occasione per fargli
capire che sta sbagliando: gli fa crescere vicino una
pianta di ricino perché gli faccia ombra e Giona ne gode
immensamente. Dopo un po’ però Dio manda un verme a
rodere il ricino e questo si secca. Fa poi soffiare un
vento afoso fino a far star male Giona e a portarlo a
dire: Meglio per me morire che vivere (4,8). E
ancora Dio: Ti sembra giusto essere così sdegnato per
una pianta di ricino? (4,9). E finalmente Giona
risponde: Si, è giusto; ne sono così sdegnato al
punto da invocare la morte! (4,9). Che tipo: non si
sarebbe lasciato minimamente scalfire dalla distruzione
di un intero popolo, anzi, e invece arriva al punto di
disprezzare la sua stessa vita, pur di non perdere il
sollievo procurato da una semplicissima pianta.
La vicenda si conclude - effetto sorpresa - con una
domanda aperta rivolta da Dio al suo profeta e, in lui,
a ciascuno di noi: Tu ti dai pena per quella pianta
di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica… e io non
dovrei aver pietà di Ninive, quella grande città, nella
quale vi sono più di centoventimila persone, che non
sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra?
(4,10-11). Dio sta cercando di far riflettere il suo
uomo, vuole che apra il cuore e si lasci guidare dalla
legge dell’amore che porta a compimento quella antica,
fatta di prescrizioni e doveri che induriscono gli
animi. Infatti, qualche secolo dopo, all’obiezione dei
farisei sulla validità della Legge (“Perché allora Mosè
ha ordinato…?” - Mt 19,7), Gesù risponde con semplicità
e fermezza: “Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha
permesso…” (Mt 19,8).
Dio ha voluto far conoscere a Giona, per via
esperienziale, la sua misericordia, la sua tenerezza e
premura (lo ha salvato dal mare e dal grosso pesce e gli
ha dato l’ombra fresca di una pianta) ed egli ne ha
goduto; non ha saputo però fare altrettanto e, proprio
per questo, da vittima di un crudele nemico si trasforma
a sua volta in carnefice e aguzzino. Giona non riesce a
capire questo Dio che pure dice di venerare e servire,
non lo conosce veramente, per questo fugge via dinanzi
ad una chiamata che lo sconcerta, anzi lo scandalizza.
Giona non prega, non riesce a dire: sia fatta la tua
volontà… rimetti a noi i nostri debiti, come noi li
rimettiamo… Giona è tristemente ripiegato su se stesso,
sul suo male e sul suo bene e non vede al di là dei suoi
interessi. Il suo nome in ebraico significa “colomba”,
l’animale sacro proprio per gli abitanti di Ninive e,
per tutti, simbolo della pace e dell’amore. In questa
vicenda però la nostra colomba non riesce a spiccare il
volo al di sopra della vendetta e della condanna. Una
colomba testardamente aggrappata al suo ricino che ormai
non c’è più e che, proprio per questo, non sa portare
agli uomini un emblematico ramoscello d’ulivo.
La storia di Giona evidenzia molto bene la
contrapposizione tra un chiamato che si ribella e oppone
rifiuto e una serie di “personaggi pagani” che invece
sanno obbedire a Jahvèh. I marinai, i niniviti e i loro
animali, il grosso pesce, il verme e… soprattutto la
creazione stessa, cioè il mare, il ricino, il vento
afoso. Come nella Genesi, ogni realtà creata obbedisce
alla parola di Dio e attua ciò che essa significa.
Solamente l’uomo, che Dio ha plasmato perché sia suo
amico, non sa mettersi al suo giusto posto e giudica
secondo le sue corte vedute: un albero “buono da
mangiare, gradito agli occhi e desiderabile” (Gen 3,6)
fa presto dimenticare l’ammonimento divino; Ninive, la
grande città malvagia e assassina, merita soltanto di
essere distrutta affinché sia fatta giustizia.
Tuttavia, nonostante il netto rifiuto, Giona porta
avanti la sua missione, realizzando così pienamente la
sua vocazione e perciò la sua vera identità. Egli è
profeta e dovunque possa scappare, anche in capo al
mondo, non potrà fare a meno di portarsi dietro se
stesso e la sua realtà. Egli è l’uomo chiamato da Dio ad
annunciare e offrire il suo perdono e il suo amore. Non
si tratta però di un perdono frutto di un ingenuo
buonismo. Qui si parla di perdono vero, quello che non
minimizza la colpa, ma che anzi la condanna apertamente.
Il male c’è e deve essere superato e distrutto. Questo
può farlo solamente chi è vittima innocente: Dio nel suo
Figlio Gesù. Per questo, nei secoli dei secoli, egli è
l’unico in grado di dare il perdono che salva, che
riscatta la vita di chi ha sbagliato offrendogli una
nuova possibilità, una nuova esistenza. Chi commette un
male, molto spesso non si rende realmente conto del
grave danno che provoca, è come quei centoventimila
niniviti che non sanno distinguere fra la mano destra e
la sinistra. “Padre, perdonali, perché non sanno quello
che fanno” invoca Gesù dalla croce (Lc 23,34).
È stata davvero una lettura avvincente, proprio come
dicevamo all’inizio di questo lungo viaggio in compagnia
del profeta Giona.
Permettetemi in finale una postilla: non facciamo il suo
stesso errore giudicandolo troppo male. Egli è stato
figlio del suo tempo e delle sue tradizioni. Era normale
per un Israelita parlare di giustizia in termini di
vendetta. Attenzione però: non si trattava di vendetta
cieca e feroce. La pena era sempre proporzionata alla
colpa, né più né meno (e questo era già un grosso passo
avanti). In secondo luogo, la vendetta era molto spesso
riservata a Dio. Difficilmente si assisteva al classico
“Mezzogiorno di fuoco” del Far West, né vi erano lotte
tra cosche rivali perché si lasciava a Dio il compito di
prendersi cura del suo popolo e di punirne i nemici. In
Giona c’è ognuno di noi, bambino capriccioso incapace di
gioire del bene degli altri, incapace di cambiare pagina
e cominciare una nuova storia senza dover
necessariamente tornare a sbirciare qua e là nel
passato, alla ricerca di chissà quale brutto scheletro.
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Ottobre /
Novembre 2007 - Anno XI - n° 4
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Sentiero a nord-est
- ottava
parte -
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“All’inizio del cammin di nostra vita ci ritrovammo per
un deserto, chè la diritta via ci era oscura”.
Parafrasando il grande poeta Dante, così avrebbe potuto
esprimersi ciascun israelita che avesse dovuto
raccontare la sua storia di “popolo”.
Nell’ampia letteratura di ogni epoca e di ogni nazione,
la vita è sempre stata paragonata ad un cammino. Più o
meno lungo, più o meno faticoso, più o meno ricco di
esperienze significative, più o meno consapevole della
meta alla quale giungere, pur tuttavia un cammino, un
percorso lungo un sentiero preciso e specifico
per ciascuna persona.
La Sacra Scrittura ci narra del grande cammino del
popolo d’Israele, un cammino caratterizzato da diverse
tappe significative.
Israele è un popolo da sempre nomade: per condizione
(pastori che vivono in un territorio prevalentemente
desertico, costretti quindi a spostarsi continuamente in
cerca di pascoli) e per costrizione (frequenti periodi
di carestia che inevitabilmente richiedono la migrazione
verso zone più ricche; l’esodo dalla schiavitù egiziana;
la deportazione e il rientro dall’esilio; la
diaspora-dispersione nelle regioni più remote). Proprio
a causa di questo continuo movimento, Israele non
conosce nella sua lingua - e nella sua vita - il termine
e il concetto di “rimanere”. Siamo di fronte ad un
popolo che è sempre in cammino, che non ha stabilità né
una fissa dimora. Un popolo costretto ed abituato a
vivere nelle tende, a piantarle e a levarle di volta in
volta, di luogo in luogo. Un popolo che comincia a
sentirsi veramente tale solo quando - spoglio di tutto,
senza provviste, senza itinerario, senza scorte armate -
intraprende un nuovo cammino, non più spinto da
necessità materiali, bensì attratto da un invito e da
una promessa da parte di Dio, il Dio dei suoi padri.
Comincia così un cammino che dura quarant’anni, cioè
tutto il tempo necessario affinché Israele capisca di
essere il popolo di Dio, di essere stato scelto da lui
tra tutti gli altri e di appartenergli in modo speciale.
Ci troviamo naturalmente all’interno del grande evento
dell’Esodo dall’Egitto verso la Terra Promessa. In mezzo
però c’è il lungo cammino nel deserto. Un cammino ed un
tempo (40 anni) che non vogliono alcuna fretta -
nonostante l’incalzare dei nemici alle calcagna - ma
calma, pazienza, un ritmo lento e cadenzato che permetta
di camminare uniti, di aspettarsi l’un l’altro. Occorre
l’amore per chi è al proprio fianco, così da camminare
al passo dei bambini e del bestiame che non consentono
fughe né scorciatoie, perché non ci si salva da soli… se
veramente si è “popolo”: Gli Israeliti partirono da
Ramses alla volta di Succot, in numero di seicentomila
uomini capaci di camminare, senza contare i bambini.
Inoltre una grande massa di gente promiscua partì con
loro e insieme greggi e armenti in gran numero (Es
12,37-38; cfr. anche Gen 33,14). In questo difficile
percorso Israele sperimenta più volte sulla sua pelle la
pressante tentazione di pretendere garanzie, di voler
arrivare subito, di veder accorciare le distanze, di
camminare sicuro senza inciampi né difficoltà. Ma il
Signore, per bocca di Mosè, lo invita continuamente a
fidarsi e ad affidarsi, a non cedere per via e ad
accettare la lenta e faticosa marcia di avanzamento. Non
si può, al primo ostacolo, abbandonare l’impresa,
scuotere le spalle e fare marcia indietro: Gli
Israeliti ripresero a lamentarsi e a dire: «Chi ci potrà
dare carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che
mangiavamo in Egitto gratuitamente, dei cocomeri, dei
meloni, dei porri, delle cipolle e dell’aglio… » (Nm
11,4-5). Il popolo rimpiange le cipolle d’Egitto, il
duro pane della schiavitù, quando invece sperimenta
giorno per giorno la premura di un Dio che provvede a
sfamarlo e a dissetarlo con doni del cielo: la manna, le
quaglie e l’acqua dalla roccia. E all’orizzonte -
lontano ma pur reale - una terra dove scorre latte e
miele… un paese del quale il Signore tuo Dio ha cura e
sul quale si posano gli occhi del Signore tuo Dio dal
principio dell’anno sino alla fine (Dt 11,9.12). Nel
cuore di Israele c’è però buio e avanza tremendamente il
dubbio; il cammino sembra procedere verso l’ignoto e
forse verso l’inesistente: sarà poi vero che esiste
questa Terra Promessa? E se esiste, forse non ci
arriverò mai, morirò prima… e allora, perché tanta
fatica? È il deserto, fisico e spirituale. Ma è proprio
in questo lento peregrinare che il popolo ha tutto il
tempo di riflettere, di ripensare alla sua vita, alla
sua storia: Ricordati di quello che il Signore tuo
Dio fece al faraone e a tutti gli Egiziani; ricordati
delle grandi prove che hai viste con gli occhi, dei
segni, dei prodigi, della mano potente e del braccio
teso, con cui il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire…
Ricordati di tutto il cammino che il Signore tuo Dio ti
ha fatto percorrere… Ricordati, non dimenticare… (Dt
7-9). Ricordare, cioè “conservare nel cuore” - come
Maria -, gli eventi salvifici della propria vita: luoghi
nei quali Dio si è fatto presente e operante, luoghi
abitati dalla sua volontà d’amore e perciò benedetti.
La strada tuttavia è lunga - forse anche troppo - e il
popolo ha la sensazione di girare e rigirare su se
stesso, come un cane che si morde la coda, e crede che
Dio lo stia ingannando per farlo perdere nel deserto. In
realtà Israele è chiamato a vivere l’esperienza del
“lasciarsi fare”, lasciarsi portare da Dio e proprio per
la strada che solo lui conosce: la strada migliore,
forse la più lunga, ma sicuramente la più giusta. La
strada lungo la quale Dio incontrerà Israele e Israele
incontrerà Dio in un’Alleanza eterna, la strada che
porta alla Terra Promessa.
Ho intitolato quest’articolo “Sentiero a Nord-Est”
riallacciandomi al Corso formativo di quest’anno. Il
nostro percorso umano-spirituale lungo un sentiero a
nord-est è lo stesso di quello del popolo ebraico:
uscendo dall’Egitto il popolo si è diretto verso est per
poi andare a nord verso la Terra di Canaan. L’est, dove
sorge il sole che illumina il cammino, è Gesù, Via e
Luce del mondo; il nord, dove di notte la stella polare
indica la direzione giusta, è il Padre che guida i
nostri passi ed è la meta del nostro andare e del nostro
vivere. Giorno e notte Dio era presente in mezzo al
popolo e lo guidava attraverso il deserto con una
colonna di nube e di fuoco: Il Signore tuo Dio ti ha
portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto
il cammino che avete fatto (Dt 1,31). Giorno e notte
Dio è presente nella nostra vita, la abita e - se ci
lasciamo fare - ci guida sulla via da percorrere.
Ciascuno di noi ha il suo sentiero sul quale
incamminarsi, purchè l’ago della bussola punti sempre a
nord-est e si rispettino determinate condizioni: bisogna
intraprendere il viaggio spogliandosi di tutto ciò che è
inutile e che anzi ci appesantisce (le ansie, le
preoccupazioni, la corsa contro il tempo). Non ci sono
scorciatoie, niente che possa abbreviare le distanze,
perché il cammino della vita dura appunto tutta una
vita. Occorre perciò camminare lentamente, “al passo dei
bambini e del bestiame” che sono in noi, senza fretta,
per avere tutto il tempo necessario per prendere
consapevolezza di se stessi e della propria vita. Solo
procedendo lentamente, infatti, si riescono a notare
anche le più piccole tracce che Dio lascia sul nostro
sentiero, i suoi più piccoli interventi, proprio quelli
che ad un occhio distratto e superficiale potrebbero
sembrare insignificanti e casuali. Il Signore ci vuole
“passeggiatori e non corridori della vita”, proprio come
lui che alla brezza del giorno della creazione si
dilettava a passeggiare nel giardino, magari in
compagnia dell’uomo (cfr. Gen 3,8). E quando poi ci
sembra di girare e rigirare a vuoto e faticosamente, è
proprio lì che dobbiamo saper vedere la mano di Dio che
ci sta misteriosamente portando all’incontro con lui…
nella pazienza di un cammino, ma anche nella fedeltà ad
un cammino che lenisce le ferite ai nostri piedi stanchi
spalancandoci l’ingresso ad una terra dove scorrono un
latte ed un miele che sanno di cielo e che ci fanno
benedire quel giorno nel quale abbiamo avuto il coraggio
di levare la tenda dal suolo delle nostre schiavitù e di
addentrarci in un sentiero sconosciuto dietro la guida
di un sole che sorge dall’alto e di una stella che
brilla nella notte.
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Gennaio /
Febbraio 2008 - Anno XII - n° 1
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La casa di Dio
- nona
parte -
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Incontriamo questa volta un nuovo personaggio della
Storia sacra, uno degli antichi patriarchi, proprio
quello che diventerà il capostipite del popolo
d’Israele: Giacobbe.
Egli è figlio, insieme al suo gemello Esaù, di Isacco e
Rebecca. Molto più scaltro del fratello fin dal seno
materno (cfr. Gen 25,19ss.), riuscirà a sottrargli con
inganno ogni benedizione riservata al figlio primogenito
(gemelli sì ma, essendo stati partoriti uno alla volta,
il primogenito fu Esaù). Cosa volete che sia ad esempio
un bel piatto di lenticchie fumanti e gustose? Niente,
per chi rientra a casa dopo una lauta cena con gli
amici. Ma per Esaù, che ritorna sfinito dal lavoro nei
campi, può addirittura valere il diritto di
primogenitura (cioè una speciale benedizione divina, il
primato sugli altri fratelli, la prosperità e ogni sorta
di bene), che egli cede grossolanamente al fratello
(cfr. Gen 25,29ss.). Per non parlare poi del “gioco
sporco” col quale la cara mamma Rebecca (tipica donna
“mediterranea”) e il suo figlioletto preferito Giacobbe
mettono spalle al muro l’anziano e cieco padre Isacco e
il poco accorto fratello Esaù (cfr. Gen 27,1ss.). Scacco
matto: per Esaù che non può più sperare in nessuna
seppur minima benedizione, ma anche per Giacobbe che si
ritrova con una bella “taglia sulla testa”, perseguitato
dal fratello ormai al colmo della sopportazione. A
Giacobbe non resta che fuggire il più lontano possibile.
Siccome però non può passare da vigliacco, mamma Rebecca
gli trova una scusa perfetta: è ormai tempo che Giacobbe
prenda moglie, non però tra le donne del luogo - di
religione pagana - bensì tra quelle che appartengono al
loro grande clan familiare. Così Giacobbe parte e si
dirige verso il paese natale della madre, per prendersi
una moglie tra le sue cugine: Giacobbe partì da
Bersabea e si diresse verso Carran. Capitò così in un
luogo, dove passò la notte, perché il sole era
tramontato; prese una pietra, se la pose come guanciale
e si coricò in quel luogo. Fece un sogno…(Gen
28,10-12). Giacobbe, prosegue il racconto, sogna una
scala poggiata sulla terra, la cui cima tocca il cielo e
una schiera di angeli che vi salgono e vi scendono. Poi
gli si presenta anche Dio, il Dio dei suoi padri Abramo
e Isacco e rinnova, per lui e in lui, l’Alleanza e le
promesse già fatte ad Abramo (la benedizione, la
discendenza numerosa, la promessa della terra, la
protezione divina). Giacobbe si sveglia, capisce che Dio
gli ha parlato veramente in quel luogo e che esso è
“casa di Dio”, perciò lo chiama Betel. Consacra quel
luogo al Signore ungendo la pietra sulla quale si era
coricato e aveva sognato e finalmente fa anche lui
alleanza con Dio.
Il sogno, nella tradizione religiosa di ogni tempo e
soprattutto in quella biblica, è sempre indice di una
teofania, cioè di una particolare manifestazione di Dio
e della sua volontà all’uomo. La Sacra Scrittura, dal
primo libro della Genesi all’ultimo dell’Apocalisse, è
piena di sogni teofanici importantissimi. Il sogno però
è anche una delle realtà più naturali nella vita
concreta dell’uomo: si sogna sempre, tutte le notti. Si
sogna anche se non ci si ricorda di averlo fatto. Si
sogna senza esserne coscienti di farlo: infatti bisogna
sempre attendere di svegliarsi per sapere di aver
sognato. Dio è così, è come il sogno. La sua teofania
più usuale è proprio quella di irrompere nella storia
dell’uomo attraverso i fatti spiccioli della sua vita.
Fatti spiccioli che però diventano “e-venti”, cioè
luoghi nei quali si attua la “venuta” di Dio. Così come
il sogno, Dio arriva… sempre. Al nostro risveglio però,
cioè nella gestione pratica della nostra vita, possono
accadere due cose differenti. Uno: potremmo non
ricordarci di aver sognato, cioè di aver ricevuto una
“visita” da parte di Dio, e fare le nostre cose come se
non fosse mai successo niente. Due: come Giacobbe,
potremmo accorgerci di essere diventati protagonisti di
una storia straordinaria. Quale? Un bel giorno ci
svegliamo con un chiodo fisso: quella strana scala che
abbiamo sognato, avvolta da una luce soffusa, affollata
di angeli che vanno in su e in giù. Scrolliamo la testa,
ancora mezzo assonnati, mettiamo su il caffé (d’obbligo
per un italiano d.o.c.) e apriamo la porta di casa per
prendere una boccata d’aria. Caschiamo indietro di
botto: giusto il posto del polveroso zerbino e quella
scala che avevamo sognato è proprio lì, davanti ai
nostri occhi sgranati e increduli. Da quella scala
arrivano alcuni angeli che portano in braccio un Bambino
appena nato e lo lasciano a noi, chiedendoci di averne
cura…
Nella simbologia biblica la scala rappresenta
l’incontro-unione tra il cielo e la terra, tra Dio e
l’uomo. Ricordiamo l’episodio della torre di Babele (la
famosa Ziqqurat mesopotamica, una piramide a gradoni)
con la quale gli uomini volevano superbamente
raggiungere il cielo (cfr. Gen 11). Nel sogno di
Giacobbe, però, e nel nostro sogno-realtà, la scala non
è una nostra arrogante costruzione, ma è un’iniziativa
di Dio che vuole venirci incontro. È la sua Incarnazione
nella nostra vita. Per questa scala, che è Gesù fatto
uomo, Dio scende verso di noi e fa sì che noi saliamo
verso di lui. Da questa scala Dio si fa presente a
Giacobbe e a noi: egli è il Dio dei nostri padri, della
nostra storia. Oggi però vuole diventare il nostro Dio,
il Dio di Giacobbe, il mio Dio. Ecco il
Signore gli stava davanti e disse: «Io sono il Signore,
il Dio di Abramo tuo padre e il Dio di Isacco… Ecco io
sono con te e ti proteggerò dovunque tu andrai… non ti
abbandonerò senza aver fatto tutto quello che t’ho
detto» (Gen 28,13.15). queste parole Dio le rivolge
a ciascuno di noi attraverso suo figlio Gesù: io sono
con te, io sono l’Emmanuele, io sono il Dio della tua
vita, il Dio che vuole farsi carne in te. Facendosi
carne, Dio vuole instaurare un rapporto personale con
me, con te. Mi chiede di riservargli un posto nella mia
storia, di fargliela abitare, affinché diventi la sua
nuova casa, la sua Betel (che in ebraico vuol dire “casa
di Dio”). Come ha fatto Maria, la prima Betel di carne
per un Dio che si fa carne, grembo fecondo di colui che
è la Vita.
È vero, siamo in Quaresima e parlare dell’Incarnazione
può sembrare un po’ “fuori stagione”. Natale e Pasqua
sono però i due risvolti di uno stesso mistero: non ci
può essere l’uno senza l’altra e viceversa. Incarnazione
e Croce sono come due scale di Giacobbe ben piantate a
terra (Dio si fa uomo e soffre da vero uomo), ma con la
cima incollata in cielo (l’uomo Gesù è l’Unigenito
Figlio del Padre). Solo passando per queste due scale
l’uomo può fare una vera esperienza di Dio e di se
stesso. Ogni piolo o gradino gli svelerà una parte del
grande mistero di Alleanza che intesse la storia e, come
in uno specchio, vi vedrà riflessa la sua stessa vita.
Da quando quella mattina ci siamo svegliati e abbiamo
visto la scala davanti alla porta di casa, la nostra
vita è cambiata, non è stata più la stessa (per questo
Giacobbe ha voluto cambiare il nome di quel luogo). Da
quando quel Bambino è stato affidato alle nostre cure e
da quando poi le sue braccia adulte si sono allargate
sulla croce per noi… non è più lo stesso, non può più
esserlo. In quel momento ci siamo sentiti chiamare per
nome, per essere coinvolti in un rapporto unico e
personale. Ci si chiede di salire quella scala, gradino
dopo gradino. Non dobbiamo però immaginare chissà quale
grande e straordinaria cosa. Ho scritto all’inizio,
infatti, che Dio ci si presenta nei fatti spiccioli
della nostra vita, nelle cose di tutti i giorni: in
quella sveglia che al mattino vorremmo tanto non
sentire, in quel semaforo rosso che ci fa impazientire,
nella gioia di rientrare a casa dopo una lunga giornata
di lavoro… Quella sveglia, quel semaforo, quel rientrare
a casa (e quanto altro ancora) diventano una nuova
Betel, un luogo in cui posso fare esperienza di Dio. E
allora? E allora: mi alzo e ungo quel luogo, cioè lo
riconosco come sacro, lo chiamo con un nome nuovo, cioè
da oggi lo guardo con occhi diversi e… faccio questo
voto: «Se Dio sarà con me e mi proteggerà… il Signore
sarà il mio Dio. Questa pietra, che io ho eretta come
stele (la sveglia, il semaforo…), sarà una casa
di Dio…» (Gen 28,20-22).
Gradino dopo gradino: proviamo a chi arriva prima?
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Maggio / Aprile
2008 - Anno XII - n° 2
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Fedeltà nelle
avversità (1)
- decima parte -
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Nella vita basta un attimo e cambia tutto, si
capovolgono le carte in tavola e comincia un altro gioco
dove, da un momento all’altro, puoi ritrovarti “vincente
o perdente” come si trattasse della stessa cosa.
Chi non conosce la storia di Giobbe? Uomo fedele
a Dio che d’un tratto, quasi per un meschino capriccio
della corte celeste, si ritrova spoglio di tutti i suoi
averi, privato dei suoi figli e colpito nel suo stesso
corpo. Deriso dalla moglie arcigna e dagli amici
“teologi”, intenta un processo a quel Dio che, beffardo,
ha ripagato amaramente la sua ossequiosa fedeltà. Messo
spalle al muro e riconosciuta la sua sciocca
presunzione, si rimette al progetto d’amore di Dio, del
quale pure ignora le “mosse vincenti” nel grande gioco
della vita, e viene ripagato oltre misura e oltre ogni
misero calcolo di dare e avere.
C’era nella terra di Uz un uomo chiamato Giobbe…(Gb
1,1): sembra proprio l’inizio di una fiaba e forse, in
un certo senso, lo era per gli ebrei. Il prologo e
l’epilogo di questo libro infatti non sono che un antico
racconto popolare tramandato di bocca in bocca, di padre
in figlio. Solamente più tardi si è giunti a svilupparlo
secondo un messaggio chiaro e ben definito. La redazione
finale risale al V-III sec. a.C. quando il popolo,
rientrato dall’amaro esilio babilonese e ormai pago a
casa sua, comincia ad interrogarsi circa il destino
dell’individuo ed il senso ultimo della sofferenza. È la
cosiddetta riflessione sapienziale, che vuole
scandagliare il mistero della creazione, dell’uomo e,
non ultimo, di Dio. In questa cornice risalta pressante
la teoria della retribuzione: Dio premia l’uomo
giusto e fedele assicurandogli il benessere in tutti gli
aspetti della sua vita; mentre invece punisce il
peccatore infliggendogli una crudele, ma pur giusta e
doverosa, sofferenza. Quanto mai attuale è in noi questo
modo di pensare, quanti Giobbe ci camminano a fianco:
gente disgraziata che nella vita non fa che accumulare
sventura su sventura, dolore su altro dolore. E nel buio
della sofferenza risuona un grido amaro: perché proprio
a me? Cosa ho fatto di male per meritare tutto questo?
Il nostro Giobbe si fa voce di questi interrogativi e
nelle ultime pagine del libro ci aiuta a trovare la
risposta giusta, l’unica: l’abbandono fiducioso nelle
mani provvidenti di Dio.
Ma andiamo con ordine.
Nella terra di Uz, luogo in realtà sconosciuto e
per questo paradigma della “città dell’uomo”, vive un
certo Giobbe: uomo integro e retto, temeva Dio ed era
alieno dal male (1,1). Con questi requisiti egli è
l’emblema della perfezione, ricompensato dal Signore
(ecco qui la teoria della retribuzione) con la
ricchezza, il benessere e una numerosa famiglia che vive
in pace in armonia. Non a caso il numero dei figli e dei
possedimenti di Giobbe è dieci o un suo multiplo, ossia
la totalità. Insomma: quest’uomo era il più grande
fra tutti i figli d’oriente (1,3).
Ma ad un tratto c’è un colpo di scena: nella “città di
Dio” i membri della corte celeste si riuniscono in
consiglio e anche satana andò in mezzo a loro
(1,6). Satana in Paradiso, com’è possibile? Niente
panico, non si tratta del diavoletto con corna e
forcone. Non è infatti Satana (con l’iniziale
maiuscola), bensì il satana, cioè una specie di
avversario o di spia (quasi un guastafeste) che si
diverte a stuzzicare Dio a danno dell’ignaro Giobbe:
egli è fedele al Signore solo perché ne riceve in cambio
ricchezza e benessere. Ma stendi un poco la mano e
tocca quanto ha e vedrai come ti benedirà in faccia!
(1, 11). E iniziano le prove, amare più del fiele. In un
crescendo di notizie tragiche, la vita e la felicità di
Giobbe precipitano inesorabilmente in un baratro che non
ha fondo. Arriva un primo messaggero ad annunciare la
prima disgrazia e poi, quasi a voler rigirare il
coltello nella piaga, la conclusione: sono scampato
io solo che ti racconto questo (1,15). E chi sei tu
per essere scampato a tanto male, perché tu e non io che
sono sempre stato giusto e fedele? E poi subito, quasi a
non lasciar fiato: mentr’egli ancora parlava, entrò
un altro… (1,16). Questo strazio per ben quattro
volte (è il numero della totalità dei mali) fino alla
notizia che nessuno vorrebbe mai udire: la morte tragica
e violenta dei propri figli, tutti i figli.
Mi è capitato più volte, purtroppo, di sentirmi dire:
“la cosa peggiore per un genitore è quella di
sopravvivere al proprio figlio”. Ed in quel momento, tu
che ascolti quell’amara confidenza puoi soltanto tacere
custodendo con geloso rispetto quel grido di dolore che
strazia anche le orecchie più insensibili.
Prima di mettermi a scrivere quest’articolo su Giobbe ci
ho riflettuto abbondantemente sopra e per lungo tempo ho
avuto la forte tentazione di scappar via, di non
prendere in mano la penna che mi avrebbe inchiodata ad
un’umiliante verità: cosa penso di poter dire io, come
oso pronunciarmi riguardo a cose che non ho sperimentato
sulla mia pelle e che quindi sono per me “concetti”,
riflessioni e non vita vissuta? Troppo grande per me!
Temevo di sentirmi dire: “si fa presto a scrivere, a
buttar giù belle frasi con parole che sembrano piovere
dal cielo, ma la verità è un’altra. Cresci e lo
scoprirai”. Nel frattempo però (in questa continua lotta
tra il voler fuggire e il voler tuttavia rimanere) ho
incontrato e conosciuto personalmente Giobbe nel volto
di famiglie (alcune a me particolarmente vicine) che
vivono momenti forti di prova, colpite e purtroppo a
volte anche private dei loro membri più giovani e
indifesi. Profondamente toccata, interrogata ed
edificata dalla loro esperienza di vita, mi sono
finalmente decisa - penna e coraggio in mano - a
balbettare qualcosa con la mia voce timida e tremula.
Non pretendo di saperla tutta, anzi non ne so proprio
niente, ma cercherò di far parlare il cuore sperando di
riuscirci il più possibile.
Ritorniamo al nostro racconto biblico. Giobbe ha perso
quanto aveva di più caro. Gli rimangono soltanto le
lacrime. Ma pur nel dolore si apre a Dio: Il Signore
ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del
Signore! (1,21).
Si aggiorna la seduta della corte celeste e Dio fa
notare al satana di aver preso un abbaglio: Giobbe è
ancor saldo nella sua integrità (2,3). E il satana,
non ancora pago, incalza: tutto quanto ha, l’uomo è
pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la
mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti
benedirà in faccia! (2,4-5). Giobbe viene così
colpito con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi
alla cima del capo (2,7). Qui interviene la moglie,
forse inasprita dalla tragica perdita dei figli, a
ridicolizzare l’integrità del marito che risponde:
Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio
accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il
male? (2,10). Queste ultime parole e le prime
(cfr.1,21) mi fanno pensare a ciò che anche i “miei
Giobbe” hanno più volte detto nella loro esperienza di
dolore: “se il Signore ha permesso questo c’è
sicuramente un motivo più grande ed egli ci dà la forza
per viverlo, anche se con fatica”. E incassi in silenzio
il colpo, imparando la lezione che non sei tu a dover
dare conforto, ma sono loro ad insegnarti chi è Dio,
qualora credessi già di saperlo. Risuonano le parole di
Giobbe di fronte alla maestà e al mistero di Dio e del
suo agire nella storia degli uomini: io ti conoscevo
per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò
mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere
(42,5-6).
(Continua nel prossimo
articolo)
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Agosto /
Settembre 2008 - Anno XII - n° 3
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Fedeltà nelle
avversità (2)
- undicesima
parte -
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(Continua dall'articolo
precedente)
Dopo la magistrale risposta
data alla moglie (cfr. 2,10), Giobbe si vede arrivare i
suoi tre amici più cari. Lo scorgono da lontano,
piangono di dolore e siedono accanto a lui in silenzio
per sette giorni e sette notti (cfr. 2,11-13), ossia il
tempo del lutto, quasi che Giobbe fosse morto.
Come il silenzio
primordiale è stato infranto dalla parola di Dio che ha
consacrato e benedetto il giorno e la notte dando loro
vita, così il silenzio dei quattro amici è infranto
dallo stesso Giobbe che grida il suo dolore e maledice
il giorno della sua nascita e la notte del suo
concepimento. Nel suo lungo discorso (cfr.3,1-26) egli
usa toni aspri e di forte imprecazione. Egli è la voce
dell’uomo di ogni tempo che colpito dal male “lotta con
Dio, per credere in lui, per comprendere la sua
giustizia, il suo silenzio, per comprendere la salvezza
che lui ci offre, la quale molto spesso pare in
contrasto con l’ingiustizia che l’uomo subisce” (M. R.
Marenco Bovone). Giobbe non maledice Dio, ma la sua
esistenza. È consapevole che la sua vita dipende da un
Altro e che non può disporne a suo piacimento. Dunque
non fa che affermare la superiorità di Dio, rimettendosi
al suo mistero e all’imperscrutabilità del suo
intervento nella vita dell’uomo. Nell’abisso di dolore
Giobbe cerca Dio, il suo vero volto. Questa nuova
esperienza gli fa dire che egli non è così come lo aveva
creduto fino a quel momento e in questa ricerca grida
per essere sicuro di venire ascoltato. E il suo grido
giunge perfino ad essere imprecazione.
A turno si succedono i
discorsi dei tre amici che con la loro teologia saccente
pensano di potere spiegare quanto sta accadendo a
Giobbe. La sua disgrazia è conseguenza della sua
colpevolezza, del suo peccato: quale innocente è mai
perito e quando mai furon distrutti gli uomini retti?
Per quanto io ho visto, chi coltiva iniquità, chi semina
affanni, li raccoglie (4,7-8). Ma Giobbe protesta la
sua innocenza e la sua integrità: Su, ricredetevi:
non siate ingiusti! Ricredetevi; la mia giustizia è
ancora qui! (6,29). I conti non tornano. Giobbe non
ha mai peccato contro Dio, è sicuro della sua innocenza
e della sua fedeltà inviolata. Eppure tutto sembra
dargli torto. Secondo la teoria della retribuzione egli
sta pagando - e amaramente - per qualche sua colpa che,
a ragion veduta, deve essere stata molto grande. Colui
che si crede giusto, e lo grida con tutte le sue forze,
sta subendo la sorte dell’iniquo. Quante volte succede
questo anche nelle nostre esperienze di vita. Molto
spesso le situazioni si ribaltano: chi fa il male la fa
franca e vive da pascià, mentre invece a chi sta
tranquillo in casa sua va tutto storto e senza un
perché.
Anche Giobbe non capisce.
Due più due non fanno quattro e per quanto provi a
rigirarli questi numeri non danno il risultato che ci si
aspetterebbe. Spiazzato si rivolge a Dio, lo chiama in
causa ed intenta quasi un processo. Esige spiegazioni
più che convincenti, magari le scuse pubbliche e -
perché no - un soddisfacente risarcimento danni: Ma
io all’Onnipotente vorrei parlare, a Dio vorrei fare
rimostranze (13,3)… Oh, potessi sapere dove
trovarlo, potessi arrivare fino al suo trono! Esporrei
davanti a lui la mia causa e avrei piene le labbra di
ragioni. Verrei a sapere le parole che mi risponde e
capirei che cosa mi deve dire (23,3-5)… Oh,
avessi uno che mi ascoltasse! Ecco qui la mia firma!
L’Onnipotente mi risponda! (31,35).
Dopo tanto e vano parlare
interviene Dio a chiudere la bocca a tutti. Da notare
che Dio risponde a Giobbe di mezzo al turbine
(38,1), cioè “ex cathedra”, dall’alto della sua maestà
onnipotente, per dare sentenze e ragioni indiscutibili
ed inconfutabili dalla piccolezza dell’uomo. Il Signore
risponde a due riprese, ma lo fa con una serie
interminabile di domande che occupano ben quattro
capitoli (38-41) e alle quali Giobbe non è capace di
rispondere. Si tratta di domande quanto mai provocatorie
sull’origine del mondo e di tutte le realtà create, sul
governo del mondo, sull’ordine della natura e del mondo
animale. Aspra la constatazione ironica che rimette
Giobbe al suo posto giusto, quello di semplice creatura:
Certo, tu lo sai, perché allora eri nato e il numero
dei tuoi giorni è assai grande! (38,21). A metà del
suo discorso Jahvèh si interrompe e rigira a Giobbe la
sua stessa protesta: Il censore vorrà ancora
contendere con l’Onnipotente? L’accusatore di Dio
risponda! (40,2). Mi sembra di vederlo questo povero
Giobbe sprofondarsi miseramente sotto terra peggio di
uno struzzo: Ecco, sono ben meschino: che ti posso
rispondere? Mi metto la mano sulla bocca (40,4). E
alla fine le sue ultimi parole, quelle che lo
coroneranno come il “giusto Giobbe”: Comprendo che
puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te… Ho
esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori
a me, che io non comprendo… Io ti conoscevo per sentito
dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e
ne provo pentimento sopra polvere e cenere
(42,2.3b.5-6).
È vero, il problema del
male e della sofferenza pone interrogativi seri, domande
che supplicano una risposta di senso e molto spesso
questa risposta forse non c’è, o meglio, non rispetta i
canoni del nostro metro di giudizio. Per noi uomini
esistono solo le situazioni estreme: il bianco o il
nero, il bene o il male, l’innocenza o la colpevolezza,
la gioia o il dolore e una cosa è ben distinta
dall’altra. Ci manca quell’elasticità, quella capacità
(propria di Dio e di quanti gliela domandano in dono)
che riesce a guardare con occhi diversi la realtà. Come
un grande ricamo che poggia i suoi cavalletti sulla
terra ed ha il suo telaio tra le nubi del cielo. Noi,
poveri mortali, ne vediamo solo il rovescio e per quanto
esso sia “pulito” e ben fatto rappresenta per noi solo
un groviglio di fili. Quando poi il Signore decide di
prenderci in braccio per farci sedere accanto a lui e lo
vediamo al lavoro con ago e filo ci incantiamo dinanzi
alla bellezza dei disegni, allo scintillio dei colori e
delle sfumature e, come Giobbe, possiamo soltanto
metterci la mano sulla bocca. Certo, la vita è un po’
diversa da un ricamo e quel groviglio di fili molto
spesso lacera la nostra carne. Quell’ago che fa su e giù
nella tela, in realtà si infigge nel nostro cuore che,
sanguinando, macchia la bellezza dei disegni.
Quando Giobbe chiede a Dio:
“perché?”, egli non dà una risposta, perché in realtà il
male non può essere spiegato, nessuna ragione al mondo
può giustificarlo appieno. Dio risponde soltanto con la
sua presenza che si farà poi carne nel Figlio Gesù. egli
è la vera risposta, lui che è entrato dentro il male
fino alla morte per trasformarlo in occasione di
salvezza, in dono di una vita nuova. Gesù ha realmente
sperimentato il dolore, ha bevuto fino in fondo il
calice amaro del suo non senso e nel consegnarsi ad esso
nell’amore e per amore di un bene più grande è riuscito
a vincerlo. Diceva Meister Eckhart, un mistico
medievale: “Nulla sa più di fiele del soffrire, nulla sa
più di miele dell’aver sofferto; nulla di fronte agli
uomini sfigura il corpo più della sofferenza, ma nulla
di fronte a Dio abbellisce l’anima più dell’aver
sofferto”.
Dopo questa cruda
esperienza, e grazie ad essa, Giobbe conosce veramente
Dio, lo incontra personalmente e la sua vita cambia, la
sua fede mette radici profonde e sicure. Sente che Dio
lo ama, lo ha sempre amato anche quando lo ha provato.
Anzi, in quei momenti lo ha amato ancora di più, anche
se poteva sembrare distante e nemico. Giobbe lo
riconosce e Dio non può che premiare l’uomo che si
affida totalmente a lui: viene risanato nella sua carne,
viene ricolmato di beni (il doppio di quanti ne aveva
prima) e, più importante, la sua vita è nuovamente
allietata dalla presenza dei figli (la più grande
benedizione che un ebreo possa ottenere da Dio). E
vissero felici e contenti.
Ci sono casi in cui la
sofferenza abbruttisce l’anima dell’uomo, facendolo
richiudere in se stesso e atrofizzandone il cuore.
Questa è la vera sconfitta, la vera disgrazia, più grave
della stessa pena che si sta vivendo. Quando invece si
ha il coraggio e la forza di rialzarsi dalle macerie del
proprio dolore, si scopre che è possibile ricominciare a
vivere e a sperare. Anche l’esperienza più amara può
acquistare un senso che noi non immaginiamo neanche.
Questo lo so non perché l’ho letto in qualche libro o
perché “tanto si dice sempre così”. No, l’ho sentito con
le mie orecchie e proprio da gente che era stata
profondamente colpita e non in modo lieve. Magari, se la
guardi con attenzione, vedi brillare gli occhi e senti
la voce che si annoda alla gola, ma non è più dolore,
non è disperazione: è una gioia serena acquistata a caro
prezzo e, proprio per questo, autentica. È lo stupore di
sentirsi oggetto dell’attenzione di Dio. E senti che il
cuore si allarga ad un amore più grande, più vero, ad un
amore che ha il gusto di agro-dolce, ma che solo può
riempirti la vita.
Chiedo scusa ai tanti
“Giobbe” di ogni tempo, lascio finalmente la penna e, in
silenzio, contemplo la loro fedeltà nelle avversità.
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Ottobre /
Novembre 2008 - Anno XIV - n° 4
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...e vieni in una
grotta
- dodicesima
parte -
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Ogni anno, a Natale, tutto
dice festa, gioia, luci, musiche, tenerezza. Anche i
cuori più duri si lasciano scalfire dall’amore che
circola ovunque.
Strade e case sono
addobbate alla perfezione: l’albero e il presepe sempre
più originali. C’è tutto: manca solo lui, Gesù. E cosa
fa? Mentre noi gli prepariamo una culla di bambagia, lui
pensa bene di nascere in una banalissima grotta. Luca,
nel suo vangelo, ci dice che per Maria e Giuseppe non
c’era più posto negli alloggi di Betlemme. Ma siamo
proprio sicuri che si tratti di un ripiego forzato e
quindi della classica sfortuna di chi è perseguitato
dalla “nuvoletta nera”? non sarà invece che il nascere
in una grotta sia stato voluto e - direi - “programmato”
da Dio fin dall’inizio? Del resto, se il mito greco vi
ha fatto nascere Zeus ed Hermes, non poteva accadere
anche per il Figlio di Dio?
Nello scenario biblico ed
extra-biblico la grotta assume connotazioni particolari.
Già nella preistoria le grotte e le caverne erano
adibite ad azioni cultuali magiche ed erano, dunque,
custodi del mistero. Ancora, la grotta rappresenta il
grembo della madre terra, l’alveo fecondo che genera la
vita, il luogo mitico delle nozze sacre tra gli dei. Ma
è anche spazio di morte, luogo idoneo alla sepoltura dei
defunti e, perciò, antro del regno dei morti, quasi una
zona di confine che permette di accedere ad un altro
mondo. Da sempre la grotta è stata rifugio e riparo di
viandanti sorpresi dalle intemperie o dal sopraggiungere
della notte. Ma è stata anche abitazione di gente povera
e stalla per gli animali domestici. Verrebbe da dire: di
tutto, di più.
Nell’Antico Testamento
essa figura tra le attrici co-protagoniste. Il ruolo
dove riesce ad esprimere al massimo il suo talento è
nell’essere in relazione con il divino. La grotta,
infatti, o la cavità della rupe, è uno dei luoghi
(assieme alla montagna, al deserto…) dell’epifania
(manifestazione) di Dio al suo popolo o ad un suo
rappresentante. Si sa che l’uomo non può vedere il volto
di Dio - pur essendo questo il suo desiderio più
struggente -, perché vedere Dio in faccia significa
morire. Quando Dio si manifesta ai suoi eletti lo fa
sempre in maniera velata: un angelo, un roveto ardente,
una voce, una visione, una nube… Quando però l’uomo
avanza pretese, facendosi forte della sua intimità con
Jahvèh, accade questo: Mosè disse al Signore:
«Mostrami la tua Gloria!». Rispose: «Farò passare
davanti a te tutto il mio splendore… Ma tu non potrai
vedere il mio volto… Ecco un luogo vicino a me. Tu
starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io
ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con
la mano finchè sarò passato. Poi toglierò la mano e
vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può
vedere» (Es 33,18-23). Davvero molto bella questa
immagine: Dio accetta la richiesta imperativa di Mosè,
ma teme per lui e lo fa entrare in una grotta (io ti
porrò…). Fa effetto poi la sua grande mano che copre
e protegge la piccolezza sfrontata dell’uomo.
Anche il grande profeta
Elia sale sul monte per stare alla presenza del Signore
ed entra in una caverna, perché sa di non poterlo vedere
in faccia. Ed ecco, il Signore passa… non nel vento
impetuoso o nel terremoto o nel fuoco, ma nel sussurro
di una brezza leggera. Quando l’avverte, Elia si ferma
all’ingresso della caverna coprendosi il volto con il
mantello (1Re 19,9-13).
Per entrambi - Mosè ed
Elia - la grotta è stata testimone del passaggio di Dio,
custode di un incontro straordinario tra il Creatore e
la sua creatura. È Dio che si appressa all’uomo e gli si
manifesta.
E non doveva essere così
anche per Gesù, l’Emmanuele, il Dio-con-noi?
La grotta era stata il
luogo dove poter “vedere” Dio senza, in realtà, vedere
il suo volto; con Gesù diventa il luogo dove poter
vedere Dio… che si fa uomo per essere visto da tutti. La
grotta è, ancora una volta, custode del mistero, grembo
fecondo che genera la vita, luogo sacro delle nozze tra
Dio e l’uomo, il cui frutto è un Dio Bambino.
È nella grotta di Betlemme
che, per la prima volta, Dio si è reso visibile al mondo
e, da questo faccia a faccia, sarà Dio - e non l’uomo -
a morire in Gesù che offrirà la sua vita per la salvezza
di tutti. E se la grotta di Betlemme lo ha accolto nel
suo nascere, quella di Gerusalemme ha custodito
(solamente per poco) il suo corpo donato all’umanità.
Adesso non mi stupisce più
il fatto che Gesù sia nato in una grotta e, anzi, lo
considero un segno del cielo, più ancora della stella
che ha brillato in quella notte.
I primi a vederlo? Suo
padre e sua madre, naturalmente, e poi i pastori accorsi
all’annuncio dell’angelo. Ma mi piace pensare che la
stessa grotta, quella notte, abbia avuto occhi per
contemplare quel bambino e che, come per incanto, sia
stata invasa da una luce particolare. “Il cielo in una
stanza”… o meglio: “il cielo in una grotta”.
Mi viene poi in mente che
Betlemme significa “casa del pane”: la grotta non sarà
stata forse il primo “tabernacolo” del Pane celeste
offerto all’uomo?
Tutto questo però è
successo 2000 anni fa. Noi invece, dopo il 6 gennaio,
rimetteremo a posto ogni cosa: le statuine, le casette,
le luci, la stella cometa e anche la grotta che avevamo
preparato con cura. E allora: finisce tutto e
arrivederci al prossimo anno? No di certo! C’è anche per
noi oggi la grotta di Betlemme e, fra le tante
possibili, io preferisco la più vicina a Dio e a me
(sono pigra e non amo faticare tanto per spostarmi in
lunghe distanze): il mio cuore. È lì che ogni giorno
devo preparare la mangiatoia per Gesù con la paglia
delle piccole e grandi cose che mi accadono. È lì che
lui vuole incontrarmi per farmi vedere il suo volto e,
nel suo, ritrovare il mio sotto una luce nuova. E a me,
che come i pastori me ne sto fuori a guardia di me
stessa (cfr. Lc 2,8), un angelo dà l’annuncio di una
grande gioia e l’invito ad andare, nel bel mezzo della
mia notte, in quella grotta dove giace il frutto
dell’amore di Dio per me.
Prima di concludere, mi
sia permessa una breve riflessione “tecnica”: nei pressi
del Mar Morto, nella zona detta di Qumran, ci sono tante
grotte dove, nel periodo immediatamente precedente e
successivo all’evento Cristo, ha vissuto una comunità
religiosa ebraica. Circa mezzo secolo fa sono stati
ritrovati per caso dei rotoli con alcuni passi
dell’Antico Testamento. Un pastore arabo, in cerca della
sua capra che si era smarrita per quelle grotte, vi ha
trovato delle giare contenenti i rotoli e oggi, nel
mondo biblico, questa è una scoperta sensazionale.
Ebbene: un pastore va in cerca della sua capra
“smarrita” (cfr. Lc 15,4-7) ed entra in una grotta (come
i pastori a Betlemme) che, per circa 2000 anni, ha
custodito la Parola di Dio… anche questo è un caso?
Chissà, forse sì!
A Natale accendiamo pure
le luci del nostro presepe e contempliamo Gesù che viene
per noi. Ma dopo, quando le feste sono finite e abbiamo
rimesso tutto nello scatolone, diamoci appuntamento per
la mezzanotte e celebriamo un nuovo Natale nella grotta
del nostro cuore: chissà che non ci capiti di cullare
tra le braccia un Dio fatto Bambino.
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Marzo / Aprile 2009 - Anno
XIII - n° 1
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