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Vocazione

 
 

 

Perchè ama

CHIAMA

 

 

di suor Maria Agostina

 
 
  1. Perché ama, chiama

  2. Ho scritto "T'amo" sulla roccia (1)

  3. Ho scritto "T'amo" sulla roccia (2)

  4. Ho scritto "T'amo" sulla roccia (3)

  5. Ho scritto "T'amo" sulla roccia (4)

  6. Ho scritto "T'amo" sulla roccia (5)

  7. Un chiamato che chiama

  8. Manda chi vuoi mandare!

  9. Al passo degli uomini

  10. Sulla via di Damasco

 
 
 

Perchè ama, chiama

- prima parte -

 

Tutta la Bibbia è una lunga ed eterna storia d’amore. Storia di un Dio che, proprio perché ama, chiama.

Con questa nuova rubrica intendiamo soffermare lo sguardo e la riflessione su quelle pagine - e sono davvero tante - che ci presentano la dinamica vocazionale dell’amore di Dio.

Nella lingua italiana - ed anche in quella latina - il verbo chiamare racchiude in sé quello di amare: Dio chiama chi-ama.

Da Genesi ad Apocalisse, l’amore di Dio chiama all’esistenza, chiama all’Alleanza, chiama ad una missione, chiama ad una sequela, chiama ad una testimonianza e all’annuncio, chiama ad un’attesa vigile del suo ritorno: dalla prima all’ultima pagina, dunque, la Bibbia ci descrive storie di chiamate da parte di un Dio che è Amore.

In questo nuovo percorso insieme incontreremo personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento che, in un determinato momento della loro vita, sono stati raggiunti dalla Parola di Dio, una Parola che è stata amore che chiama, appello ad una relazione particolare con Colui che è la fonte e il senso della vita. Vedremo le diverse realtà esistenziali di questi personaggi, i luoghi policromi dell’intervento di Dio; le differenti reazioni ad una proposta che cambia necessariamente la vita. Ci lasceremo interpellare dalla loro testimonianza e impareremo a guardarci dentro e a fare silenzio: chissà che Dio non stia chiamando anche noi.

 

Anche le stelle hanno un nome

 

La prima grande vocazione narrata dalla Bibbia è la chiamata all’esistenza. È proprio su questa che si fonda la successiva “vocazione di vita”. Dapprima quindi la vocazione alla vita, poi la vocazione di vita, cioè il senso del proprio essere nel mondo. Non possiamo, infatti, illuderci di sapere qual è la ragione per cui viviamo, se prima non riconosciamo che la vita è un valore in sé, perché voluta da Dio.

Vocazione è: l’amore di Dio che mi ha chiamato dal nulla, desiderando la mia esistenza e offrendomi la felicità nella piena realizzazione della mia persona, secondo un progetto di amore e di salvezza che è la comunione profonda e intima con lui.

Insomma, è quel particolare rapporto d’amore che Dio vuole instaurare con me (a prescindere da quello che poi sarà il mio stato di vita), rapporto che sarà la mia felicità e attorno al quale ruoterà e acquisterà senso ogni mio respiro, ogni mio agire e sentire, ogni più intima fibra del mio essere.

È questo Amore che mi chiama e, un bel giorno, mi fa aprire gli occhi alla luce del mondo.

Tutto perciò ebbe inizio con la creazione quando, “in principio”, la voce di Dio infranse il silenzio e diede forma al nulla. È la sua parola, generata dall’amore, che dà il via alla vita.

È la prima esperienza vocazionale e, insieme a tutte le altre, è frutto della Trinità: il Padre, nel suo immenso amore (Spirito Santo), chiama (il Figlio, il Verbo di Dio) all’esistenza e alla felicità.

Il racconto della creazione, che apre il libro della Genesi, celebra tutto questo in una liturgia solenne.

La narrazione è scandita dal susseguirsi delle giornate fino al compimento della settimana, ma in realtà ciò che segna il passo è il ripetersi cadenzato del comando divino e dell’avvenuta attuazione: Dio disse… Dio chiamò… E così avvenne (Gen 1). Parola ed azione, in Dio, sono una sola realtà, la sua parola è in sé creazione di quanto significa.

Ogni cosa viene all’esistenza perché chiamata per nome da Dio, e a questo appello risponde prontamente. Il profeta Baruc lo esprime in modo suggestivo: Dio manda la luce ed essa corre, l’ha chiamata, ed essa gli ha obbedito con tremore. Le stelle hanno brillato nei loro posti di guardia e hanno gioito; egli le ha chiamate ed hanno risposto: «Eccoci!», e hanno brillato di gioia per colui che le ha create (3,33-35). Bella questa personificazione delle creature: anche le stelle hanno un nome, una vocazione, al cui richiamo brillano di gioia.

Nell’ambito della vocazione la parola di Dio gioca un ruolo fondamentale con la sua duplice caratteristica: essa è dinamica, cioè realizza quanto annuncia (vedi sopra); ma è anche dialogica, cioè è un appello che esige una risposta e racchiude in sé una specifica missione. Il citato brano di Baruc ci mostra tutto questo: Dio chiama le stelle ed esse incominciano ad esistere e, rispondendo all’appello divino, realizzano la loro vocazione-missione che è quella di lodarlo brillando di gioia per lui.

Il libro della Sapienza poi si spinge ancora più avanti, fino a specificare che è l’amore di Dio ad aver dato vita alla creazione: tu ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato all’esistenza? (11,24-25).

C’è ancora un’altra espressione biblica che mi colpisce in modo particolare. È lapidaria nella sua sinteticità, ma la ritengo molto efficace e pregna di valore: Egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna per nome (Sal 146,4). Mi si spalancano davanti due immagini significative. Nella prima vedo lo scenario di una meravigliosa notte orientale quando Dio giura ad Abramo: Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle… Tale sarà la tua discendenza (Gen 15,5). Abramo non riuscirà mai a contare quelle stelle che, ancora oggi, brillano alla sola voce di Dio che le chiama dai loro seggi, perché siano luce nella notte che avvolge l’umanità. Nella seconda immagine, posteriore di circa duemila anni, Qualcuno riuscirà finalmente a contare le stelle discendenza di Abramo: il pastore chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori… e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce (Gv 10,3-4).

Ciascuno di noi è una di quelle stelle ed ha il suo posto preciso nel firmamento dell’amore di Dio. Da quel posto, il proprio, ognuna dovrà brillare per dare pienamente valore alla sua esistenza. Ogni stella poi ha il suo nome ed è soltanto con quello che potrà riconoscersi ogni volta che sarà chiamata da Dio ad illuminare la notte.

È questa la vocazione: esistere con un nome ed un posto unici, imparare a riconoscersi e a vivere nella gioia di essi.

Quest’articolo vuole essere una sorta di introduzione al grande tema della vocazione nella Parola di Dio e frutto della Parola di Dio.

È di fondamentale importanza però avere chiaro che la vocazione nasce con l’uomo, se non prima, quando cioè l’amore di Dio, chiamandolo per nome e rivolgendogli la sua parola, lo ha fatto esistere, racchiudendo in quel nome tutta la sua felicità.

 

Settembre / Ottobre 2009 - Anno XIII - n° 3 

 


Ho scritto "T'amO" Sulla roccia (1)

- seconda parte -

 

Vocazione.

È la parola che dovresti amare di più.

Perché è il segno di quanto sei importante

agli occhi di Dio.

È l’indice di gradimento, presso di lui,

della tua fragile vita.

Sì, perché, se ti chiama,

vuol dire che ti ama.

Gli stai a cuore, non c’è dubbio…

 

(Don Tonino Bello, 6 maggio 1990)

 

 

Mesi fa mi è ri-capitato tra le mani questo testo di don Tonino Bello (ne ho riportato soltanto la parte iniziale) e subito, oltre naturalmente a farne oggetto di riflessione personale, ho avuto l’idea (ispirazione?) di servirmene per questa rubrica. Don Tonino non me ne voglia, ma anzi mi sorrida benevolmente dal cielo, chiudendo un occhio sui diritti d’autore.

Nei prossimi articoli, di volta in volta riporterò le altre parti del testo e per ognuna proveremo ad accostare una storia biblica di vocazione.

La storia sacra è fatta di tante pagine, tante vicissitudini, tanti personaggi, tante vocazioni: Abramo, Mosé, Geremia, Maria, Pietro, Paolo… Tempi luoghi e missioni diverse. Tutti però hanno un denominatore comune: l’appartenenza ad un popolo, Israele, il popolo di Dio. È “lui” il primo “personaggio” sul quale soffermeremo la nostra attenzione.

Nella Bibbia, Israele è ora un figlio, ora un servo, ma soprattutto la sposa del Signore, la sua amata.

Israele non è un popolo come tutti gli altri suoi vicini, anzi, non è per niente un popolo. Al tempo della Bibbia, non ha una storia millenaria alle spalle, alla quale riferirsi e della quale potersi vantare. È vero, afferma di essere figlio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ma essi non hanno mai fatto parte di un popolo, non sono stati re né condottieri. Il loro regno? Chiazze di pascoli fertili. Le loro scuderie? Greggi di pecore e di capre. Il loro esercito? Mandriani e servitori. Le loro regge? Tende di nomadi. Ai patriarchi è stato promesso un popolo, ma non loro ne sono stati i creatori.

Israele esiste solo perché Dio lo ha desiderato per sé: un ammasso di gente nomade, senza nome né volto, chiamato ad un’esperienza unica ed inimmaginabile.

Ezechiele riesce a farne una descrizione eccezionale: Così dice il Signore Dio a Gerusalemme: tu sei, per origine e nascita, del paese dei Cananei; tuo padre era un Amorreo e tua madre un’Ittita. Alla tua nascita, quando fosti partorita… occhio pietoso non si volse verso di te… e non ebbe compassione nei tuoi confronti, ma come oggetto ripugnante, il giorno della tua nascita, fosti gettata via in piena campagna… (Ez 16,3-4.5). Ma, continua, … passai vicino a te e ti vidi. Ecco: la tua età era l’età dell’amore. Io stesi il lembo del mio mantello su di te e coprii la tua nudità. Ti feci un giuramento e strinsi alleanza con te - oracolo del Signore Dio - e divenisti mia… Divenisti sempre più bella e giungesti fino ad essere regina. La tua fama si diffuse fra le genti. La tua bellezza era perfetta. Ti avevo reso uno splendore. Oracolo del Signore Dio (Ez 16,8.13-14).

Mi riesce difficile aggiungere qualcosa. Penso sia più giusto meditare in profondità queste parole del Signore, sentirle penetrare nel cuore e riconoscerle nostre. Quella donna è ognuno di noi: sono io, sei tu, anche se non ci avevi mai pensato. La “donna” - fra tante - amata da Dio, arricchita di ogni dono per essere degna di un tale sposo. E di tutto questo né Israele, né alcuno di noi può vantare alcun merito: l’amore di Dio - che è vocazione - è assolutamente gratuito… e nessuno può farci niente. Lui ama perché… non può farne a meno, altrimenti non sarebbe più Dio.

Ho in mente il Cantico dei Cantici: l’eterno corteggiamento fra Dio e la sua amata. Un’amata che, agli occhi dello sposo, acquista una bellezza da capogiro. Lui e lei si rincorrono continuamente: si ritrovano per abbracciarsi e ancora si separano per cercarsi di nuovo. Quasi come in un gioco di amanti, quasi come una danza di corteggiamento che fa desiderare ancora di più il momento dell’unione.

Anche Isaia ha pagine meravigliose: Tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo (Is 43,4)… Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la sua delizia e la tua terra avrà uno sposo… come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te (Is 62,3-5).

Quando ho letto quella prime parole di don Tonino Bello ho immediatamente pensato a tutto questo: l’amore - di Dio e per Dio - è la prima unica e grande vocazione dell’uomo, ciò per cui è stato creato e voluto da Dio. Da questa poi si dipartono tante ramificazioni: uniche e personali modalità di aderire e di esplicitare questo amore che ci chiama a qualcosa di grande.

Sì, è il segno di quanto siamo importanti agli occhi di Dio. Proprio noi, scalcinati, è vero, impastati di terra, continuamente a rischio di cadere e di frantumarci, ma pur sempre capolavori usciti dalle mani di Dio. “Mani” che prima ci hanno pensato, ci hanno amato e desiderato e che poi ci hanno dato forma.

Così è Israele: inesistente fino al giorno in cui Dio ha voluto essere il suo Dio. L’espressione tipica dell’Alleanza, infatti, che attraversa tutte le pagine bibliche è proprio questa: Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo… Il mio amato è mio e io sono sua. È grazie a questo giuramento solenne che Israele prende forma e vita ed è chiamato ad essere il “popolo di Jahvèh”. Lui solo può portare questo nome impegnativo.

Sono soprattutto i profeti - come già abbiamo visto - a cantare con toni appassionati questa stupenda realtà: Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore… e avverrà, in quel giorno - oracolo del Signore - mi chiamerai: “Marito mio”… Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza, ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore (Os 2,16.18.21-22).

Penso sia opportuno fermarci qui: troppi “tuffi al cuore” potrebbero farci rischiare un infarto.

Voglio concludere con un semplice augurio: davanti al mistero grande di un Dio che si china sull’uomo per sussurrargli “sei mio, tu mi appartieni”, credere con tutte le fibre del nostro essere che… gli stai a cuore, non c’è dubbio.

 

Febbraio / Marzo 2010 - Anno XIV - n° 1  


Ho scritto "T'amO" Sulla roccia (2)

- terza parte -

 

…In una turba sterminata di gente

Risuona un nome: il tuo.

Stupore generale.

A te, non aveva pensato nessuno.

Lui sì!...

 

(Don Tonino Bello, 6 maggio 1990)

 

 

Sembra proprio di assistere alla scena di un film: una piazza affollatissima e, in mezzo a tanto brusìo, una voce supera tutte le altre pronunciando un nome. Come un fulmine a ciel sereno, in un istante è il silenzio più assoluto e tutti gli sguardi convergono in un’unica direzione.

Una persona, fino a quel momento anonima, si riconosce in quel nome… E’ “unica” tra tante, oggetto e destinataria di un’attenzione e di una predilezione a lei soltanto riservate.

Il titolo del nostro film potrebbe essere: “L’amato mio”. Il protagonista è Davide, il re d’Israele per eccellenza, il cui nome porta in sé questa stupenda dichiarazione d’amore: Davide, l’amato mio.

Ci troviamo nel primo libro di Samuele, al capitolo sedicesimo. Saul, primo re d’Israele, scelto da Dio e consacrato tale da Samuele (una delle più importanti figure carismatiche del popolo ebraico), pecca contro Dio non osservando i suoi comandi ed è da lui respinto: il Signore sceglierà un altro al suo posto. A Samuele spetta l’ “investitura” del nuovo re: Riempi d’olio il tuo corno e parti… Samuele prese il corno dell’olio e lo unse (1 Sam 16, 1.13).

Mettiamoci comodi sulla nostra poltrona. Spegniamo le luci: inizia il film.

Samuele, nonostante l’afflizione per la triste sorte di Saul decaduto dal favore di Dio, viene inviato a Betlemme da un certo Iesse: uno dei suoi figli è il prescelto di Jahvèh, il nuovo re d’Israele.

È bene notare subito che tanto Betlemme quanto Iesse non figuravano nelle liste delle città e dei capifamiglia più importanti in quel momento, tutt’altro. Si trattava del più piccolo “fra i villaggi di Giuda” (Mi 5,1) e di un uomo “vecchio avanzato negli anni” (1 Sam 17,12). Niente di speciale insomma, eppure avrebbero rappresentato l’inizio di qualcosa di grande e i loro nomi - “in una turba sterminata di gente” - continuano a risuonare ancora oggi di bocca in bocca, di generazione in generazione.

Samuele prova a manifestare i suoi dubbi e i suoi timori dinanzi all’ordine di Dio, ma viene rassicurato con il suggerimento di un abile inganno. Il rischio di una vendetta da parte di Saul - spodestato dal trono - è allontanato. Schivando ogni sospetto, Samuele parte per fare un sacrificio al Signore. Ha con sé una giovenca: è tutto regolare.

Il comando divino è chiaro: Inviterai quindi Iesse al sacrificio. Allora io ti farò conoscere quello che dovrai fare e ungerai per me colui che io ti dirò (v. 3). È Dio che prende l’iniziativa, è lui che guida la storia e sceglie per sé chi vuole e secondo criteri tutti suoi e non nostri. Mi viene in mente l’episodio evangelico della chiamata dei Dodici: Marco (3,7-19) ci dice che Gesù aveva attorno a sé i suoi discepoli e molta folla che lo seguiva da tutte le zone circostanti e, addirittura, anche da alcuni territori pagani. Ebbene: “in una turba sterminata di gente risuona un nome: il tuo. Stupore generale. A te, non aveva pensato nessuno. Lui sì!”. Gesù sale sul monte e chiama a sé quelli che vuole: Simone, Andrea, Giacomo, Giovanni… Dodici nomi tra tanti. Dodici persone chiamate una per una, volute e amate singolarmente e personalmente. A loro non aveva mai pensato nessuno. Nessun rabbi che si rispetti forse li avrebbe presi al suo seguito. Certo, alcuni di loro erano conosciuti e per i più svariati motivi: Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni erano pescatori e dunque noti al mercato del pesce. Qualcuno addirittura era anche odiato o sicuramente mal visto dai suoi compaesani: Matteo Levi, il pubblicano che stava al servizio del nemico occupante. Erano conosciuti, è vero, ma nessuno avrebbe mai scommesso un soldo su di loro. Nessuno avrebbe mai immaginato che questi “uomini qualunque”, insieme al loro strano rabbi, sarebbero “passati alla storia”.

È stato così anche per il nostro Davide.

Samuele dunque agisce secondo il comando divino: Fece santificare anche Iesse e i suoi figli e li invitò al sacrificio (v. 5.

A questo punto la scena pare volerci portare sotto il palcoscenico di una sfilata di bellezza: Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli (v. 10). Un momento di suspance: quale sarà il prescelto? Samuele sembra avere le sue preferenze e non ha dubbi che anche Dio abbia “buttato gli occhi” sul suo stesso beniamino: Quando furono entrati, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!» (v. 6). Eh sì, non ci sono dubbi. Questo ha proprio tutte le carte in regola per essere il re d’Israele: è il primogenito, ha una bella presenza, è alto e possente… è il vanto di suo padre. Il Signore, si sa e non poteva essere altrimenti, ha fatto un’ottima scelta.

Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (v. 7). Povero il nostro Samuele e povero anche Eliàb! Ma non disperiamo, ci sono ancora altri sei figli. Certo è che la delusione deve essere stata grande. L’alta statura e la prestanza fisica erano infatti caratteristiche proprie di Saul, il primo re, che l’autore sacro si era premurato di sottolineare bene: “prestante e bello: non c’era nessuno più bello di lui tra gli Israeliti; superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo” (1 Sam 9,2). Era perciò più che logico ritenere che le stesse qualità dovessero appartenere al nuovo re. Ma Dio ha altri criteri di giudizio e il brano ce lo dimostra magistralmente. Samuele pensava di saperla lunga dopo tanti anni di servizio al Signore, ma ha ancora una lezione da imparare. Il discrimine è dato dalla vista: ovvero, è una questione di “punti di vista”. Dio ha occhi diversi dai nostri e non manca di dimostrarcelo. All’inizio del nostro brano si dice letteralmente “che Dio ha «visto» per se stesso un re tra i figli di Iesse (v. 1) e al v. 12 si dice di David che era una «buona visione»… Dio non guarda «agli occhi», ma al cuore (v. 7)… Il suo sguardo giunge là dove non arriva quello dell’uomo. Questi può solo fermarsi all’esterno, al massimo «guardare negli occhi»… ma non può arrivare al cuore… Esso rimane conoscibile solo da Dio” (Gianluigi Corti).

E così sfilano davanti agli occhi di Samuele e davanti agli occhi di Dio tutti i sette figli di Iesse. Questa volta Samuele ha capito e si mette in ascolto del giudizio di Dio: Il Signore non ha scelto nessuno di questi (v. 10).

Per un attimo forse Samuele si sarà sentito raggelare il sangue: ho rischiato la mia vita per obbedire al comando di Dio. Uno dei figli di Iesse avrebbe dovuto essere unto re d’Israele, ma il Signore ha dato a tutti il suo giudizio negativo. Com’è possibile? Cosa devo fare?

Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge» (v. 11). Ancora un altro figlio, il più piccolo, e nessuno si era ricordato di lui, neppure il padre. Troppo giovane per essere “preso sul serio”. Letteralmente, le parole di Iesse suonerebbero così: “avanza” ancora il più piccolo. Egli è semplicemente un avanzo. Curiosamente egli è l’ottavo di sette figli. Sette è il numero della perfezione. Sette figli maschi è il massimo che un uomo possa desiderare… ma c’è un ottavo figlio e sarà proprio lui a dare pienezza e fama alla paternità di Iesse (G. Corti).

Ormai è tutto chiaro: Dio non finisce di sorprendere. L’ultimo, quello che nessuno ha mai tenuto in considerazione se non per custodire il gregge e poco più, è il suo prescelto e diventa perciò il più grande.

Samuele lo manda a chiamare.

Disse il Signore: «Alzati e ungilo: è lui! ». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli (v. 12-13). Soltanto adesso, quando egli si trova in mezzo ai suoi fratelli (ovvero “in una turba sterminata di gente”), risuona e finalmente conosciamo il suo nome: Davide, l’amato mio. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto (v. 12). Il Signore, soltanto lui, vede il cuore. Noi invece non possiamo che ammirare la bellezza del consacrato di Dio: il suo prescelto è sempre, e al di là di tutto, una «buona visione». Non si tratta della classica “bellezza da Miss”. Lo sguardo di Dio che si posa su di lui, nonostante la sua piccolezza e insignificanza agli occhi degli uomini, è garanzia di una bellezza che supera i canoni dell’esteriorità e trova la sua sorgente in quell’immagine di Cristo custodita nel cuore. Contemplandola ammirato, Dio non può che compiacersene e sceglierla per sé.

“Qualità morali e caratteristiche psicologiche, potenzialità e limiti dell’essere umano, di cui il cuore è forziere, sono note a Dio soltanto ed egli sceglie non solo per merito di esse, ma anche malgrado esse” (G. Corti).

Davide non appariva certo un possibile aspirante al trono: era ancora un ragazzino e non possedeva una benché minima prestanza fisica (ce lo rivelerà l’episodio della lotta contro Golia - 1 Sam 17), a differenza dei suoi fratelli maggiori. Questo è talmente vero che, invitati al sacrificio, il padre nemmeno prende in considerazione l’idea di farlo partecipare: rimanga pure a pascolare il gregge, mentre noi ci occupiamo di cose più importanti. Eppure il Signore, anche se da lontano, lo aveva «visto bene» e aveva deciso di farne il suo prediletto, il suo amato (non sono forse queste le stesse espressioni che risuoneranno dal cielo in occasione del battesimo e della trasfigurazione di Gesù?).

È proprio il caso di affermare insieme a Paolo: “quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio” (1 Cor 1,27-29).

Essere scelti da Dio “in una turba sterminata di gente” non è assolutamente questione di meriti o di medaglie al valore. Dio non va in cerca di chi è alla ribalta, ma piuttosto di chi se ne sta buono dietro le quinte a fare il garzone e a preoccuparsi che lo spettacolo abbia successo e che gli attori protagonisti - i divi - abbiano i loro meritati applausi.

“A te, non aveva pensato nessuno. Lui sì!”. Due occhi si posano su di te, che pensavi di aver vissuto nell’anonimato e perciò di passare inosservato e invece… “tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo” (Is 43,4).

 

Maggio / Giugno 2010 - Anno XIV - n° 2


Ho scritto "T'amO" Sulla roccia (3)

- quarta parte -

 

... Più che “vocazione”,

sembra una “evocazione”.

Evocazione dal nulla.

Puoi dire a tutti: si è ricordato di me!

E davanti ai microfoni della storia

(a te sembra solo nel segreto del cuore)

Ti affida un compito

che solo tu puoi svolgere.

Tu e non altri.

Un compito su misura… per lui.

Sì, per lui, non per te.

Più che una missione,

sembra una scommessa.

Una scommessa sulla tua povertà…

 

(Don Tonino Bello, 6 maggio 1990)

 

 

Questa volta tocca ad Abramo: e non poteva essere diversamente. Le tre grandi religioni monoteiste (Cristianesimo - Ebraismo - Islamismo) fanno risalire le proprie origini a questa grande figura e, a ragione, lo definiscono “Padre nella fede”.

Quando la Bibbia introduce la vicenda di Abramo, in realtà ne ha già presentate diverse altre ed ha fatto sfilare davanti ai nostri occhi lunghe (e forse anche un po’ noiose!) liste di nomi, che a dir poco ci fanno strabuzzare gli occhi ed ingarbugliare la lingua nel cimentarsi a pronunciarli.

Nonostante tutto, però, quel dodicesimo capitolo del libro della Genesi ha un fascino particolare e non riesce a passare inosservato. Possiamo proprio dire che ha segnato la storia dell’umanità, della fede di buona parte degli abitanti della terra. È un po’ la nostra storia, anche se comincia in un giorno indeterminato e lontanissimo nel tempo.

Con Abramo Dio scrive una nuova pagina del suo capolavoro ed opera una nuova creazione. Infatti: Il Signore disse ad Abram… Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore (Gen 12,1.4). Sembra proprio di risentire quelle prime parole dell’“In principio… Dio disse… E così avvenne” (Gen 1,1.6.7). Al momento della creazione, per ben dieci volte Dio ha parlato chiamando all’esistenza il giorno, la notte, la terra, l’acqua, gli astri, le piante, gli animali ed infine l’uomo. Nella storia di Abramo, dalla sua chiamata (Gen 12) al rituale dell’Alleanza (Gen 15), ancora per dieci volte Dio rivolge la sua parola all’uomo che per sempre sarà definito “l’amico” (di Dio, naturalmente). “Dieci Parole” (= il Decalogo - cfr. Es 20 e Dt 5) che ritroveremo ancora sul monte Sinai, quando i figli di Abramo diventeranno il popolo di Dio, la sua proprietà fra tutti i popoli.

 

Quando il Signore lo chiama, Abramo ha appena fatto capolino tra le pagine sacre e non ha assolutamente nulla di speciale né tantomeno di promettente: è un pastore nomade (non ha quindi una fissa dimora) della Mesopotamia (territorio pagano e ben lontano dalla futura terra d’Israele), sposato con una donna sterile (il che equivale ad una sorta di maledizione) ed entrambi ormai avanti negli anni (destinati cioè a “scomparire nel nulla”, senza una posterità e senza una loro storia, fino a quel momento). Davvero una “evocazione dal nulla”, come scrive don Tonino Bello. Ma forse che Dio non ha già saputo operare “in principio” una creazione “ex nihilo”? E che creazione! “La storia di Abramo incomincia con una parola di Dio, per sua iniziativa. Anche la creazione è incominciata allo stesso modo. E con la creazione anche Abram esce improvvisamente dall’ombra e dall’anonimato, comparendo in piena luce. È un uomo qualsiasi, sconosciuto, uno dei tanti, ma la parola di Dio lo trae dall’ombra e lo fa essere” (G. De Virgilio). Bello: prima di allora, cioè prima di essere chiamato per nome da Dio, Abramo non era. Abramo c’è perché Dio gli rivolge la parola e così lo “crea”. Nessuno di noi esisterebbe se Dio, un giorno (e ogni giorno!), non gli avesse rivolto la sua parola di vita. “Puoi dire a tutti: si è ricordato di me!”.

Quando Abramo entra in scena, il testo sacro ci dice che egli ha settantacinque anni. Ma fino a quel momento non si è mai parlato di lui: 75 anni di vita che a noi sono sconosciuti, eccettuate quelle pochissime notizie che abbiamo già ricordato e che non hanno in sé alcunché di eccezionale o straordinario. Eppure quest’uomo, un giorno, diventa protagonista di un evento che cambierà per sempre la sua vita… e - possiamo dirlo - anche la nostra.

Era un giorno come tanti altri erano già trascorsi: i greggi al pascolo, i servitori sempre pronti ad ogni suo cenno, le donne affaccendate all’interno delle tende, i bambini che giocano e schiamazzano… Ci sono tutti i bambini tranne il suo, del quale non ha mai visto il volto né udito la voce. Morirà con questa grande pena nel cuore e nessuno riuscirà a lenire la ferita che gli brucia dentro. Quel giorno però l’eco dell’immensa distesa della Mezzaluna fertile porta una voce diversa dalle altre, una voce che Abramo non ha mai udito prima. Una voce che soltanto lui sente “nel segreto del cuore”, ma che in realtà - a sua insaputa - risuona “davanti ai microfoni della storia”. Quella voce - la voce di Dio - lo chiama a qualcosa di grande e a dir poco impossibile per uno come lui. Lasciare la propria terra e le proprie sicurezze per abbandonarsi all’incertezza di una terra sconosciuta. E poi, come credere (nonostante una parte di te lo voglia con tutto il suo cuore) all’assurdità della promessa di una discendenza? È troppo per un uomo che porta in sé, scolpiti tra le pieghe di una pelle scavata dagli anni, i segni di una fine che lascia l’amaro in bocca perché chiusa a qualsiasi, seppur minimo, accenno di speranza.

Nonostante le sue misere credenziali, Dio chiama Abramo e gli affida un compito ben preciso, per il quale egli - tra tutti - è proprio la persona più adatta. “Un compito che solo tu puoi svolgere. Tu e non altri”. Comincia la grande avventura: Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore (Gen 12,4). Abramo - come dice la lettera agli Ebrei (11,8) - “partì senza sapere dove andava”. Inizialmente il suo viaggio sarà caratterizzato da numerosi spostamenti di tappa in tappa e da continui andirivieni. In ognuno di questi luoghi Abramo costruirà un altare, quasi a significare che egli impara a conoscere il Dio che lo ha chiamato camminando sulle vie che, di volta in volta, gli sono indicate. Quando si incontra Dio non si può pensare di piantare definitivamente la tenda (cfr. il viaggio nel deserto del popolo d’Israele e l’episodio della Trasfigurazione), perché Dio è sempre oltre ed è sempre Altro. La strada che porta a lui è lunga quanto la vita di ogni uomo, ma è altrettanto breve quanto la distanza che separa il nostro cuore dal suo.

 

Gennaio / Marzo 2011 - Anno XV - n° 1


 Ho scritto "T'amO" Sulla roccia (4)

- quinta parte -

 

(Continuazione dell'articolo precedente)

… Intanto trascorrono dieci anni e nella vita di Abramo non sembra essere cambiato niente, se non il fatto di aver lasciato il padre e la terra e il ritrovarsi con qualche ruga e capello bianco in più. Signore Dio… Io me ne vado senza figli… Ecco, a me non hai dato discendenza (Gen 15,2.3). Quella promessa che aveva dilatato il suo cuore, facendo sbocciare in lui una viva speranza, era soltanto un bluff? Il caro mite ed obbediente Abramo adesso alza la voce e chiede ragioni. “Tuttavia neppure di fronte al dubbio e all’amarezza di Abram, Dio si affretta a mantenere la promessa. Semplicemente la rinnova, invitando il patriarca a «guardare» lontano, contando le stelle [cfr. Gen 15,1-6]… Per vincere il dubbio e continuare a credere, Abramo deve uscire dal suo piccolo orizzonte («lo condusse fuori»), deve cambiare direzione dello sguardo («guarda le stelle») e deve non dimenticare che la potenza di Dio è grande («conta le stelle, se riesci»)” (G. De Virgilio). Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia (Gen 15, 6). Abramo però ha ancora molta strada da fare: è vero, si è fidato ciecamente di un Dio che lo chiamava a cose impossibili, ma forse - proprio per questo - via via ha pensato bene di “dargli una mano” per far sì che questa strepitosa promessa potesse realizzarsi nel modo più rapido e semplice. Egli parte subito - com’è detto - ma non senza portare con sé la sicurezza della discendenza promessa, cioè il nipote Lot che, rimasto orfano, avrebbe avuto tutto il diritto di diventare erede/figlio di Abramo. Dopo la necessaria separazione dei due (le famiglie-clan erano diventate troppo numerose per continuare a convivere serenamente), Abramo è costretto a ripiegare su una nuova “adozione”: il suo servo migliore e fidato. Ma ancora non ci siamo. Le parole di Dio sono chiare: Non sarà costui il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede (Gen 15, 4). Allora, l’unica soluzione è quella di unirsi alla schiava della moglie sterile ed avere un figlio da lei. Tutto è risolto. E Dio disse: «No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio…» (Gen 17, 19).

Abramo ha risposto prontamente alla chiamata di Dio ma, vista la precarietà della sua vita e del futuro che gli si prospettava, ha voluto programmare ogni cosa per evitare spiacevoli imprevisti. Ma Dio sa bene quello che fa, quello che chiede e a chi lo chiede. “Ti affida un compito che solo tu puoi svolgere. Tu e non altri. Un compito su misura… per lui. Sì, per lui, non per te. Più che una missione, sembra una scommessa. Una scommessa sulla tua povertà”. Dio ha scommesso tutto sulla povertà di Abramo, ha fatto la sua puntata più alta, ha giocato d’azzardo ed ha riportato una vincita che non ha pari. Ha pagato con il sangue di suo Figlio ed ha letteralmente sbancato, lasciando tutti a bocca aperta, compreso lo stesso Abramo che vide il giorno del Signore Gesù “e fu pieno di gioia” (Gv 8,56). Il Signore non ha quasi mai delle buone carte in mano ma, non si sa come, riesce sempre a giocarle nel miglior modo possibile. Basta solo lasciarlo fare, starsene buoni tra le sue mani e lasciare che butti giù ora questa ora quell’altra carta. La vincita è assicurata. Ad essere in coppia con lui non ci si rimette mai, anche quando sembra che il gioco si stia mettendo male. Abramo più volte ha avuto il timore di finire in “bancarotta”. Anche lui, in fin dei conti, aveva scommesso tutto sulla parola-promessa di Dio ed ha quasi rischiato di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Sì, un figlio - suo e di Sara sua moglie - lo ha avuto, ma sul più bello Dio gli ha chiesto di sacrificarlo. Esperienza terribile: riaffondare nel nulla, dopo avere sperimentato una felicità piena ed esaltante. «Eccomi» (Gen 22,1.11). e Dio sbanca ancora una volta: «… io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare…» (Gen 22,17).

Dio ha davvero esagerato con Abramo, lo ha guidato per vie impensabili, gli ha dato tutto ma gli ha anche chiesto tutto, ha promesso e preteso l’impossibile ma gli ha anche dimostrato, di volta in volta, che “non è impossibile la via, ma l’impossibile è la via”.

Questa è la dinamica di ogni vocazione: lasciare che Dio “esageri” con la persona che ha scelto, dargli carta bianca, fargli abitare la propria vita per riempirla di sé, dar credito alle sue promesse impossibili, sapere attendere i suoi tempi ed accettare le sue vie (a volte poco “ortodosse”); dire sempre “Eccomi” ed “alzarsi di buon mattino” per fare quello che lui chiede, e - quando serve, perché no? - alzare un po’ la voce e richiamarlo alle sue promesse disattese, certi però che è quasi come un gioco tra innamorati, dove ci si diverte a stuzzicare l’amore dell’altro.

Se ad Abramo è andata bene, forse ci sono buone speranze anche per noi.

 

Aprile / Maggio 2011 - Anno XV - n° 2


 

Ho scritto "T'amo" sulla roccia (5)

- sesta parte -

 

… Ha scritto “T’amo” sulla roccia!

Sulla roccia, non sulla sabbia

come nelle vecchie canzoni.

E accanto ci ha messo il tuo nome.

Forse l’ha sognato di notte. Nella tua notte.

Alleluia!

Puoi dire a tutti:

non si è vergognato di me!

 

(Don Tonino Bello, 6 maggio 1990)

 

 

Con questo articolo concludiamo il nostro percorso in compagnia di don Tonino Bello, ma non quello insieme a tanti personaggi biblici che ci racconteranno le loro storie di vocazione.

Le ultime parole del testo di don Tonino mi pare che bene si possano adattare alla figura e alla storia di Pietro. Egli è l’uomo-roccia, non estraneo però a continue “scosse di assestamento” che gli garantiranno, alla fine, una consistenza ed una solidità granitiche.

C’è una scena del film “S. Pietro” di Bernabei (andato in onda qualche anno fa) che mi colpisce particolarmente. Ad un Pietro amareggiato dal suo vile tradimento, Maria la Madre di Gesù, dinanzi al Sepolcro del Figlio e Maestro, così si rivolge: “Non smettere mai di cercarlo e lui ti troverà… Sarà lui a trovarti”. Ecco, penso che la grandezza di Pietro sia stata proprio l’aver fatto sue le parole di Maria (al di là della fantasia del regista), in quella continua ed appassionata ricerca del suo Maestro e Signore che gli ha permesso di risorgere dal buio della notte che aveva amaramente segnato la sua vita di discepolo.

Scrivere di Pietro non è semplice, perché Pietro è realmente ciascuno di noi: la sua storia è anche la nostra e, parafrasando un’espressione evangelica, “penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere” (Gv 21, 25). Cominceremo perciò dalla “fine” della storia per poi allargare con dei flash-back.

Gv 21, 1-14: Gesù è risorto ed è già apparso ai discepoli. Una sera/notte Pietro si rivolge ad alcuni suoi compagni dicendo: Io vado a pescare (v. 3). Solitamente i biblisti commentano questa espressione come un ritorno alla vita passata, quasi un dire: ormai è finito tutto. Armi e bagagli: ognuno ritorni a casa sua. A mio modesto parere, invece, la vedo più in continuità con le parole del film sopracitato, anche perché Pietro e gli altri hanno visto Gesù risorto e non possono certo pensare che sia finito tutto. In quel “io vado a pescare” a me sembra di poter leggere tra le righe un “io vado a cercarlo”. Eh sì! E’ come un voler ritornare al luogo del primo appuntamento, là dove si erano conosciuti, dove i loro sguardi si erano incrociati, dove avevano affidato generosamente le proprie vite l’uno all’altro, dove tutto era iniziato con un semplice, ma straordinariamente profondo, “SI”. Dopo la notte del rinnegamento, Pietro vuol ricominciare da capo, da quel mattino che diede una luce nuova alla sua vita. Pietro va a cercare Gesù perché Egli possa trovarlo alla fine della sua notte. Infatti: quella notte non presero nulla. Quando era già l’alba, Gesù stette sulla riva (vv. 3-4). Pietro ha già sperimentato diverse “notti” nella sua vita; notti che hanno segnato il suo incedere più o meno spedito dietro i passi di Gesù; notti che hanno, di volta in volta, scolpito e dato forma alla “roccia” che il Maestro aveva scelto fra tante per il suo capolavoro. Ma la notte narrata in Gv 21 è davvero speciale, riassume in sé e supera tutte le altre precedenti: è la notte della pesca miracolosa. No, non quella dei centocinquantatre grossi pesci che pur si è verificata (cfr. v. 11); bensì quella di un “pesce” ancora più grosso che, finalmente e definitivamente, ha abboccato all’amo di Gesù: Simon Pietro, un pesce pescatore.

Il primo incontro tra Gesù e Pietro era avvenuto circa due o tre anni prima. Luca 5 ce lo descrive in modo simile all’incontro narrato in Giovanni al capitolo 21. Anche quella volta Simone aveva avuto una lunga notte infruttuosa e, al mattino, quando il sole era ormai alto, il nuovo rabbi da poco apparso sulla scena d’Israele gli diede un comando che aveva dell’incredibile: Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca (v. 4). Quel giorno Simone prese davvero il largo, cioè fu capace di andare oltre e al di là, di allargare lo sguardo della fede e di arrendersi all’irrazionalità che sarebbe poi diventata la sua ragione di vita: Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti (v. 5). Quel “SI” fruttò una pesca miracolosa e fu una prima scalpellatura al futuro capolavoro. Dai racconti evangelici emerge un ritratto di Pietro dalle diverse sfumature: egli ha “un carattere deciso e impulsivo; egli è disposto a far valere le proprie ragioni anche con la forza. Al tempo stesso, è a volte anche ingenuo e pauroso, e tuttavia onesto, fino al pentimento più sincero” (Benedetto XVI). In quel mattino della sua nuova storia, Pietro fu chiamato da Gesù lungo il mare di Galilea, sulla spiaggia… sulla sabbia (anche se in realtà si tratta di un grande lago, la cui riva non è affatto sabbiosa), ma il suo nuovo nome, la sua nuova e definitiva identità è roccia, Pietro. Il suo nome, la fedeltà, l’amore di Dio in Gesù sono dunque scritti sulla roccia e non sulla sabbia della fragilità, della debolezza, dei peccati, dell’incostanza e della instabilità emotiva, che pure Pietro sperimenta e che costellano la sua storia di vocazione.

In Matteo 16, dopo diverso tempo dall’inizio del suo ministero pubblico, Gesù chiese agli apostoli quale fosse l’opinione della gente nei suoi confronti. Le risposte furono differenti, seppure concordi nell’identificarlo con l’uno o con l’altro dei grandi profeti della storia d’Israele. Ma voi, chi dite che io sia? (v. 15). All’illuminata risposta di Simone, a nome di tutti, Gesù pose il suo sigillo: E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa (v. 18). La nostra roccia cominciò a prendere forma ed identità sull’impronta di quel calco che altro non è se non lo stesso Cristo Gesù, la vera Roccia che fonda e dà consistenza, l’Amen della fedeltà di Dio all’uomo. Una fedeltà, però, alla quale l’uomo, nel nostro caso Simon Pietro, difficilmente riesce a corrispondere.

Durante l’Ultima Cena (Lc 22) Gesù si rivolse a Pietro con parole molto forti, assicurandogli la sua preghiera affinché la fede dell’apostolo, passata al vaglio della tentazione, rimanesse salda e costituisse un sicuro appoggio e riferimento per i suoi compagni. Pietro, imprudentemente forte nella sua convinzione, ribatté il suo fermo proposito di condividere in toto la sorte del Maestro che gli rispose: Pietro, io ti dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia negato di conoscermi (v. 34). Povero Pietro! La sua roccia si rivela friabile e facile al cedimento. È notte: Gesù prega nell’Orto degli Ulivi, si prepara all’evento determinante della sua vita e chiede ai suoi di vegliare insieme a lui. Ma Pietro e gli altri non resistono - perché in fondo non capiscono - e si addormentano. Dopo un po’ avviene l’arresto e fuggono via impauriti. Il loro Maestro è solo di fronte alla sorte che sigillerà la sua missione. Pietro però ci ripensa e trova il coraggio di seguirlo… da lontano (v. 54). Che strana sequela! Seguire a distanza per non correre il rischio di esserne troppo coinvolto. Lui che aveva lasciato tutto e subito, adesso esita, e poco a poco, cerca di riprendersi il suo. E proprio qui cade: è la “notte” della sua vita, la notte della morte. Sì, quella di Gesù, ma soprattutto la sua, quella di Pietro. Con il suo triplice rinnegamento del Maestro, egli decreta la sua stessa morte. Eh sì! Perché se, come dicevamo, in Matteo 16 egli aveva ricevuto la sua nuova e vera identità sulla base del riconoscimento di quella di Gesù, ora avviene proprio il contrario. Negando Gesù, egli nega se stesso. Ma quella notte tremenda, per grazia di Dio, ha un termine: E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e Pietro si ricordò… E, uscito fuori, pianse amaramente (vv. 60-62). Nell’incontro dei due sguardi - come in quel primo giorno - e nel bagno salutare delle lacrime, Pietro riprende a vivere, primo frutto di quel seme che ha accettato di marcire nella terra per dare un raccolto abbondante (cfr. Gv 12, 24).

Gv 21, 15-17: sulla riva del lago, dopo essersi saziati di quella pesca miracolosa, Gesù e Pietro si appartano dagli altri. È un momento davvero solenne. Pietro, nella notte, era uscito a cercarlo e Gesù, al mattino, lo trova e di nuovo lo chiama. Alla duplice richiesta di un amore totale ed incondizionato, Pietro risponde offrendo il suo povero e fragile amore umano, quasi vergognandosene. Gesù allora gli fa capire che questo gli basta perché è sincero e gli affida il grande e grave compito di diventare pastore del suo gregge.

“Gesù davanti a Pietro chiede, d’ora in poi, forza e coraggio. Proprio amandolo lo ha ritrovato… Ora poco importa se la rete del rinnegamento e i lacci del male sono stati più forti delle parole di Gesù. L’essenziale è che il Maestro venga a riprendersi ciò che è suo… La grandezza di Pietro sta nel non essere stato abbandonato da Colui che aveva tutti i diritti di sostituirlo. I fallimenti di Pietro diventano così motivo di grazia per lui e di rivelazione per il suo Signore. C’è poco da addolorarsi se per tre volte Gesù gli chiede un amore serio, superiore a quello degli altri. È proprio amando che si riesce a superare il limite… Pietro si accorge di essere sempre stato importante per Gesù. Lo dice quel gesto: l’essere sulla riva e non cercare altri apostoli migliori esplicita chi sta davvero a cuore al Cristo” (M. D’Agostino).

Pietro è grande perché non ha avuto paura di essere quel che era e così presentarsi quotidianamente al suo Maestro. Lo ha amato veramente e da lui ha accettato tutto, anche le sferzate più dolorose e i rimproveri più energici, convinto che l’amore di Gesù bastasse a risollevarlo dalla sua fragilità. Questo amore lo porta scolpito indelebile sulla sua roccia, che pure è formata da tanti granelli di sabbia, impastati dalle lacrime in una notte - per sempre - indimenticabile.

  

 

HA SCRITTO “T’AMO” SULLA ROCCIA

 

Vocazione.

È la parola che dovresti amare di più.

Perché è il segno di quanto sei importante

agli occhi di Dio.

È l’indice di gradimento, presso di lui,

della tua fragile vita.

Sì, perché, se ti chiama,

vuol dire che ti ama.

Gli stai a cuore, non c’è dubbio.

In una turba sterminata di gente

risuona un nome: il tuo.

Stupore generale.

A te, non aveva pensato nessuno.

Lui sì!

Più che “vocazione”,

sembra una “evocazione”.

Evocazione dal nulla.

Puoi dire a tutti: si è ricordato di me!

E davanti ai microfoni della storia

(a te sembra solo nel segreto del cuore)

ti affida un compito

che solo tu puoi svolgere.

Tu e non altri.

Un compito su misura… per lui.

Sì, per lui, non per te.

Più che una missione,

sembra una scommessa.

Una scommessa sulla tua povertà.

Ha scritto “T’amo” sulla roccia!

Sulla roccia, non sulla sabbia

come nelle vecchie canzoni.

E accanto ci ha messo il tuo nome.

Forse l’ha sognato di notte.

Nella tua notte.

Alleluia!

Puoi dire a tutti:

non si è vergognato di me!

 

(Don Tonino Bello, 6 maggio 1990)

 

 

Anno XV - 2011 n°3


 

Un chiamato che chiama

- settima parte -

 

Quando si parla di profeta si intende comunemente (e altrettanto erroneamente) una persona che predice il futuro o possiede poteri occulti. In altre parole, si pensa ad un indovino o un chiaroveggente. Questo infatti è il primo significato riportato nei nostri dizionari.

Secondo la tradizione biblica, invece, il profeta è l’uomo di Dio per eccellenza, colui che è al contempo in comunione profonda con Dio e pienamente immerso nella storia del suo tempo, tanto da riuscire a leggerla con gli occhi di Dio. Anzi, di più, egli è il portavoce di Dio presso il popolo eletto ed anche presso tutti gli altri popoli.

In Israele il profetismo si sviluppa in un preciso periodo storico, quello della monarchia (XI-V sec. a.C.), quando il popolo, ormai stabilitosi nella Terra Promessa, inizia a concedersi una vita accomodante che lo porta a prendere le distanze dal suo Dio e a presumere di potersi “fare da solo”. Già l’aver istituito la monarchia in Israele era parso come un chiaro rifiuto di una filiale e riconoscente sottomissione al vero e unico Sovrano Jahvèh. Israele, pago e sazio di quella terra dove scorre latte e miele, dimentica di essere il popolo di Dio, la sua proprietà tra tutti i popoli e, come i bambini che giocano a fare i grandi, crede di poter essere alla pari delle altre nazioni circostanti. Ma ahimè! Chi scherza col fuoco prima o poi si scotta e ne paga le conseguenze. Il sogno di autosufficienza si trasforma ben presto in un incubo: Israele sperimenta tutta l’amarezza delle invasioni nemiche e delle deportazioni in terra d’esilio. È proprio in questo contesto che la figura del profeta emerge in tutta la sua forza per lanciare il messaggio divino. L’inviato di Dio ammonisce e mette in guardia il popolo affinché si ravveda e ritorni a Lui, pena la triste conseguenza che, nella sua cocciutaggine, Israele non riuscirà ad evitare.

Secondo l’etimologia greca, il profeta è colui che parla “pro”: a) davanti ad un’assemblea; b) prima che la cosa avvenga; c) a nome di un altro. La lingua ebraica, dal canto suo, conosce diversi termini per indicare questa categoria di persone, ma il principale è “nābî” e il suo significato ruota attorno al verbo “chiamare”, sia nella sua forma attiva che in quella passiva. Il profeta è allora un chiamato che chiama. Egli è il chiamato per eccellenza e perciò l’uomo della Parola, da Questa chiamato alla sua missione, e di Questa annunciatore. Un costante ritornello infatti, tipico degli scritti profetici, è: mi fu rivolta la Parola del Signore, oppure il Signore mi disse. Quest’ultima espressione, in particolare, richiama il racconto della creazione (cfr. Gen 1, 1-2,4a), laddove la Parola di Dio è risuonata in tutta la sua potenza creatrice. In ebraico, “dabàr” non significa soltanto “parola”, ma anche compimento della stessa, e perciò “azione, evento”. Nel racconto della creazione Dio dice e fa, perché quello che dice avviene: Dio disse… e così avvenne (Gen 1, 6.7ss.). Il profeta è tale perché a lui Dio ha rivolto la sua chiamata e la sua Parola e queste lo hanno reso capace di diventare quello per cui è stato appunto chiamato. Il profeta vive della Parola di Dio, la ascolta, la assimila fino a farla diventare la sua propria carne: Avvenga per me secondo la tua parola… E il Verbo si fece carne (Lc 1, 38; Gv 1, 14); Figlio dell’uomo… mangia questo rotolo… nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere con questo rotolo… Prendi il libro aperto… e divoralo (Ez 3, 1.2; Ap 10, 8.9).

Nel libro di Ezechiele, il profeta è ripetutamente chiamato “figlio dell’uomo”, termine che solo più tardi (profeta Daniele e Gesù) diventerà un titolo messianico, ma che qui ha il valore di creatura umana nella sua realtà fragile e precaria. Ebbene, proprio all’uomo fragile Dio affida la sua Parola e il compito di annunciarla. Dio affida perché si fida. È bello vedere, leggendo le storie dei profeti, che Dio non trasforma questi uomini con un colpo di bacchetta magica. Non li fa diventare perfetti o forbiti oratori. No, a Lui non interessano i titoli di studio o gli impeccabili curriculum. Tra i suoi prescelti ci sono sì sacerdoti e uomini colti, ma non mancano nemmeno contadini e pastori. Ogni profeta parla con la propria umanità, col bagaglio della propria storia personale, col proprio carattere. La parola del profeta è parola di Dio con la voce dell’uomo. A tal proposito dice Agostino: «Dio parla per mezzo dell’uomo al modo umano, poiché parlando così, egli cerca noi» (La Città di Dio 17, 6, 2); e ancora: «Io parlo, ma dico cose tue. Se parlassi per mio conto, sarei bugiardo. Ebbene, io dirò cose tue, e sarò io a dirle. Sono, queste, due cose ben distinte: una è tua, l’altra è mia: la verità è tua, la bocca è mia» (Sul salmo 88,I,2).

Ogni vocazione - anche quella profetica - suppone sempre una missione e un servizio. Il profeta è infatti “pro”, cioè “per, a beneficio, a favore di…”. Dio non chiama perché ciascuno si coccoli in privato, ma lo fa sempre per un preciso compito. Dio non assume impiegati d’ufficio, con tanto di scrivania, poltrona e computer, ma esce per chiamare operai per la sua vigna, disposti a sopportare il caldo e il peso di una lunga giornata lavorativa… e forse con una paga non molto gratificante (cfr. Mt 20, 1-16)! Il profeta si rivela essere un uomo scomodo, un disturbatore della quiete pubblica, un osso duro non soltanto per i figli d’Israele, ma anche per quanti altri sono destinatari della sua parola. Egli sperimenta sulla sua pelle il rifiuto, la persecuzione e l’odio, ma sa che se vuol fare centro deve sempre-comunque-nonostante tutto puntare dritto e mirare in alto. In tutto questo, egli non ha l’ingenua pretesa di poter bastare a se stesso: intuisce la gravità della sua missione (umanamente impossibile) e non ha remore nel professarsene indegno. Ecco allora che Dio interviene a rassicurare il suo uomo: Non temere… Io sono con te. Sono la garanzia che Dio cammina accanto al profeta e non lo lascia da solo a compiere la sua opera: «Sembra duro e gravoso ciò che il Signore ha comandato… Ma non è affatto né duro né gravoso ciò che comanda colui che aiuta a sua volta a compiere ciò che comanda» (s. Agostino, Disc. 96,1). In quell’“Io sono con te” c’è tutta la potenza e la fedeltà del Dio dell’Esodo, che proprio con questo nome si è rivelato a Mosè nell’episodio del roveto ardente (cfr. Es 3, 14-15) e che con mano potente e braccio teso (Sal 135, 12) ha operato prodigi a favore del suo popolo. Il profeta Ezechiele sperimenta questa realtà in un modo tutto personale, portandola scolpita nel suo stesso nome: “Dio è il Forte, è la mia forza, mi rende forte”. A lui Dio rivolge, all’inizio della sua vocazione/missione, una promessa che suona quasi come un solenne giuramento: Tutta la casa d’Israele è di fronte dura e di cuore ostinato. Ecco, io ti do una faccia indurita quanto la loro faccia e una fronte dura quanto la loro fronte… Non li temere (Ez 3, 7-8.9). con la sua “faccia dura” il profeta è chiamato a “montare la guardia” e a farsi sentinella vigile che avverte quando incombe il pericolo, che non sempre è qualcosa di esterno. Il più delle volte infatti il nemico si annida dentro il cuore dell’uomo e il profeta è chiamato a snidarlo e a riportare l’uomo alla verità di sé. In questo senso la profezia è anti-idolatrica, dove “idolo” rappresenta (secondo l’etimologia greca) uno spettro, un fantasma, una vana apparenza. L’idolo è un inganno, perché distoglie dalla realtà per confinare nel regno dell’apparenza. L’uomo di Dio allora condanna la vanità di chi pretende di voler “inseguire i fantasmi” che lo portano lontano dalla verità che abita nel suo cuore. Forse non sempre il profeta ha la risposta pronta. Lui è il primo a mettersi in ascolto della voce di Dio, ma di una cosa è certo: quello che Dio promette, sicuramente lo porta a compimento, anche se i suoi tempi non corrispondono ai nostri e, dall’alto del suo posto di guardia, alimenta la fiamma del desiderio e della speranza. Prendo a prestito - adattandola al nostro discorso - un’espressione di Marcel Proust: «… vorremmo che egli ci desse delle risposte, quando tutto quello che egli può fare, in realtà è di darci dei desideri. E questi desideri non può risvegliarli in noi, che facendoci contemplare la bellezza suprema».

Concludo con un riferimento al titolo e alla simbologia che ci ha accompagnato durante il nostro incontro: «… Voi siete gli archi da cui i figli, le vostre frecce vive, sono scoccati lontano. L’Arciere vede il bersaglio sul sentiero infinito, e con la forza vi tende, affinché le sue frecce vadano rapide e lontane. In gioia siate tesi nelle mani dell’Arciere; poiché, come ama il volo della freccia, così l’immobilità dell’arco» (Gibran, Il Profeta). Il profeta è l’arciere che punta dritto e mira in alto verso il sole, oltre il mistero, ma è anche l’arco nelle mani di Dio, l’educatore, e aiuta a non “mancare il bersaglio” (che in ebraico è sinonimo di peccato e di vita infelice) e a fare centro nella propria vita.

 

 

Questa riflessione è anche frutto del valido contributo di: A. GASPERONI, «Ezechiele», in G. DE VIRGILIO (cur.), Dizionario biblico della vocazione, Rogate, Roma 2007, 298-308.

 

Anno XVI - 2012 n°1


 

 

MANDA CHI VUOI MANDARE!

- settima parte -

 

Un itinerario vocazionale che si rispetti non viaggia mai sulla corsia di sorpasso di un’autostrada. Piuttosto si addentra per le strade secondarie, magari in una zona di montagna, destreggiandosi tra curve, dossi, salite e discese “mozzafiato”. Insomma: non sempre e non tutto scorre liscio e sereno quando ci si trova dinanzi alla grande ed esigente proposta vocazionale.

Lo sanno bene i protagonisti della storia biblica che stiamo imparando a conoscere più da vicino. Non per niente l’espressione caratteristica di ciascuna chiamata è: «non temere!». Tra tutti, puntiamo il nostro sguardo e la nostra riflessione su Mosè. Attraverso la sua storia scopriremo le difficoltà e i meccanismi di resistenza che abitano la scelta e la risposta vocazionale.

Mosè porta iscritta nel suo nome una duplice realtà: egli è “salvato” dalle acque e per ciò stesso chiamato a salvare il popolo ebraico grazie all’attraversamento delle acque del Mar Rosso; egli però è anche - secondo l’etimologia egiziana del nome – un “figlio”. Più precisamente, il suo nome è un suffisso che solitamente si accompagna a quello delle divinità egizie per indicare che l’uomo che lo porta (il faraone o uno di alto rango) è considerato figlio della stessa divinità. Il nome di Mosè però è libero da ogni specificazione, quasi a significare che egli deve ancora conoscere il vero Dio a cui appartiene e di cui è figlio.

Tralasciamo qui il racconto della sua nascita e delle prime vicissitudini dell’infanzia, certamente ben note a tutti. Mosè è ormai adulto, cresciuto alla corte del faraone, ma il sangue ebraico che scorre nelle sue vene non tarda a farsi sentire, anche con veemenza. Egli si erge subito al ruolo di “paladino della giustizia” tra egiziani ed ebrei e tra gli stessi ebrei: uccide a sangue freddo un egiziano che maltrattava un ebreo durante i lavori forzati e si fa mediatore e giudice in un litigio fra due ebrei (cfr. Es 2,11-14). Poi, costretto a fuggire in una terra straniera, si improvvisa protettore e garante di un gruppetto di ragazze tormentate da alcuni uomini del posto (cfr. 2,16-17). Sono le premesse della sua vocazione ma… è tutta farina del suo sacco perché Dio non gli ha ancora rivelato la sua volontà.

Mosè giunge ad un punto cruciale della sua esistenza: passato e presente sembrano sfuggire al suo disperato controllo e il futuro ancora non gli appartiene. Nel frattempo pensa bene di trovarsi una sistemazione con tanto di moglie, figli e lavoro. In realtà egli è un uomo senza identità: non è egiziano e neanche ebreo (non ancora pienamente); è “figlio”, di un dio certamente, ma non sa bene di quale o di chi. Vive in esilio in una terra straniera (quasi un rifugiato politico) senza una famiglia di origine, una storia e un clan di appartenenza che possano significargli la verità di sé. Espressione perfetta di tutto questo è il nome che dà al suo primo figlio: Ghersom, «vivo come forestiero in terra straniera» (2,22). Nonostante abbia provato a farsi una vita, tuttavia la sua esistenza manca di qualcosa per dirsi realmente piena e significativa: manca del suo senso primigenio ed ultimo. Se la vocazione, come ha detto qualcuno, è “sentirsi a posto nel posto giusto”, Mosè non si sente “a casa” perché non ha ancora scoperto la propria. O meglio, ha provato una vocazione fai-da-te, senza il nullaosta di Dio, ed ha miseramente fallito.

La dinamica vocazionale ha alla base una fondamentale domanda: «volontà sua o volontà mia?» e questa esige una sola risposta: «volontà sua!», ma non senza un attento - e molto spesso sofferto - discernimento. È proprio così che succede al nostro Mosè. Arriva anche per lui il momento fatidico della chiamata e non è tutto rose e fiori. Proprio quando si era messo il cuore in pace per non essere riuscito a diventare il “salvatore del mondo”, ma soltanto un semplice pastore in terra straniera, rifiutato dagli egiziani e dagli ebrei, proprio allora si fa avanti Dio a destabilizzare il suo già precario equilibrio. Nell’episodio del roveto che arde e non si consuma, Dio lo fa scalzare dinanzi alla sua misteriosa presenza (cfr. 3,1-6), rendendolo vulnerabile e indifeso, facendogli così capire che l’esperienza che sta vivendo è qualcosa di sacro e di sacralizzante: è la sua pienezza del tempo che lo renderà totalmente diverso da prima, qualunque sia la posizione che prenderà di fronte a questo evento. Nell’accettazione o nel rifiuto della vocazione/identità che Dio sta per proporgli, egli non sarà più lo stesso.

Ho conosciuto persone che hanno rifiutato la chiamata di Dio (alla vita consacrata o al matrimonio) perché avevano una grande paura: la loro vita sarebbe necessariamente cambiata, anzi sarebbe stata stravolta. Questo è vero, ma lo è altrettanto per chi volta le spalle alla propria vocazione: non sarà più la stessa persona perché non potrà raggiungere la sua piena identità, sarà “un forestiero in terra straniera”, mai completamente pago perché mai realmente “a posto nel posto giusto”. E la sua vita non sarà più come prima di quel no. Si illuderà di poter ritornare alla vita consueta: lavoro, studio, relazioni abituali, ma non sarà più lo stesso, anche se tutto intorno sembrerà non essere cambiato.

La proposta vocazionale dovrebbe suscitare il desiderio di compiersi, non per ciò che si è o si vorrebbe essere, ma per quello che si è chiamati ad essere. Essa è la rivelazione della vera e piena identità. Eludere la domanda e disertare il momento decisivo della risposta equivalgono ad un’amputazione del proprio IO e ad una mancanza di senso che, inutilmente, si cercherà di colmare con un sovraccarico di compensazioni.

Ritorniamo a Mosè: nei capitoli 3-4 del libro dell’Esodo è narrata la sua vocazione secondo una dinamica paradigmatica e quanto mai viva ed attuale. Innanzitutto Mosè prende coscienza del fatto che Dio, prima di lui, si è preso pensiero della condizione degli israeliti; che Dio, prima di lui, ha voluto intervenire in loro soccorso; che Dio, prima di lui, ha voluto colpire a morte gli egiziani; che Dio, prima di lui, ha sentito il sangue ribollire nelle vene per tanta malvagità, quello stesso sangue che scorre nelle vene del suo popolo e di Mosè. E qui scatta la chiamata: Perciò va’! Io ti mando dal faraone…(3,10). Quell’Io fa la differenza e dà inizio ad un botta e risposta nella quale la vocazione si gioca tra l’Io di Dio e l’io di Mosè, il quale, alle proposte/rassicurazioni di Dio ribatterà adducendo un’infinità di giustificazioni e di perplessità, fino all’agghiacciante risposta: Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare! (4,13).

La vocazione non equivale al “mi piace, so fare, sono portato per…”. È vero, umanamente parlando ci esprimiamo così. Nel Regno di Dio però si parla un’altra lingua ed è quanto mai importante intendersi sui termini. La vocazione non me la do io secondo i miei gusti personali o le mie attitudini (che a volte possono anche coincidere, ma non necessariamente). Essa nasce con me, anzi prima di me, perché è un dono che mi viene da Dio e che cresce con me “a scatola chiusa”, senza che io ne sia consapevole, fino alla pienezza del tempo, quando sarò “chiamato” ad accettarlo o meno. Ad un Mosè che ha paura e si ritrova spiazzato, che mette avanti le sua fragilità e le sue insicurezze, Dio chiede di fidarsi della sua grazia, della sua assistenza, della sua fedeltà che non verrà mai meno. È vero, Dio chiede tanto, forse anche troppo, ma quello che lui dà è infinitamente più grande: Se stesso. Il mio SI a lui, infatti, è l’eco/risposta del suo Sia me. Nella dinamica vocazionale non vale il come mi penso, ma il come sono pensato. “Non quindi il «Cogito ergo sum» di Cartesio, ma il «Cogitor ergo sum»” (A. Sicari - Chiamati per nome - Milano, 1990). Ad un Mosè che si pensava salvatore del mondo, capace di riuscirvi con le sue sole forze, Dio contrappone un Mosè da lui pensato quale salvatore e liberatore del suo popolo, capace di riuscirvi con la grazia e la potenza di Dio, in virtù della vocazione alla quale e per la quale è stato chiamato. Mosè cerca di sottrarsi a tanta responsabilità: gli ebrei non gli crederanno e non si fideranno di lui, il faraone gli darà filo da torcere e non li lascerà partire così facilmente e poi… la sua più grossa ed umiliante difficoltà: egli è balbuziente e come può sperare di riuscire a convincere con discorsi e parole che farà fatica ad articolare? Dio non può pretendere così tanto da chi non ne ha le capacità o da chi non se la sente di intraprendere un’avventura rischiosa: manda chi vuoi mandare! Dio allora dà l’ultimo strattone alla corda e termina il tira e molla. Non si risponde alla vocazione in base alle proprie capacità, lo abbiamo già detto, ma solamente in virtù della consapevolezza di potersi e volersi “fare capacità” per Dio e la sua volontà. È in questo alveo accogliente che attecchisce e prende forma l’identità vocazionale che Dio solo - e non l’uomo - porterà a compimento. Il momento della decisione e della risposta è una vera e propria agonia, una lotta corpo a corpo: nella notte, infatti, Dio e Mosè si affronteranno fino al sangue, fino all’Alleanza (cfr. 4,24-26). “Tale agguato […] significa la serietà della posta in gioco; si tratta di una notte oscura in cui Dio vuole fare totalmente suo l’inviato, prospettandogli un’avventura umanamente ingestibile e di completa debolezza, dove risalta la forza divina e nessun altro appoggio umano; il cimentarsi con Dio è cementarsi in Lui” (A. Nepi - «Mosè»,  in Dizionario Biblico della vocazione - Roma, 2007).

Nell’accogliere la sua vocazione, Mosè sperimenterà la potenza e la fedeltà di Dio. Una volta detto SI tutto andrà per il verso giusto e splenderà sempre il sole? Certo che no! Quella della vocazione non è la favola della buonanotte che annuncia un sonno tranquillo. È più un romanzo d’avventura, adatto a “bambini ormai cresciuti”. Le difficoltà, i dubbi, le incertezze non spariscono con un colpo di spugna, ma accompagnano fianco a fianco il cammino vocazionale e lo mettono alla prova per rafforzarlo. Solamente un piccolo particolare: Colui che ci ha chiamati per questa avventura non ci lascia mai soli, ci tiene per mano e ci guida. E come successe al popolo d’Israele, anche noi ci sentiremo dire: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a me (19,4). “L’ultima espressione suona letteralmente: «e vi ho fatti entrare in me»: è questa comunione intima e profonda con Dio la meta dell’esodo; non si tratta di una meta impossibile, perché nonostante i momenti di contestazione (cfr. 14,11; 16,32) è Dio stesso che porta sulle proprie ali di aquila il suo popolo!” (M. Priotto).

Il segreto? Buttarsi sapendo di essere accolti dalle ali di Dio che ci sostengono e ci portano in alto. Facile a dirsi, un po’ meno a farsi: se no che avventura sarebbe?

 

Anno XVI - 2012 n°2


 

Al passo degli uomini

- ottava parte -

 

Già il titolo è un programma. Questa volta infatti ci soffermeremo ad analizzare un aspetto molto importante della chiamata: la prossimità, fisica e insieme spirituale, di Dio al chiamato. Nel grande viaggio della vocazione, scandito da precise tappe (preparazione del “terreno”; chiamata; riconoscimento e accoglienza della stessa; incarnazione e fedeltà alla chiamata), Dio si fa realmente vicino al suo interlocutore, anche con la presenza fisica tangibile di uomini e donne di Dio che accompagnano il discernimento e la missione.

In tutto questo ci è di aiuto la figura biblica di Tobia e del suo “angelo custode-guida” Raffaele-Azaria.

La storia è ambientata a Ninive, grande capitale dell’Assiria a nord della Mesopotamia, luogo di deportazione e di esilio degli israeliti tra l’VIII e il VII sec. a.C. Il libro di Tobia si apre con la figura di Tobi, ebreo osservante della legge, fedele all’alleanza e alle prescrizioni dei padri anche in terra d’esilio, laddove sono vietate tutte le pratiche religiose care al popolo d’Israele. Egli è pronto a sfidare qualsiasi legge pagana che gli proibisce il culto e le pratiche di pietà e, per questo, dovrà subire numerosi disagi. Come se non bastasse, si ritrova disgraziatamente cieco e quasi povero. Esasperato dalla sua situazione estrema, finisce col trattare molto male la moglie che gli fa notare l’incongruenza tra la sua ossessionante fedeltà al Signore e l’amara ricompensa che ne ha ricevuto. Stanco e disperato, invoca la morte liberatrice.

Contemporaneamente entra in scena Sara, una giovane e sfortunata donna che ha visto morire i suoi sette mariti proprio nella prima notte di nozze, colpiti da un maleficio del demonio Asmodeo, il cui nome significa appunto “colui che fa perire”, il distruttore dell’amore coniugale. Anche Sara, disperata per questa sua situazione, piange e prega il Signore di farla morire e liberarla così da una vergogna insopportabile.

Una duplice preghiera, quella di Tobia e quella di Sara, accorata e rispettosa. L’autore sacro così commenta: in quel medesimo momento la preghiera di ambedue fu accolta davanti alla gloria di Dio e fu mandato Raffaele a guarire tutti e due (Tb 3,16-17).

A questo punto entriamo nel vivo della nostra storia: Tobi si ricorda di aver depositato una grossa somma di denaro presso un suo parente in un paese lontano e, dopo un lungo sapiente discorso, incoraggia il figlio Tobia (ecco il nostro protagonista) a mettersi in viaggio per andare a recuperare il patrimonio di famiglia, non senza l’aiuto di un giovane fidato, esperto del tragitto da percorrere. È a dir poco divertente leggere il capitolo 5 di questo libro, dove Dio fa letteralmente e all’improvviso “piovere dal cielo” la guida giusta per il giovane Tobia: si tratta dell’angelo Raffaele (ecco il nostro secondo protagonista). Questo importante particolare però è noto soltanto al lettore, mentre i personaggi della storia pensano si tratti di Azaria, un loro parente (una fondamentale garanzia per poter intraprendere il viaggio lungo e rischioso!). Si tratta di un viaggio alla ricerca di un tesoro e di quello che poi si rivelerà essere il senso della vita di Tobia, cioè il matrimonio con Sara, sua parente, finalmente liberata dal maleficio di Asmodeo.

Tobia è l’icona di ogni giovane che, al momento giusto, parte alla ricerca del suo tesoro, cioè del senso della sua vita e per esso è disposto ad affrontare qualsiasi rischio, superandolo grazie ai sapienti consigli di chi ha già percorso quella stessa strada prima di lui e, proprio per questo, la conosce bene e sa riconoscere le insidie che possono nascondersi dietro l’angolo.

Raffaele-Azaria è l’icona dell’accompagnatore vocazionale, colui che si fa strumento di Dio nel difficile, e quanto mai delicato, percorso del discernimento della vocazione, che è poi il senso per cui ogni vita è tale. Egli è colui che permette a Dio di camminare al passo degli uomini, di affiancarsi a loro, rispettandone la storia personale e i tempi di maturazione.

Tobia sa che da solo non riuscirebbe a portare a termine il suo viaggio, per questo si fida e si affida ad Azaria che, nel suo nome, racchiude una verità fondamentale: “Dio aiuta”. In ogni vicenda vocazionale, quella di ciascun uomo o donna sulla faccia della terra, Dio si rende visibile come presenza che aiuta attraverso persone o eventi che, magari, all’apparenza non si direbbero tali o forse tutt’altro che aiuti. Ma Dio c’è come presenza misteriosa e reale, anche se non immediatamente riconoscibile.

Il libro di Tobia ci narra la storia di personaggi quanto mai umani, “normali”: persone che si sforzano di vivere giorno per giorno la loro fedeltà al progetto di Dio. Un progetto certamente misterioso e insondabile nella sua profondità, ma pur sempre sacramento di una fedeltà ancora più grande della loro: quella di Dio all’uomo.

 

Quello che la vicenda di Tobia ci insegna è “accettare di porsi in cammino verso una meta ignota, scoprendo solo nel momento in cui si accetta di mettersi in cammino che Dio ci accompagna passo dopo passo” (L. Mazzinghi). Le difficoltà nel cammino sono inevitabili, si sa, ma se si è decisi a seguire e perseguire il progetto di Dio, allora si sperimenta davvero il suo aiuto e la sua vicinanza, perché la sua volontà d’amore è molto più grande di mille difficoltà perché è pensata da sempre e per sempre. Per non dire poi che, in tutto questo, c’è anche il fidarsi e l’affidarsi di Dio all’uomo: egli si è volutamente legato alla libertà dell’uomo e sa che dovrà vedere realizzato il suo progetto al ritmo dell’esistenza umana, piena di perplessità e ripensamenti, come anche di slanci generosi e audaci. Egli sa che non può fare altro che star lì, accanto all’uomo, sotto le sembianza di un “angelo custode” che lo guida e lo consiglia ma, fondamentalmente, lo lascia libero di decidere della propria vita, libero anche di non voler partire alla ricerca del tesoro che potrebbe renderlo davvero felice. In ultimo, alle soglie del passo decisivo, egli è pronto a lasciarlo, a rimanere dietro perché sia lui, da solo, a compiere il salto. Proprio come Mosè che morì alle porte della Terra Promessa, lasciando che il popolo finalmente vi entrasse libero. Il suo compito era terminato e ormai poteva e doveva lasciare il palcoscenico della vita ai soli e veri protagonisti: l’uomo e Dio uniti nel reciproco SI.

L’accompagnatore sa che il suo ruolo è temporaneo e subordinato a Dio. Al termine della sua missione, nel farsi finalmente riconoscere dai suoi nuovi amici, Raffaele dice loro: Benedite Dio per tutti i secoli. Quando ero con voi, io stavo con voi non per bontà mia, ma per la volontà di Dio: lui dovete benedire sempre, a lui cantate inni (13,17-18).

Senza l’aiuto e i consigli di Raffaele-Azaria, Tobia si sarebbe certamente smarrito lungo il cammino, forse non lo avrebbe mai iniziato o forse non lo avrebbe portato a termine, atterrito dalle mille difficoltà che gli si erano messe in mezzo. Ma la figura dell’accompagnatore vocazionale è garanzia e sicurezza lungo il percorso accidentato e incarna in sé le meravigliose parole del profeta Isaia: Anche se il Signore ti darà il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione, non si terrà più nascosto il tuo maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te: «Questa è la strada, percorretela», caso mai andiate a destra o a sinistra (30, 20-21).

Ecco: l’accompagnatore sta a fianco ma sempre un passo indietro perché, leggendo gli eventi della vita, possa sussurrare all’orecchio la direzione giusta e possa infondere coraggio, cioè la capacità di agire-con-il-cuore nel momento più opportuno e decisivo.

L’accompagnatore è garanzia che non occorre avere tutte le carte a posto prima di intraprendere il viaggio. L’importante è avere chiara la meta, che è la ricerca del senso della propria vita. Il resto, gli strumenti necessari si troveranno disseminati lungo il cammino.

L’accompagnatore è colui che, incaricato da Dio di tale compito, sa quali sono i passi giusti da fare: «Farò il viaggio con lui. Non temere: partiremo sani, e sani ritorneremo da te, perché la strada è sicura» (5,17). Egli è l’angelo buono che accompagna affinché il viaggio vada bene (cfr. 5,22).

 

Infine, come conclusione, mi piace qui riportare un passaggio del sapiente discorso che Tobi fa al figlio Tobia prima di farlo partire: «… Chiedi consiglio a ogni persona che sia saggia e non disprezzare nessun buon consiglio. In ogni circostanza benedici il Signore Dio e domanda che ti sia guida nelle tue vie e che i tuoi sentieri e i tuoi desideri giungano a buon fine» (4,18-19).

La storia di Tobia ci insegna che Dio si fa compagnia presente nella vita del chiamato, interpellandolo attraverso la quotidianità degli eventi, decifrabili grazie all’aiuto illuminato di un “angelo custode” che lui ci fa incontrare sul nostro cammino. È suo dono perché si faccia suo interprete per guidare su quella strada sicura che porta alla scoperta del tesoro della vita: il senso della propria esistenza.

 

 

Anno XVII - 2012 n°1  


 

Sulla via di Damasco

- nona parte -

 

Succede come a un bambino che costruisce un castello di sabbia in riva al mare: un’onda avanza e, d’un colpo, distrugge il suo capolavoro. Nella vita arriva un momento in cui il castello-fortezza delle nostre sicurezze, quello che ci siamo costruiti con cura nei minimi particolari, non si sa come comincia a sgretolarsi o, a volte anche peggio, sopraggiunge improvviso un “terremoto” che lo sconquassa facendolo inesorabilmente collassare.

 

È quanto è accaduto a san Paolo, l’allora Saulo, sulla via di Damasco. Gli Atti degli Apostoli ci narrano l’episodio per ben tre volte (capitoli 9, 22 e 26), tanto è stato significativo e determinante non soltanto nella sua stessa vita, ma anche in quella di tutta la Chiesa. La veemenza con cui l’Apostolo delle Genti lo ha vissuto è paragonabile ad una violenta caduta da cavallo, ed è per questo che l’immaginario collettivo ha influenzato in tal senso la fantasia degli artisti. In realtà, sulla via di Damasco, Paolo stava “cavalcando” tronfio le sicurezze che gli venivano dall’ osservanza scrupolosa della Legge dei padri (At 22,3); sicurezze sulle quali aveva costruito e giocato la sua vita di rigido e zelante fariseo, integerrimo ed intransigente, accanito persecutore di tutto ciò che osava intaccare la superiorità e la sacralità della religione ebraica. Eppure da quelle sicurezze acquisite il Signore lo scaraventò brutalmente a terra e da quel momento Paolo non fu più lo stesso di prima.

 Il racconto che ne fa Luca negli Atti degli Apostoli è molto forte e carico di significato teologico. Sulla via di Damasco troviamo un Paolo che perseguita a morte la Via di Gesù Cristo (cfr. 22,4), la sua dottrina e i suoi seguaci. Egli è là, convinto di fare una cosa giusta e gradita a quel Dio al quale si è interamente votato. Non sa invece che quel giorno scoprirà un volto di Dio che ancora non conosceva, quello vero: il volto del suo Figlio Gesù Cristo. Un incontro che lo porterà alla resa dei conti! Paolo è il paradigma del chiamato. In quel momento delicato e particolarissimo della sua storia, nel quale si trova faccia a faccia con un Dio che interpella la parte più profonda e più vera dell’uomo, egli sa che deve imparare a riconoscerne la voce, perché essa assume ora un timbro che esula da qualsiasi categoria umana. È la voce “personale” di Dio, il Signore Gesù, Parola che si rivela e rivela l’uomo a se stesso.

Sia nel racconto del capitolo 22 che in quello del capitolo 26 c’è un’annotazione temporale pregna di significato teologico: Paolo è “raggiunto” da Gesù verso mezzogiorno (22,6; 26,13). Il mezzogiorno sta ad indicare il pieno giorno, ovvero la “pienezza del tempo”, quando tutto dell’uomo è pronto per ricevere la “visita” di Dio nella propria storia di salvezza. Il Paolo persecutore è pronto per essere chiamato a diventare l’Apostolo delle Genti. Proprio su quella Via che perseguitava a morte (cfr. 22,4), d’ora in poi, muoverà i suoi passi di uomo nuovo… fino alla morte, sulle orme di Colui che ormai era diventato la sua vita.

L’incontro con Gesù sulla via di Damasco rende Paolo cieco, o meglio, palesa la realtà della sua vita, così come era stata fino a quel momento: un’esistenza trascorsa nella cecità, incapace di riconoscere la verità di Dio, eppure orgogliosamente illusa di esserne la legittima detentrice. Viene alla mente il rimprovero di Gesù ai farisei: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41). Così è per ciascun cristiano: nell’incontro con Dio si scopre cieco e sa di doverne seguire la voce procedendo a tentoni. Ma, come ha fatto per Paolo, Dio non ci lascia soli a noi stessi, a brancolare nel buio, ci dà compagni di viaggio che ci guidano per mano e padri nella fede che ci aiutano a guarire dalla cecità (cfr. 9,8.12.17-18).

Tenebre-luce, cadere-alzarsi: sono parole chiavi dell’esperienza del vero incontro con Dio e della conseguente conversione. È significativo, infatti, che Paolo rimase cieco per tre giorni, provando sulla sua stessa pelle la cruda esperienza della “morte” in vista della rinascita a nuova vita. Lo stesso vale per l’invito perentorio ad alzarsi, sia in seguito alla caduta sulla via di Damasco, sia nell’atto di recuperare la vista e ricevere il battesimo. Paolo può davvero offrire se stesso come modello quando, nelle sue lettere, invita a far morire l’uomo vecchio e a rivestirsi del nuovo, anzi, a rivestirsi di Cristo Gesù. Paolo, con la sua sfrenata persecuzione del cristianesimo, è anche simbolo di chi si contrappone a viso aperto alla Verità che gli si vuole rivelare. La Voce, dal cielo, lo redarguirà: è duro per te rivoltarti contro il pungolo (26,14), ed egli dovrà arrendersi all’“avversario” che gli ha sbarrato la strada.

È illusorio infatti avanzare pretesti e resistenze all’Amore che chiama: l’uomo rischia di sfinirsi in una titanica lotta contro se stesso, perché quell’Amore che lo chiama non fa altro che rivelargli il suo vero volto e la sua piena identità di uomo profondamente realizzato nell’essere ad Esso somigliante, particella di una totalità che gli dà compimento.

 

“Sulla via di Damasco” è l’itinerario obbligato per il cristiano che voglia fare un incontro esistenziale e personale con Dio, scevro da categorie fai-da-te che ne obnubilano una reale conoscenza. “Sulla via di Damasco” bisogna accettare di scoprirsi ciechi e di cadere a terra dagli alti piedistalli di un’orgogliosa supponenza che umilia la dignità dell’uomo creato ad immagine di Dio. “Sulla via di Damasco” dobbiamo chiedere: Chi sei, o Signore? (9,5) per scoprirci uomini nuovi, interlocutori e partners di un Dio che, proprio su quella via, ci aspetta e ci raggiunge.

 

 

Anno XVIII - 2013 n°1  

 

 
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