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Vocazione |
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di suor Maria Agostina |
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Perché ama, chiama
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Ho scritto "T'amo" sulla roccia (1)
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Ho scritto "T'amo" sulla roccia (2)
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Ho scritto "T'amo" sulla roccia (3)
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Ho scritto "T'amo" sulla roccia (4)
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Ho scritto "T'amo" sulla roccia (5)
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Un chiamato che chiama
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Manda chi vuoi mandare!
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Al passo degli uomini
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Sulla via di Damasco
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Perchè ama, chiama
- prima parte
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Tutta la Bibbia è una lunga ed
eterna storia d’amore. Storia di un Dio che, proprio perché
ama, chiama.
Con questa nuova rubrica
intendiamo soffermare lo sguardo e la riflessione su quelle
pagine - e sono davvero tante - che ci presentano la dinamica
vocazionale dell’amore di Dio.
Nella lingua italiana - ed anche
in quella latina - il verbo chiamare racchiude in sé
quello di amare: Dio chiama chi-ama.
Da Genesi ad Apocalisse, l’amore
di Dio chiama all’esistenza, chiama all’Alleanza, chiama ad una
missione, chiama ad una sequela, chiama ad una testimonianza e
all’annuncio, chiama ad un’attesa vigile del suo ritorno: dalla
prima all’ultima pagina, dunque, la Bibbia ci descrive storie di
chiamate da parte di un Dio che è Amore.
In questo nuovo percorso insieme
incontreremo personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento che,
in un determinato momento della loro vita, sono stati raggiunti
dalla Parola di Dio, una Parola che è stata amore che chiama,
appello ad una relazione particolare con Colui che è la fonte e
il senso della vita. Vedremo le diverse realtà esistenziali di
questi personaggi, i luoghi
policromi dell’intervento di Dio; le differenti reazioni ad una
proposta che cambia necessariamente la vita. Ci lasceremo
interpellare dalla loro testimonianza e impareremo a guardarci
dentro e a fare silenzio: chissà che Dio non stia chiamando
anche noi.
Anche le stelle hanno un nome
La prima grande vocazione narrata
dalla Bibbia è la chiamata all’esistenza. È proprio su questa
che si fonda la successiva “vocazione di vita”. Dapprima quindi
la vocazione alla vita, poi la vocazione di vita,
cioè il senso del proprio essere
nel mondo. Non possiamo, infatti, illuderci di sapere qual è la
ragione per cui viviamo, se prima non riconosciamo che la vita è
un valore in sé, perché voluta da Dio.
Vocazione è: l’amore di Dio che mi
ha chiamato dal nulla, desiderando la mia esistenza e offrendomi
la felicità nella piena realizzazione della mia persona, secondo
un progetto di amore e di salvezza che è la comunione profonda e
intima con lui.
Insomma, è quel particolare
rapporto d’amore che Dio vuole instaurare con me (a prescindere
da quello che poi sarà il mio stato di vita), rapporto che sarà
la mia felicità e attorno al quale ruoterà e acquisterà senso
ogni mio respiro, ogni mio agire e sentire, ogni più intima
fibra del mio essere.
È questo Amore che mi chiama e, un
bel giorno, mi fa aprire gli occhi alla luce del mondo.
Tutto perciò ebbe inizio con la
creazione quando, “in principio”, la voce di Dio infranse il
silenzio e diede forma al nulla. È la sua parola, generata
dall’amore, che dà il via alla vita.
È la prima esperienza vocazionale
e, insieme a tutte le altre, è frutto della Trinità: il Padre,
nel suo immenso amore (Spirito Santo), chiama (il Figlio, il
Verbo di Dio) all’esistenza e alla felicità.
Il racconto della creazione, che
apre il libro della Genesi, celebra tutto questo in una liturgia
solenne.
La narrazione è
scandita dal susseguirsi delle giornate fino al
compimento della settimana, ma in realtà ciò che segna il passo
è il ripetersi cadenzato del comando divino e dell’avvenuta
attuazione: Dio disse… Dio chiamò… E così avvenne (Gen
1). Parola ed azione, in Dio, sono una sola realtà, la sua
parola è in sé creazione di quanto significa.
Ogni cosa viene all’esistenza
perché chiamata per nome da Dio, e
a questo appello risponde prontamente. Il profeta Baruc
lo esprime in modo suggestivo: Dio manda la luce ed essa
corre, l’ha chiamata, ed essa gli ha obbedito con tremore. Le
stelle hanno brillato nei loro posti di guardia e hanno gioito;
egli le ha chiamate ed hanno risposto: «Eccoci!», e hanno
brillato di gioia per colui che le ha create (3,33-35).
Bella questa personificazione delle creature: anche le stelle
hanno un nome, una vocazione, al cui richiamo brillano di
gioia.
Nell’ambito della vocazione la
parola di Dio gioca un ruolo fondamentale con la sua duplice
caratteristica: essa è dinamica, cioè realizza quanto annuncia
(vedi sopra); ma è anche
dialogica, cioè è un appello che esige una risposta e racchiude
in sé una specifica missione. Il citato brano di Baruc ci mostra
tutto questo: Dio chiama le stelle ed esse incominciano ad
esistere e, rispondendo all’appello divino, realizzano la loro
vocazione-missione che è quella di lodarlo brillando di gioia
per lui.
Il libro della Sapienza poi si
spinge ancora più avanti, fino a specificare che è l’amore di
Dio ad aver dato vita alla creazione: tu ami tutte le cose
che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai
creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure
formata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non l’avessi
voluta? Potrebbe conservarsi ciò che da te non fu chiamato
all’esistenza? (11,24-25).
C’è ancora un’altra espressione
biblica che mi colpisce in modo particolare. È lapidaria nella
sua sinteticità, ma la ritengo molto efficace e pregna di
valore: Egli conta il numero delle stelle e chiama ciascuna
per nome (Sal 146,4). Mi si spalancano davanti due immagini
significative. Nella prima vedo
lo scenario di una meravigliosa notte orientale quando
Dio giura ad Abramo: Guarda in cielo e conta le
stelle, se riesci a contarle… Tale sarà la tua discendenza (Gen
15,5). Abramo non riuscirà mai a contare
quelle stelle che, ancora oggi, brillano alla sola voce
di Dio che le chiama dai loro seggi, perché siano luce nella
notte che avvolge l’umanità. Nella
seconda immagine, posteriore di
circa duemila anni, Qualcuno riuscirà finalmente a
contare le stelle discendenza di Abramo: il pastore chiama le
sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori… e le pecore
lo seguono perché conoscono la sua voce (Gv 10,3-4).
Ciascuno di noi è una di quelle
stelle ed ha il suo posto preciso nel firmamento dell’amore di
Dio. Da quel posto, il proprio, ognuna dovrà brillare per dare
pienamente valore alla sua esistenza. Ogni stella poi ha il suo
nome ed è soltanto con quello che potrà riconoscersi ogni volta
che sarà chiamata da Dio ad illuminare la notte.
È questa la vocazione: esistere
con un nome ed un posto unici, imparare a riconoscersi e a
vivere nella gioia di essi.
Quest’articolo vuole
essere una sorta di introduzione al grande tema della
vocazione nella Parola di Dio e frutto della
Parola di Dio.
È di fondamentale importanza però
avere chiaro che la vocazione nasce con l’uomo, se non prima,
quando cioè l’amore di Dio, chiamandolo per nome e rivolgendogli
la sua parola, lo ha fatto esistere, racchiudendo in quel nome
tutta la sua felicità.
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Settembre / Ottobre 2009 - Anno XIII - n° 3
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Ho scritto
"T'amO"
Sulla roccia (1)
- seconda parte -
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Vocazione.
È
la parola che dovresti amare di più.
Perché è il segno di quanto sei importante
agli occhi di Dio.
È
l’indice di gradimento, presso di lui,
della tua fragile vita.
Sì, perché, se ti chiama,
vuol dire che ti ama.
Gli stai a cuore, non c’è dubbio…
(Don
Tonino Bello, 6 maggio 1990)
Mesi
fa mi è ri-capitato tra le mani questo testo di don Tonino Bello
(ne ho riportato soltanto la parte iniziale) e subito, oltre
naturalmente a farne oggetto di riflessione personale, ho avuto
l’idea (ispirazione?) di servirmene per questa rubrica. Don
Tonino non me ne voglia, ma anzi mi sorrida benevolmente dal
cielo, chiudendo un occhio sui diritti d’autore.
Nei
prossimi articoli, di volta in volta riporterò le altre parti
del testo e per ognuna proveremo ad accostare una storia biblica
di vocazione.
La
storia sacra è fatta di tante pagine, tante vicissitudini, tanti
personaggi, tante vocazioni: Abramo, Mosé, Geremia, Maria,
Pietro, Paolo… Tempi luoghi e missioni diverse. Tutti però hanno
un denominatore comune: l’appartenenza ad un popolo, Israele, il
popolo di Dio. È “lui” il primo “personaggio” sul quale
soffermeremo la nostra attenzione.
Nella
Bibbia, Israele è ora un figlio, ora un servo, ma soprattutto la
sposa del Signore, la sua amata.
Israele non è un popolo come tutti gli altri suoi vicini, anzi,
non è per niente un popolo. Al tempo della Bibbia, non ha una
storia millenaria alle spalle, alla quale riferirsi e della
quale potersi vantare. È vero, afferma di essere figlio di
Abramo, di Isacco e di Giacobbe, ma essi non hanno mai fatto
parte di un popolo, non sono stati re né condottieri. Il loro
regno? Chiazze di pascoli fertili. Le loro scuderie? Greggi di
pecore e di capre. Il loro esercito? Mandriani e servitori. Le
loro regge? Tende di nomadi. Ai patriarchi è stato promesso un
popolo, ma non loro ne sono stati i creatori.
Israele esiste solo perché Dio lo ha desiderato per sé: un
ammasso di gente nomade, senza nome né volto, chiamato ad
un’esperienza unica ed inimmaginabile.
Ezechiele riesce a farne una descrizione eccezionale: Così
dice il Signore Dio a Gerusalemme: tu sei, per origine e
nascita, del paese dei Cananei; tuo padre era un Amorreo e tua
madre un’Ittita. Alla tua nascita, quando fosti partorita…
occhio pietoso non si volse verso di te… e non ebbe compassione
nei tuoi confronti, ma come oggetto ripugnante, il giorno della
tua nascita, fosti gettata via in piena campagna… (Ez
16,3-4.5). Ma, continua, … passai vicino a te e ti vidi.
Ecco: la tua età era l’età dell’amore. Io stesi il lembo del mio
mantello su di te e coprii la tua nudità. Ti feci un giuramento
e strinsi alleanza con te - oracolo del Signore Dio - e
divenisti mia… Divenisti sempre più bella e giungesti fino ad
essere regina. La tua fama si diffuse fra le genti. La tua
bellezza era perfetta. Ti avevo reso uno splendore. Oracolo del
Signore Dio (Ez 16,8.13-14).
Mi
riesce difficile aggiungere qualcosa. Penso sia più giusto
meditare in profondità queste parole del Signore, sentirle
penetrare nel cuore e riconoscerle nostre. Quella donna è ognuno
di noi: sono io, sei tu, anche se non ci avevi mai pensato. La
“donna” - fra tante - amata da Dio, arricchita di ogni dono per
essere degna di un tale sposo. E di tutto questo né Israele, né
alcuno di noi può vantare alcun merito: l’amore di Dio - che è
vocazione - è assolutamente gratuito… e nessuno può farci
niente. Lui ama perché… non può farne a meno, altrimenti non
sarebbe più Dio.
Ho in
mente il Cantico dei Cantici: l’eterno corteggiamento fra Dio e
la sua amata. Un’amata che, agli occhi dello sposo, acquista una
bellezza da capogiro. Lui e lei si rincorrono continuamente: si
ritrovano per abbracciarsi e ancora si separano per cercarsi di
nuovo. Quasi come in un gioco di amanti, quasi come una danza di
corteggiamento che fa desiderare ancora di più il momento
dell’unione.
Anche
Isaia ha pagine meravigliose: Tu sei prezioso ai miei occhi,
perché sei degno di stima e io ti amo (Is 43,4)… Sarai
una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale
nella palma del tuo Dio. Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né
la tua terra sarà più detta Devastata, ma sarai chiamata Mia
Gioia e la tua terra Sposata, perché il Signore troverà in te la
sua delizia e la tua terra avrà uno sposo… come gioisce lo sposo
per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te (Is 62,3-5).
Quando ho letto quella prime parole di don Tonino Bello ho
immediatamente pensato a tutto questo: l’amore - di Dio e per
Dio - è la prima unica e grande vocazione dell’uomo, ciò per cui
è stato creato e voluto da Dio. Da questa poi si dipartono tante
ramificazioni: uniche e personali modalità di aderire e di
esplicitare questo amore che ci chiama a qualcosa di grande.
Sì, è
il segno di quanto siamo importanti agli occhi di Dio. Proprio
noi, scalcinati, è vero, impastati di terra, continuamente a
rischio di cadere e di frantumarci, ma pur sempre capolavori
usciti dalle mani di Dio. “Mani” che prima ci hanno pensato, ci
hanno amato e desiderato e che poi ci hanno dato forma.
Così
è Israele: inesistente fino al giorno in cui Dio ha voluto
essere il suo Dio. L’espressione tipica dell’Alleanza,
infatti, che attraversa tutte le pagine bibliche è proprio
questa: Io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo… Il
mio amato è mio e io sono sua. È grazie a questo giuramento
solenne che Israele prende forma e vita ed è chiamato ad
essere il “popolo di Jahvèh”. Lui solo può portare questo nome
impegnativo.
Sono
soprattutto i profeti - come già abbiamo visto - a cantare con
toni appassionati questa stupenda realtà: Perciò, ecco, io la
sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore… e
avverrà, in quel giorno - oracolo del Signore - mi chiamerai:
“Marito mio”… Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza,
ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore (Os
2,16.18.21-22).
Penso
sia opportuno fermarci qui: troppi “tuffi al cuore” potrebbero
farci rischiare un infarto.
Voglio concludere con un semplice augurio: davanti al mistero
grande di un Dio che si china sull’uomo per sussurrargli “sei
mio, tu mi appartieni”, credere con tutte le fibre del nostro
essere che… gli stai a cuore, non c’è dubbio.
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Febbraio / Marzo 2010 - Anno XIV - n° 1
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Ho scritto
"T'amO"
Sulla roccia (2)
- terza parte - |
…In una turba sterminata di gente
Risuona un nome: il tuo.
Stupore generale.
A
te, non aveva pensato nessuno.
Lui sì!...
(Don Tonino Bello, 6 maggio 1990)
Sembra proprio di assistere alla scena di un film: una piazza
affollatissima e, in mezzo a tanto brusìo, una voce supera tutte
le altre pronunciando un nome. Come un fulmine a ciel sereno, in
un istante è il silenzio più assoluto e tutti gli sguardi
convergono in un’unica direzione.
Una
persona, fino a quel momento anonima, si riconosce in quel nome…
E’ “unica” tra tante, oggetto e destinataria di un’attenzione e
di una predilezione a lei soltanto riservate.
Il
titolo del nostro film potrebbe essere: “L’amato mio”. Il
protagonista è Davide, il re d’Israele per eccellenza, il cui
nome porta in sé questa stupenda dichiarazione d’amore: Davide,
l’amato mio.
Ci
troviamo nel primo libro di Samuele, al capitolo sedicesimo.
Saul, primo re d’Israele, scelto da Dio e consacrato tale da
Samuele (una delle più importanti figure carismatiche del popolo
ebraico), pecca contro Dio non osservando i suoi comandi ed è da
lui respinto: il Signore sceglierà un altro al suo posto. A
Samuele spetta l’ “investitura” del nuovo re: Riempi d’olio
il tuo corno e parti… Samuele prese il corno dell’olio e lo unse
(1 Sam 16, 1.13).
Mettiamoci comodi sulla nostra poltrona. Spegniamo le luci:
inizia il film.
Samuele, nonostante l’afflizione per la triste sorte di Saul
decaduto dal favore di Dio, viene inviato a Betlemme da un certo
Iesse: uno dei suoi figli è il prescelto di Jahvèh, il nuovo re
d’Israele.
È
bene notare subito che tanto Betlemme quanto Iesse non
figuravano nelle liste delle città e dei capifamiglia più
importanti in quel momento, tutt’altro. Si trattava del più
piccolo “fra i villaggi di Giuda” (Mi 5,1) e di un uomo “vecchio
avanzato negli anni” (1 Sam 17,12). Niente di speciale insomma,
eppure avrebbero rappresentato l’inizio di qualcosa di grande e
i loro nomi - “in una turba sterminata di gente” - continuano a
risuonare ancora oggi di bocca in bocca, di generazione in
generazione.
Samuele prova a manifestare i suoi dubbi e i suoi timori dinanzi
all’ordine di Dio, ma viene rassicurato con il suggerimento di
un abile inganno. Il rischio di una vendetta da parte di Saul -
spodestato dal trono - è allontanato. Schivando ogni sospetto,
Samuele parte per fare un sacrificio al Signore. Ha con sé una
giovenca: è tutto regolare.
Il
comando divino è chiaro: Inviterai quindi Iesse al
sacrificio. Allora io ti farò conoscere quello che dovrai fare e
ungerai per me colui che io ti dirò (v. 3). È Dio che
prende l’iniziativa, è lui che guida la storia e sceglie per
sé chi vuole e secondo criteri tutti suoi e non nostri. Mi
viene in mente l’episodio evangelico della chiamata dei Dodici:
Marco (3,7-19) ci dice che Gesù aveva attorno a sé i suoi
discepoli e molta folla che lo seguiva da tutte le zone
circostanti e, addirittura, anche da alcuni territori pagani.
Ebbene: “in una turba sterminata di gente risuona un nome: il
tuo. Stupore generale. A te, non aveva pensato nessuno. Lui
sì!”. Gesù sale sul monte e chiama a sé quelli che vuole:
Simone, Andrea, Giacomo, Giovanni… Dodici nomi tra tanti. Dodici
persone chiamate una per una, volute e amate singolarmente e
personalmente. A loro non aveva mai pensato nessuno. Nessun
rabbi che si rispetti forse li avrebbe presi al suo seguito.
Certo, alcuni di loro erano conosciuti e per i più svariati
motivi: Simone, Andrea, Giacomo e Giovanni erano pescatori e
dunque noti al mercato del pesce. Qualcuno addirittura era anche
odiato o sicuramente mal visto dai suoi compaesani: Matteo Levi,
il pubblicano che stava al servizio del nemico occupante. Erano
conosciuti, è vero, ma nessuno avrebbe mai scommesso un soldo su
di loro. Nessuno avrebbe mai immaginato che questi “uomini
qualunque”, insieme al loro strano rabbi, sarebbero “passati
alla storia”.
È
stato così anche per il nostro Davide.
Samuele dunque agisce secondo il comando divino: Fece
santificare anche Iesse e i suoi figli e li invitò al sacrificio
(v. 5.
A
questo punto la scena pare volerci portare sotto il palcoscenico
di una sfilata di bellezza: Iesse fece passare davanti a
Samuele i suoi sette figli (v. 10). Un momento di
suspance: quale sarà il prescelto? Samuele sembra avere le
sue preferenze e non ha dubbi che anche Dio abbia “buttato gli
occhi” sul suo stesso beniamino: Quando furono entrati, egli
vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo
consacrato!» (v. 6). Eh sì, non ci sono dubbi. Questo ha
proprio tutte le carte in regola per essere il re d’Israele: è
il primogenito, ha una bella presenza, è alto e possente… è il
vanto di suo padre. Il Signore, si sa e non poteva essere
altrimenti, ha fatto un’ottima scelta.
Il
Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla
sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che
vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede
il cuore» (v. 7).
Povero il nostro Samuele e povero anche Eliàb! Ma non
disperiamo, ci sono ancora altri sei figli. Certo è che la
delusione deve essere stata grande. L’alta statura e la
prestanza fisica erano infatti caratteristiche proprie di Saul,
il primo re, che l’autore sacro si era premurato di sottolineare
bene: “prestante e bello: non c’era nessuno più bello di lui tra
gli Israeliti; superava dalla spalla in su chiunque altro del
popolo” (1 Sam 9,2). Era perciò più che logico ritenere che le
stesse qualità dovessero appartenere al nuovo re. Ma Dio ha
altri criteri di giudizio e il brano ce lo dimostra
magistralmente. Samuele pensava di saperla lunga dopo tanti anni
di servizio al Signore, ma ha ancora una lezione da imparare. Il
discrimine è dato dalla vista: ovvero, è una questione di “punti
di vista”. Dio ha occhi diversi dai nostri e non manca di
dimostrarcelo. All’inizio del nostro brano si dice letteralmente
“che Dio ha «visto» per se stesso un re tra i figli di Iesse (v.
1) e al v. 12 si dice di David che era una «buona visione»… Dio
non guarda «agli occhi», ma al cuore (v. 7)… Il suo sguardo
giunge là dove non arriva quello dell’uomo. Questi può solo
fermarsi all’esterno, al massimo «guardare negli occhi»… ma non
può arrivare al cuore… Esso rimane conoscibile solo da Dio”
(Gianluigi Corti).
E
così sfilano davanti agli occhi di Samuele e davanti agli occhi
di Dio tutti i sette figli di Iesse. Questa volta Samuele ha
capito e si mette in ascolto del giudizio di Dio: Il Signore
non ha scelto nessuno di questi (v. 10).
Per
un attimo forse Samuele si sarà sentito raggelare il sangue: ho
rischiato la mia vita per obbedire al comando di Dio. Uno dei
figli di Iesse avrebbe dovuto essere unto re d’Israele, ma il
Signore ha dato a tutti il suo giudizio negativo. Com’è
possibile? Cosa devo fare?
Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose
Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il
gregge» (v. 11). Ancora
un altro figlio, il più piccolo, e nessuno si era ricordato di
lui, neppure il padre. Troppo giovane per essere “preso sul
serio”. Letteralmente, le parole di Iesse suonerebbero così:
“avanza” ancora il più piccolo. Egli è semplicemente un avanzo.
Curiosamente egli è l’ottavo di sette figli. Sette è il
numero della perfezione. Sette figli maschi è il massimo che un
uomo possa desiderare… ma c’è un ottavo figlio e sarà proprio
lui a dare pienezza e fama alla paternità di Iesse (G. Corti).
Ormai
è tutto chiaro: Dio non finisce di sorprendere. L’ultimo, quello
che nessuno ha mai tenuto in considerazione se non per custodire
il gregge e poco più, è il suo prescelto e diventa perciò il più
grande.
Samuele lo manda a chiamare.
Disse il Signore: «Alzati e ungilo: è lui! ». Samuele prese il
corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli
(v. 12-13). Soltanto adesso, quando egli si trova in mezzo ai
suoi fratelli (ovvero “in una turba sterminata di gente”),
risuona e finalmente conosciamo il suo nome: Davide, l’amato
mio. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto (v.
12). Il Signore, soltanto lui, vede il cuore. Noi invece non
possiamo che ammirare la bellezza del consacrato di Dio: il suo
prescelto è sempre, e al di là di tutto, una «buona visione».
Non si tratta della classica “bellezza da Miss”. Lo sguardo di
Dio che si posa su di lui, nonostante la sua piccolezza e
insignificanza agli occhi degli uomini, è garanzia di una
bellezza che supera i canoni dell’esteriorità e trova la sua
sorgente in quell’immagine di Cristo custodita nel cuore.
Contemplandola ammirato, Dio non può che compiacersene e
sceglierla per sé.
“Qualità morali e caratteristiche psicologiche, potenzialità e
limiti dell’essere umano, di cui il cuore è forziere, sono note
a Dio soltanto ed egli sceglie non solo per merito di esse, ma
anche malgrado esse” (G. Corti).
Davide non appariva certo un possibile aspirante al trono: era
ancora un ragazzino e non possedeva una benché minima prestanza
fisica (ce lo rivelerà l’episodio della lotta contro Golia - 1
Sam 17), a differenza dei suoi fratelli maggiori. Questo è
talmente vero che, invitati al sacrificio, il padre nemmeno
prende in considerazione l’idea di farlo partecipare: rimanga
pure a pascolare il gregge, mentre noi ci occupiamo di cose più
importanti. Eppure il Signore, anche se da lontano, lo aveva
«visto bene» e aveva deciso di farne il suo prediletto, il suo
amato (non sono forse queste le stesse espressioni che
risuoneranno dal cielo in occasione del battesimo e della
trasfigurazione di Gesù?).
È
proprio il caso di affermare insieme a Paolo: “quello che è
stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti;
quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per
confondere i forti; quello che è ignobile e disprezzato per il
mondo, quello che è nulla, Dio lo ha scelto per ridurre a nulla
le cose che sono, perché nessuno possa vantarsi di fronte a Dio”
(1 Cor 1,27-29).
Essere scelti da Dio “in una turba sterminata di gente” non è
assolutamente questione di meriti o di medaglie al valore. Dio
non va in cerca di chi è alla ribalta, ma piuttosto di chi se ne
sta buono dietro le quinte a fare il garzone e a preoccuparsi
che lo spettacolo abbia successo e che gli attori protagonisti -
i divi - abbiano i loro meritati applausi.
“A
te, non aveva pensato nessuno. Lui sì!”. Due occhi si posano su
di te, che pensavi di aver vissuto nell’anonimato e perciò di
passare inosservato e invece… “tu sei prezioso ai miei occhi,
perché sei degno di stima e io ti amo” (Is 43,4).
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Maggio / Giugno 2010 - Anno XIV - n° 2
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Ho scritto
"T'amO"
Sulla roccia (3)
- quarta parte -
|
... Più che “vocazione”,
sembra
una “evocazione”.
Evocazione dal nulla.
Puoi dire a tutti: si è
ricordato di me!
E davanti ai microfoni della
storia
(a te sembra solo nel segreto
del cuore)
Ti affida un compito
che solo tu
puoi svolgere.
Tu e non altri.
Un compito su misura… per lui.
Sì, per lui, non per te.
Più che una missione,
sembra una
scommessa.
Una scommessa sulla tua povertà…
(Don
Tonino Bello, 6 maggio 1990)
Questa volta tocca ad Abramo: e non
poteva essere diversamente. Le tre grandi religioni monoteiste
(Cristianesimo - Ebraismo - Islamismo) fanno risalire le proprie
origini a questa grande figura e, a ragione, lo definiscono
“Padre nella fede”.
Quando la Bibbia introduce la
vicenda di Abramo, in realtà ne ha già presentate diverse altre
ed ha fatto sfilare davanti ai nostri occhi lunghe (e forse
anche un po’ noiose!) liste di nomi, che a dir poco ci fanno
strabuzzare gli occhi ed ingarbugliare la lingua nel cimentarsi
a pronunciarli.
Nonostante tutto, però, quel
dodicesimo capitolo del libro della Genesi ha un fascino
particolare e non riesce a passare inosservato. Possiamo proprio
dire che ha segnato la storia dell’umanità, della fede di buona
parte degli abitanti della terra. È un po’ la nostra storia,
anche se comincia in un giorno indeterminato e lontanissimo nel
tempo.
Con Abramo Dio scrive una nuova
pagina del suo capolavoro ed opera una nuova creazione. Infatti:
Il Signore disse ad Abram… Allora Abram partì, come gli aveva
ordinato il Signore (Gen 12,1.4). Sembra proprio di
risentire quelle prime parole dell’“In principio… Dio disse… E
così avvenne” (Gen 1,1.6.7). Al momento della creazione, per ben
dieci volte Dio ha parlato chiamando all’esistenza il giorno, la
notte, la terra, l’acqua, gli astri, le piante, gli animali ed
infine l’uomo. Nella storia di Abramo, dalla sua chiamata (Gen
12) al rituale dell’Alleanza (Gen 15), ancora per dieci volte
Dio rivolge la sua parola all’uomo che per sempre sarà definito
“l’amico” (di Dio, naturalmente). “Dieci Parole” (= il Decalogo
- cfr. Es 20 e Dt 5) che ritroveremo ancora sul monte Sinai,
quando i figli di Abramo diventeranno il popolo di Dio, la sua
proprietà fra tutti i popoli.
Quando il Signore lo chiama, Abramo
ha appena fatto capolino tra le pagine sacre e non ha
assolutamente nulla di speciale né tantomeno di promettente: è
un pastore nomade (non ha quindi una fissa dimora) della
Mesopotamia (territorio pagano e ben lontano dalla futura terra
d’Israele), sposato con una donna sterile (il che equivale ad
una sorta di maledizione) ed entrambi ormai avanti negli anni
(destinati cioè a “scomparire nel nulla”, senza una posterità e
senza una loro storia, fino a quel momento). Davvero una
“evocazione dal nulla”, come scrive don Tonino Bello. Ma forse
che Dio non ha già saputo operare “in principio” una creazione
“ex nihilo”? E che creazione! “La storia di Abramo incomincia
con una parola di Dio, per sua iniziativa. Anche la creazione è
incominciata allo stesso modo. E con la creazione anche Abram
esce improvvisamente dall’ombra e dall’anonimato, comparendo in
piena luce. È un uomo qualsiasi, sconosciuto, uno dei tanti, ma
la parola di Dio lo trae dall’ombra e lo fa essere” (G. De
Virgilio). Bello: prima di allora, cioè prima di essere chiamato
per nome da Dio, Abramo non era. Abramo c’è perché Dio gli
rivolge la parola e così lo “crea”. Nessuno di noi esisterebbe
se Dio, un giorno (e ogni giorno!), non gli avesse rivolto la
sua parola di vita. “Puoi dire a tutti: si è ricordato di me!”.
Quando Abramo entra in scena, il
testo sacro ci dice che egli ha settantacinque anni. Ma fino a
quel momento non si è mai parlato di lui: 75 anni di vita che a
noi sono sconosciuti, eccettuate quelle pochissime notizie che
abbiamo già ricordato e che non hanno in sé alcunché di
eccezionale o straordinario. Eppure quest’uomo, un giorno,
diventa protagonista di un evento che cambierà per sempre la sua
vita… e - possiamo dirlo - anche la nostra.
Era un giorno come tanti altri
erano già trascorsi: i greggi al pascolo, i servitori sempre
pronti ad ogni suo cenno, le donne affaccendate all’interno
delle tende, i bambini che giocano e schiamazzano… Ci sono tutti
i bambini tranne il suo, del quale non ha mai visto il volto né
udito la voce. Morirà con questa grande pena nel cuore e nessuno
riuscirà a lenire la ferita che gli brucia dentro. Quel giorno
però l’eco dell’immensa distesa della Mezzaluna fertile porta
una voce diversa dalle altre, una voce che Abramo non ha mai
udito prima. Una voce che
soltanto lui sente “nel segreto del cuore”, ma che in realtà - a
sua insaputa - risuona “davanti ai microfoni della storia”.
Quella voce - la voce di Dio - lo chiama a qualcosa di grande e
a dir poco impossibile per uno come lui. Lasciare la propria
terra e le proprie sicurezze per abbandonarsi all’incertezza di
una terra sconosciuta. E poi, come credere (nonostante una parte
di te lo voglia con tutto il suo cuore) all’assurdità della
promessa di una discendenza? È troppo per un uomo che porta in
sé, scolpiti tra le pieghe di una pelle scavata dagli anni, i
segni di una fine che lascia l’amaro in bocca perché chiusa a
qualsiasi, seppur minimo, accenno di speranza.
Nonostante le sue misere
credenziali, Dio chiama Abramo e gli affida un compito ben
preciso, per il quale egli - tra tutti - è proprio la persona
più adatta. “Un compito che solo tu puoi svolgere. Tu e non
altri”. Comincia la grande avventura: Allora Abram partì,
come gli aveva ordinato il Signore (Gen 12,4). Abramo - come
dice la lettera agli Ebrei (11,8) - “partì senza sapere dove
andava”. Inizialmente il suo viaggio sarà caratterizzato da
numerosi spostamenti di tappa in tappa e da continui
andirivieni. In ognuno di questi luoghi Abramo costruirà un
altare, quasi a significare che egli impara a conoscere il Dio
che lo ha chiamato camminando sulle vie che, di volta in volta,
gli sono indicate. Quando si incontra Dio non si può pensare di
piantare definitivamente la tenda (cfr. il viaggio nel deserto
del popolo d’Israele e l’episodio della Trasfigurazione), perché
Dio è sempre oltre ed è sempre Altro. La strada che porta a lui
è lunga quanto la vita di ogni uomo, ma è altrettanto breve
quanto la distanza che separa il nostro cuore dal suo.
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Gennaio / Marzo 2011 - Anno XV - n° 1
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Ho
scritto
"T'amO"
Sulla roccia (4)
- quinta parte -
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(Continuazione dell'articolo precedente)
… Intanto trascorrono dieci anni e nella vita di Abramo non
sembra essere cambiato niente, se non il fatto di aver lasciato
il padre e la terra e il ritrovarsi con qualche ruga e capello
bianco in più. Signore Dio… Io me ne vado senza figli… Ecco,
a me non hai dato discendenza (Gen 15,2.3). Quella promessa
che aveva dilatato il suo cuore, facendo sbocciare in lui una
viva speranza, era soltanto un bluff? Il caro mite ed obbediente
Abramo adesso alza la voce e chiede ragioni. “Tuttavia neppure
di fronte al dubbio e all’amarezza di Abram, Dio si affretta a
mantenere la promessa. Semplicemente la rinnova, invitando il
patriarca a «guardare» lontano, contando le stelle [cfr. Gen
15,1-6]… Per vincere il dubbio e continuare a credere, Abramo
deve uscire dal suo piccolo orizzonte («lo condusse fuori»),
deve cambiare direzione dello sguardo («guarda le stelle») e
deve non dimenticare che la potenza di Dio è grande («conta le
stelle, se riesci»)” (G. De Virgilio). Egli credette al
Signore, che glielo accreditò come giustizia (Gen 15, 6).
Abramo però ha ancora molta strada da fare: è vero, si è fidato
ciecamente di un Dio che lo chiamava a cose impossibili, ma
forse - proprio per questo - via via ha pensato bene di “dargli
una mano” per far sì che questa strepitosa promessa potesse
realizzarsi nel modo più rapido e semplice. Egli parte subito -
com’è detto - ma non senza portare con sé la sicurezza della
discendenza promessa, cioè il nipote Lot che, rimasto orfano,
avrebbe avuto tutto il diritto di diventare erede/figlio di
Abramo. Dopo la necessaria separazione dei due (le famiglie-clan
erano diventate troppo numerose per continuare a convivere
serenamente), Abramo è costretto a ripiegare su una nuova
“adozione”: il suo servo migliore e fidato. Ma ancora non ci
siamo. Le parole di Dio sono chiare: Non sarà costui il tuo
erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede (Gen 15, 4).
Allora, l’unica soluzione è quella di unirsi alla schiava della
moglie sterile ed avere un figlio da lei. Tutto è risolto. E
Dio disse: «No, Sara, tua moglie, ti partorirà un figlio…» (Gen
17, 19).
Abramo ha risposto prontamente alla chiamata di Dio ma, vista la
precarietà della sua vita e del futuro che gli si prospettava,
ha voluto programmare ogni cosa per evitare spiacevoli
imprevisti. Ma Dio sa bene quello che fa, quello che chiede e a
chi lo chiede. “Ti affida un compito che solo tu puoi svolgere.
Tu e non altri. Un compito su misura… per lui. Sì, per lui, non
per te. Più che una missione, sembra una scommessa. Una
scommessa sulla tua povertà”. Dio ha scommesso tutto sulla
povertà di Abramo, ha fatto la sua puntata più alta, ha giocato
d’azzardo ed ha riportato una vincita che non ha pari. Ha pagato
con il sangue di suo Figlio ed ha letteralmente sbancato,
lasciando tutti a bocca aperta, compreso lo stesso Abramo che
vide il giorno del Signore Gesù “e fu pieno di gioia” (Gv 8,56).
Il Signore non ha quasi mai delle buone carte in mano ma, non si
sa come, riesce sempre a giocarle nel miglior modo possibile.
Basta solo lasciarlo fare, starsene buoni tra le sue mani e
lasciare che butti giù ora questa ora quell’altra carta. La
vincita è assicurata. Ad essere in coppia con lui non ci si
rimette mai, anche quando sembra che il gioco si stia mettendo
male. Abramo più volte ha avuto il timore di finire in
“bancarotta”. Anche lui, in fin dei conti, aveva scommesso tutto
sulla parola-promessa di Dio ed ha quasi rischiato di ritrovarsi
con un pugno di mosche in mano. Sì, un figlio - suo e di Sara
sua moglie - lo ha avuto, ma sul più bello Dio gli ha chiesto di
sacrificarlo. Esperienza terribile: riaffondare nel nulla, dopo
avere sperimentato una felicità piena ed esaltante. «Eccomi»
(Gen 22,1.11). e Dio sbanca ancora una volta: «… io ti
colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua
discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul
lido del mare…» (Gen 22,17).
Dio ha davvero esagerato con Abramo, lo ha guidato per vie
impensabili, gli ha dato tutto ma gli ha anche chiesto tutto, ha
promesso e preteso l’impossibile ma gli ha anche dimostrato, di
volta in volta, che “non è impossibile la via, ma l’impossibile
è la via”.
Questa è la dinamica di ogni vocazione: lasciare che Dio
“esageri” con la persona che ha scelto, dargli carta bianca,
fargli abitare la propria vita per riempirla di sé, dar credito
alle sue promesse impossibili, sapere attendere i suoi tempi ed
accettare le sue vie (a volte poco “ortodosse”); dire
sempre “Eccomi” ed “alzarsi di buon mattino” per fare quello che
lui chiede, e - quando serve, perché no? - alzare un po’ la voce
e richiamarlo alle sue promesse disattese, certi però che è
quasi come un gioco tra innamorati, dove ci si diverte a
stuzzicare l’amore dell’altro.
Se ad Abramo è andata bene, forse ci sono buone speranze anche
per noi.
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Aprile / Maggio 2011 - Anno XV - n° 2
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Ho scritto
"T'amo"
sulla roccia (5)
- sesta parte -
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… Ha scritto “T’amo” sulla
roccia!
Sulla roccia, non sulla sabbia
come nelle vecchie canzoni.
E accanto ci ha messo il tuo
nome.
Forse l’ha sognato di notte.
Nella tua notte.
Alleluia!
Puoi dire a tutti:
non si è
vergognato di me!
(Don
Tonino Bello, 6 maggio 1990)
Con questo articolo concludiamo il
nostro percorso in compagnia di don Tonino Bello, ma non quello
insieme a tanti personaggi biblici che ci racconteranno le loro
storie di vocazione.
Le ultime parole del testo di don
Tonino mi pare che bene si possano adattare alla figura e alla
storia di Pietro. Egli è l’uomo-roccia, non estraneo però a continue
“scosse di assestamento” che gli garantiranno, alla fine, una
consistenza ed una solidità granitiche.
C’è una scena del film “S. Pietro”
di Bernabei (andato in onda qualche anno fa) che mi colpisce
particolarmente. Ad un Pietro amareggiato dal suo vile tradimento,
Maria la Madre di Gesù, dinanzi al Sepolcro del Figlio e Maestro,
così si rivolge: “Non smettere mai di cercarlo e lui ti troverà…
Sarà lui a trovarti”. Ecco, penso che la grandezza di Pietro sia
stata proprio l’aver fatto sue le parole di Maria (al di là della
fantasia del regista), in quella continua ed appassionata ricerca
del suo Maestro e Signore che gli ha permesso di risorgere dal buio
della notte che aveva amaramente segnato la sua vita di discepolo.
Scrivere di Pietro non è semplice,
perché Pietro è realmente ciascuno di noi: la sua storia è anche la
nostra e, parafrasando un’espressione evangelica, “penso che il
mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero
scrivere” (Gv 21, 25). Cominceremo perciò dalla “fine” della storia
per poi allargare con dei flash-back.
Gv 21, 1-14:
Gesù è risorto ed è già apparso ai
discepoli. Una sera/notte Pietro si rivolge ad alcuni suoi compagni
dicendo: Io vado a pescare (v. 3). Solitamente i biblisti
commentano questa espressione come un ritorno alla vita passata,
quasi un dire: ormai è finito tutto. Armi e bagagli: ognuno ritorni
a casa sua. A mio modesto parere, invece, la vedo più in continuità
con le parole del film sopracitato, anche perché Pietro e gli altri
hanno visto Gesù risorto e non possono certo pensare che sia finito
tutto. In quel “io vado a pescare” a me sembra di poter leggere tra
le righe un “io vado a cercarlo”. Eh sì! E’ come un voler ritornare
al luogo del primo appuntamento, là dove si erano conosciuti, dove i
loro sguardi si erano incrociati, dove avevano affidato
generosamente le proprie vite l’uno all’altro, dove tutto era
iniziato con un semplice, ma straordinariamente profondo, “SI”. Dopo
la notte del rinnegamento, Pietro vuol ricominciare da capo, da quel
mattino che diede una luce nuova alla sua vita. Pietro va a cercare
Gesù perché Egli possa trovarlo alla fine della sua notte. Infatti:
quella notte non presero nulla. Quando era già l’alba, Gesù
stette sulla riva (vv. 3-4). Pietro ha già sperimentato diverse
“notti” nella sua vita; notti che hanno segnato il suo incedere più
o meno spedito dietro i passi di Gesù; notti che hanno, di volta in
volta, scolpito e dato forma alla “roccia” che il Maestro aveva
scelto fra tante per il suo capolavoro. Ma la notte narrata in Gv 21
è davvero speciale, riassume in sé e supera tutte le altre
precedenti: è la notte della pesca miracolosa. No, non quella dei
centocinquantatre grossi pesci che pur si è verificata (cfr. v. 11);
bensì quella di un “pesce” ancora più grosso che, finalmente e
definitivamente, ha abboccato all’amo di Gesù: Simon Pietro, un
pesce pescatore.
Il primo incontro tra Gesù e Pietro
era avvenuto circa due o tre anni prima. Luca 5 ce lo descrive in
modo simile all’incontro narrato in Giovanni al capitolo 21. Anche
quella volta Simone aveva avuto una lunga notte infruttuosa e, al
mattino, quando il sole era ormai alto, il nuovo rabbi da poco
apparso sulla scena d’Israele gli diede un comando che aveva
dell’incredibile: Prendi il largo e gettate le vostre reti per la
pesca (v. 4). Quel giorno Simone prese davvero il largo, cioè fu
capace di andare oltre e al di là, di allargare lo sguardo della
fede e di arrendersi all’irrazionalità che sarebbe poi diventata la
sua ragione di vita: Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e
non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti (v.
5). Quel “SI” fruttò una pesca miracolosa e fu una prima
scalpellatura al futuro capolavoro. Dai racconti evangelici emerge
un ritratto di Pietro dalle diverse sfumature: egli ha “un carattere
deciso e impulsivo; egli è disposto a far valere le proprie ragioni
anche con la forza. Al tempo stesso, è a volte anche ingenuo e
pauroso, e tuttavia onesto, fino al pentimento più sincero”
(Benedetto XVI). In quel mattino della sua nuova storia, Pietro fu
chiamato da Gesù lungo il mare di Galilea, sulla spiaggia… sulla
sabbia (anche se in realtà si tratta di un grande lago, la cui
riva non è affatto sabbiosa), ma il suo nuovo nome, la sua nuova e
definitiva identità è roccia, Pietro. Il suo nome, la
fedeltà, l’amore di Dio in Gesù sono dunque scritti sulla roccia e
non sulla sabbia della fragilità, della debolezza, dei peccati,
dell’incostanza e della instabilità emotiva, che pure Pietro
sperimenta e che costellano la sua storia di vocazione.
In Matteo 16, dopo diverso tempo
dall’inizio del suo ministero pubblico, Gesù chiese agli apostoli
quale fosse l’opinione della gente nei suoi confronti. Le risposte
furono differenti, seppure concordi nell’identificarlo con l’uno o
con l’altro dei grandi profeti della storia d’Israele. Ma voi,
chi dite che io sia? (v. 15). All’illuminata risposta di Simone,
a nome di tutti, Gesù pose il suo sigillo: E io a te dico: tu sei
Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa (v. 18). La
nostra roccia cominciò a prendere forma ed identità sull’impronta di
quel calco che altro non è se non lo stesso Cristo Gesù, la vera
Roccia che fonda e dà consistenza, l’Amen della fedeltà di Dio
all’uomo. Una fedeltà, però, alla quale l’uomo, nel nostro caso
Simon Pietro, difficilmente riesce a corrispondere.
Durante l’Ultima Cena (Lc 22) Gesù
si rivolse a Pietro con parole molto forti, assicurandogli la sua
preghiera affinché la fede dell’apostolo, passata al vaglio della
tentazione, rimanesse salda e costituisse un sicuro appoggio e
riferimento per i suoi compagni. Pietro, imprudentemente forte nella
sua convinzione, ribatté il suo fermo proposito di condividere in
toto la sorte del Maestro che gli rispose: Pietro, io ti
dico: oggi il gallo non canterà prima che tu, per tre volte, abbia
negato di conoscermi (v. 34). Povero Pietro! La sua roccia si
rivela friabile e facile al cedimento. È notte: Gesù prega nell’Orto
degli Ulivi, si prepara all’evento determinante della sua vita e
chiede ai suoi di vegliare insieme a lui. Ma Pietro e gli altri non
resistono - perché in fondo non capiscono - e si addormentano. Dopo
un po’ avviene l’arresto e fuggono via impauriti. Il loro Maestro è
solo di fronte alla sorte che sigillerà la sua missione. Pietro però
ci ripensa e trova il coraggio di seguirlo… da lontano (v.
54). Che strana sequela! Seguire a distanza per non correre il
rischio di esserne troppo coinvolto. Lui che aveva lasciato tutto e
subito, adesso esita, e poco a poco, cerca di riprendersi il suo. E
proprio qui cade: è la “notte” della sua vita, la notte della morte.
Sì, quella di Gesù, ma soprattutto la sua, quella di Pietro. Con il
suo triplice rinnegamento del Maestro, egli decreta la sua stessa
morte. Eh sì! Perché se, come dicevamo, in Matteo 16 egli aveva
ricevuto la sua nuova e vera identità sulla base del riconoscimento
di quella di Gesù, ora avviene proprio il contrario. Negando Gesù,
egli nega se stesso. Ma quella notte tremenda, per grazia di Dio, ha
un termine: E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo
cantò. Allora il Signore si voltò e fissò lo sguardo su Pietro, e
Pietro si ricordò… E, uscito fuori, pianse amaramente (vv.
60-62). Nell’incontro dei due sguardi - come in quel primo giorno -
e nel bagno salutare delle lacrime, Pietro riprende a vivere, primo
frutto di quel seme che ha accettato di marcire nella terra per dare
un raccolto abbondante (cfr. Gv 12, 24).
Gv 21, 15-17:
sulla riva del lago, dopo essersi
saziati di quella pesca miracolosa, Gesù e Pietro si appartano dagli
altri. È un momento davvero solenne. Pietro, nella notte, era uscito
a cercarlo e Gesù, al mattino, lo trova e di nuovo lo chiama. Alla
duplice richiesta di un amore totale ed incondizionato, Pietro
risponde offrendo il suo povero e fragile amore umano, quasi
vergognandosene. Gesù allora gli fa capire che questo gli basta
perché è sincero e gli affida il grande e grave compito di diventare
pastore del suo gregge.
“Gesù davanti a Pietro chiede, d’ora
in poi, forza e coraggio. Proprio amandolo lo ha ritrovato… Ora poco
importa se la rete del rinnegamento e i lacci del male sono stati
più forti delle parole di Gesù. L’essenziale è che il Maestro venga
a riprendersi ciò che è suo… La grandezza di Pietro sta nel non
essere stato abbandonato da Colui che aveva tutti i diritti di
sostituirlo. I fallimenti di Pietro diventano così motivo di grazia
per lui e di rivelazione per il suo Signore. C’è poco da addolorarsi
se per tre volte Gesù gli chiede un amore serio, superiore a quello
degli altri. È proprio amando che si riesce a superare il limite…
Pietro si accorge di essere sempre stato importante per Gesù. Lo
dice quel gesto: l’essere sulla riva e non cercare altri apostoli
migliori esplicita chi sta davvero a cuore al Cristo” (M.
D’Agostino).
Pietro è grande perché non ha avuto
paura di essere quel che era e così presentarsi quotidianamente al
suo Maestro. Lo ha amato veramente e da lui ha accettato tutto,
anche le sferzate più dolorose e i rimproveri più energici, convinto
che l’amore di Gesù bastasse a risollevarlo dalla sua fragilità.
Questo amore lo porta scolpito indelebile sulla sua roccia, che pure
è formata da tanti granelli di sabbia, impastati dalle lacrime in
una notte - per sempre - indimenticabile.
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HA SCRITTO
“T’AMO” SULLA ROCCIA
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Vocazione.
È la parola che
dovresti amare di più.
Perché è il segno
di quanto sei importante
agli occhi di Dio.
È l’indice di
gradimento, presso di lui,
della tua fragile
vita.
Sì, perché, se ti
chiama,
vuol dire che ti ama.
Gli stai a cuore,
non c’è dubbio.
In una turba
sterminata di gente
risuona un nome:
il tuo.
Stupore generale.
A te, non aveva
pensato nessuno.
Lui sì!
Più che
“vocazione”,
sembra una “evocazione”.
Evocazione dal
nulla.
Puoi dire a tutti:
si è ricordato di me!
E davanti ai
microfoni della storia
(a te sembra solo
nel segreto del cuore)
ti affida un
compito
che solo tu puoi svolgere.
Tu e non altri.
Un compito su
misura… per lui.
Sì, per lui, non
per te.
Più che una
missione,
sembra una scommessa.
Una scommessa
sulla tua povertà.
Ha scritto “T’amo”
sulla roccia!
Sulla roccia, non
sulla sabbia
come nelle vecchie
canzoni.
E accanto ci ha
messo il tuo nome.
Forse l’ha sognato
di notte.
Nella tua notte.
Alleluia!
Puoi dire a tutti:
non si è vergognato di me!
(Don Tonino Bello, 6 maggio 1990)
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Anno XV
- 2011 n°3
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Un chiamato che chiama
- settima parte -
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Quando
si parla di profeta
si intende comunemente (e altrettanto erroneamente) una persona che
predice il futuro o possiede poteri occulti. In altre parole, si
pensa ad un indovino o un chiaroveggente. Questo infatti è il primo
significato riportato nei nostri dizionari.
Secondo
la tradizione biblica, invece, il profeta è l’uomo di Dio per
eccellenza, colui che è al contempo in comunione profonda con Dio e
pienamente immerso nella storia del suo tempo, tanto da riuscire a
leggerla con gli occhi di Dio. Anzi, di più, egli è il portavoce di
Dio presso il popolo eletto ed anche presso tutti gli altri popoli.
In
Israele il profetismo si sviluppa in un preciso periodo storico,
quello della monarchia (XI-V sec. a.C.), quando il popolo, ormai
stabilitosi nella Terra Promessa, inizia a concedersi una vita
accomodante che lo porta a prendere le distanze dal suo Dio e a
presumere di potersi “fare da solo”. Già l’aver istituito la
monarchia in Israele era parso come un chiaro rifiuto di una filiale
e riconoscente sottomissione al vero e unico Sovrano Jahvèh.
Israele, pago e sazio di quella terra dove scorre latte e miele,
dimentica di essere il popolo di Dio, la sua proprietà tra tutti i
popoli e, come i bambini che giocano a fare i grandi, crede di poter
essere alla pari delle altre nazioni circostanti. Ma ahimè! Chi
scherza col fuoco prima o poi si scotta e ne paga le conseguenze. Il
sogno di autosufficienza si trasforma ben presto in un incubo:
Israele sperimenta tutta l’amarezza delle invasioni nemiche e delle
deportazioni in terra d’esilio. È proprio in questo contesto che la
figura del profeta emerge in tutta la sua forza per
lanciare il messaggio divino. L’inviato di Dio ammonisce e mette in
guardia il popolo affinché si ravveda e ritorni a Lui, pena la
triste conseguenza che, nella sua cocciutaggine, Israele non
riuscirà ad evitare.
Secondo
l’etimologia greca, il profeta è colui che parla “pro”:
a) davanti
ad un’assemblea; b) prima
che la cosa avvenga; c) a nome di
un altro. La lingua ebraica, dal canto suo, conosce diversi termini
per indicare questa categoria di persone, ma il principale è “nābî”
e il suo significato ruota attorno al verbo “chiamare”, sia nella
sua forma attiva che in quella passiva. Il profeta è allora un chiamato che
chiama. Egli è il chiamato per
eccellenza e perciò l’uomo della Parola, da Questa chiamato alla sua
missione, e di Questa annunciatore. Un costante ritornello infatti,
tipico degli scritti profetici, è: mi fu rivolta la
Parola del Signore, oppure
il Signore
mi disse. Quest’ultima
espressione, in particolare, richiama il racconto della creazione
(cfr. Gen 1, 1-2,4a), laddove la Parola di Dio è risuonata in tutta
la sua potenza creatrice. In ebraico, “dabàr” non significa soltanto
“parola”, ma anche compimento della stessa, e perciò “azione,
evento”. Nel racconto della creazione Dio dice e fa, perché quello
che dice avviene: Dio disse… e così
avvenne (Gen 1, 6.7ss.). Il
profeta è tale perché a lui Dio ha rivolto la sua chiamata e la sua
Parola e queste lo hanno reso capace di diventare quello per cui è
stato appunto chiamato. Il profeta vive della Parola di Dio, la
ascolta, la assimila fino a farla diventare la sua propria carne: Avvenga
per me secondo la tua parola… E il Verbo si fece carne
(Lc 1, 38; Gv 1, 14); Figlio dell’uomo…
mangia questo rotolo… nutri il tuo ventre e riempi le tue viscere
con questo rotolo… Prendi il libro aperto… e divoralo
(Ez 3, 1.2; Ap 10, 8.9).
Nel
libro di Ezechiele, il profeta è ripetutamente chiamato “figlio
dell’uomo”, termine che solo più tardi (profeta Daniele e Gesù)
diventerà un titolo messianico, ma che qui ha il valore di creatura
umana nella sua realtà fragile e precaria. Ebbene, proprio all’uomo
fragile Dio affida la sua Parola e il compito di annunciarla. Dio
affida perché si fida. È bello vedere, leggendo le storie dei
profeti, che Dio non trasforma questi uomini con un colpo di
bacchetta magica. Non li fa diventare perfetti o forbiti oratori.
No, a Lui non interessano i titoli di studio o gli impeccabili
curriculum. Tra i suoi prescelti ci sono sì sacerdoti e uomini
colti, ma non mancano nemmeno contadini e pastori. Ogni profeta
parla con la propria umanità, col bagaglio della propria storia
personale, col proprio carattere. La parola del profeta è parola di
Dio con la voce dell’uomo. A tal proposito dice Agostino: «Dio parla
per mezzo dell’uomo al modo umano, poiché parlando così, egli cerca
noi»
(La Città di Dio 17, 6, 2); e ancora: «Io parlo, ma dico cose tue.
Se parlassi per mio conto, sarei bugiardo. Ebbene, io dirò cose tue,
e sarò io a dirle. Sono, queste, due cose ben distinte: una è tua,
l’altra è mia: la verità è tua, la bocca è mia» (Sul salmo 88,I,2).
Ogni
vocazione - anche quella profetica - suppone sempre una missione e
un servizio. Il profeta è infatti “pro”, cioè “per, a beneficio, a
favore di…”. Dio non chiama perché ciascuno si coccoli in privato,
ma lo fa sempre per un preciso compito. Dio non assume impiegati
d’ufficio, con tanto di scrivania, poltrona e computer, ma esce per
chiamare operai per la sua vigna, disposti a sopportare il caldo e
il peso di una lunga giornata lavorativa… e forse con una paga non
molto gratificante (cfr. Mt 20, 1-16)! Il profeta si rivela essere un uomo scomodo, un
disturbatore della quiete pubblica, un osso duro non soltanto per i
figli d’Israele, ma anche per quanti altri sono destinatari della
sua parola. Egli sperimenta sulla sua pelle il rifiuto, la
persecuzione e l’odio, ma sa che se vuol fare centro deve
sempre-comunque-nonostante tutto puntare dritto e
mirare in alto. In tutto
questo, egli non ha l’ingenua pretesa di poter bastare a se stesso:
intuisce la gravità della sua missione (umanamente impossibile) e
non ha remore nel professarsene indegno. Ecco allora che Dio
interviene a rassicurare il suo uomo: Non temere… Io
sono con te. Sono la garanzia
che Dio cammina accanto al profeta e non lo lascia da solo a
compiere la sua opera: «Sembra
duro e gravoso ciò che il Signore ha comandato… Ma non è affatto né
duro né gravoso ciò che comanda colui che aiuta a sua volta a
compiere ciò che comanda»
(s. Agostino, Disc. 96,1). In quell’“Io sono con te” c’è tutta la
potenza e la fedeltà del Dio dell’Esodo, che proprio con questo nome
si è rivelato a Mosè nell’episodio del roveto ardente (cfr. Es 3,
14-15) e che con mano potente
e braccio teso (Sal 135, 12)
ha operato prodigi a favore del suo popolo. Il profeta Ezechiele
sperimenta questa realtà in un modo tutto personale, portandola
scolpita nel suo stesso nome: “Dio è il Forte, è la mia forza, mi
rende forte”. A lui Dio rivolge, all’inizio della sua
vocazione/missione, una promessa che suona quasi come un solenne
giuramento: Tutta la casa
d’Israele è di fronte dura e di cuore ostinato. Ecco, io ti do una
faccia indurita quanto la loro faccia e una fronte dura quanto la
loro fronte… Non li temere (Ez
3, 7-8.9). con la sua “faccia dura” il profeta è chiamato a “montare
la guardia” e a farsi sentinella vigile che avverte quando incombe
il pericolo, che non sempre è qualcosa di esterno. Il più delle
volte infatti il nemico si annida dentro il cuore dell’uomo e il
profeta è chiamato a snidarlo e a riportare l’uomo alla verità di
sé. In questo senso la profezia è anti-idolatrica, dove “idolo”
rappresenta (secondo l’etimologia greca) uno spettro, un fantasma,
una vana apparenza. L’idolo è un inganno, perché distoglie dalla
realtà per confinare nel regno dell’apparenza. L’uomo di Dio allora
condanna la vanità di chi pretende di voler “inseguire i fantasmi”
che lo portano lontano dalla verità che abita nel suo cuore. Forse
non sempre il profeta ha la risposta pronta. Lui è il primo a
mettersi in ascolto della voce di Dio, ma di una cosa è certo:
quello che Dio promette, sicuramente lo porta a compimento, anche se
i suoi tempi non corrispondono ai nostri e, dall’alto del suo posto
di guardia, alimenta la fiamma del desiderio e della speranza.
Prendo a prestito - adattandola al nostro discorso - un’espressione
di Marcel Proust: «… vorremmo che egli ci desse delle risposte,
quando tutto quello che egli può fare, in realtà è di darci dei
desideri. E questi desideri non può risvegliarli in noi, che
facendoci contemplare la bellezza suprema».
Concludo
con un riferimento al titolo e alla simbologia che ci ha
accompagnato durante il nostro incontro: «… Voi siete gli archi da
cui i figli, le vostre frecce vive, sono scoccati lontano. L’Arciere
vede il bersaglio sul sentiero infinito, e con la forza vi tende,
affinché le sue frecce vadano rapide e lontane. In gioia siate tesi
nelle mani dell’Arciere; poiché, come ama il volo della freccia,
così l’immobilità dell’arco» (Gibran, Il Profeta). Il profeta è
l’arciere che punta dritto e mira in alto verso il sole, oltre il
mistero, ma è anche l’arco nelle mani di Dio, l’educatore, e aiuta a
non “mancare il bersaglio” (che in ebraico è sinonimo di peccato e
di vita infelice) e a fare centro nella propria vita.
Questa
riflessione è anche frutto del valido contributo di: A. GASPERONI,
«Ezechiele», in G. DE VIRGILIO (cur.), Dizionario
biblico della vocazione,
Rogate, Roma 2007, 298-308.
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Anno XVI
- 2012 n°1
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MANDA CHI VUOI MANDARE!
- settima parte -
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Un itinerario vocazionale che si
rispetti non viaggia mai sulla corsia di sorpasso di un’autostrada.
Piuttosto si addentra per le strade secondarie, magari in una zona
di montagna, destreggiandosi tra curve, dossi, salite e discese
“mozzafiato”. Insomma: non sempre e non tutto scorre liscio e sereno
quando ci si trova dinanzi alla grande ed esigente proposta
vocazionale.
Lo sanno bene i protagonisti della
storia biblica che stiamo imparando a conoscere più da vicino. Non
per niente l’espressione caratteristica di ciascuna chiamata è: «non
temere!». Tra tutti, puntiamo il
nostro sguardo e la nostra riflessione su Mosè. Attraverso la sua
storia scopriremo le difficoltà e i meccanismi di resistenza che
abitano la scelta e la risposta vocazionale.
Mosè porta iscritta nel suo nome una
duplice realtà: egli è “salvato” dalle acque e per ciò stesso
chiamato a salvare il popolo ebraico grazie all’attraversamento
delle acque del Mar Rosso; egli però è anche - secondo l’etimologia
egiziana del nome – un “figlio”. Più precisamente, il suo nome è un
suffisso che solitamente si accompagna a quello delle divinità
egizie per indicare che l’uomo che lo porta (il faraone o uno di
alto rango) è considerato figlio della stessa divinità. Il nome di
Mosè però è libero da ogni specificazione, quasi a significare che
egli deve ancora conoscere il vero Dio a cui appartiene e di cui è
figlio.
Tralasciamo qui il racconto della sua
nascita e delle prime vicissitudini
dell’infanzia, certamente ben note a tutti. Mosè è ormai
adulto, cresciuto alla corte del faraone, ma il sangue ebraico che
scorre nelle sue vene non tarda a farsi sentire, anche con veemenza.
Egli si erge subito al ruolo di “paladino della giustizia” tra
egiziani ed ebrei e tra gli stessi ebrei: uccide a sangue freddo un
egiziano che maltrattava un ebreo durante i lavori forzati e si fa
mediatore e giudice in un litigio fra due ebrei (cfr. Es 2,11-14).
Poi, costretto a fuggire in una terra straniera, si improvvisa
protettore e garante di un gruppetto di ragazze tormentate da alcuni
uomini del posto (cfr. 2,16-17). Sono le premesse della sua
vocazione ma… è tutta farina del suo sacco perché Dio non gli ha
ancora rivelato la sua volontà.
Mosè giunge ad un punto cruciale della
sua esistenza: passato e presente sembrano sfuggire al suo disperato
controllo e il futuro ancora non gli appartiene. Nel frattempo pensa
bene di trovarsi una sistemazione con tanto di moglie, figli e
lavoro. In realtà egli è un uomo senza identità: non è egiziano e
neanche ebreo (non ancora pienamente); è “figlio”, di un dio
certamente, ma non sa bene di quale o di chi. Vive in esilio in una terra
straniera (quasi un rifugiato politico) senza una famiglia di
origine, una storia e un clan di appartenenza che possano
significargli la verità di sé. Espressione perfetta di tutto questo
è il nome che dà al suo primo figlio: Ghersom, «vivo come
forestiero in terra straniera» (2,22). Nonostante abbia provato
a farsi una vita, tuttavia la sua esistenza manca di qualcosa per
dirsi realmente piena e significativa: manca del suo senso
primigenio ed ultimo. Se la vocazione, come ha detto qualcuno, è
“sentirsi a posto nel posto giusto”, Mosè non si sente “a casa”
perché non ha ancora scoperto la propria.
O meglio, ha provato una vocazione fai-da-te, senza il nullaosta di
Dio, ed ha miseramente fallito.
La dinamica vocazionale ha alla base
una fondamentale domanda: «volontà sua o volontà mia?» e questa
esige una sola risposta: «volontà sua!», ma non senza un attento - e
molto spesso sofferto - discernimento. È proprio così che succede al
nostro Mosè. Arriva anche per lui il momento fatidico della chiamata
e non è tutto rose e fiori. Proprio quando
si era messo il cuore in pace per non essere riuscito a
diventare il “salvatore del mondo”, ma soltanto un semplice pastore
in terra straniera, rifiutato dagli egiziani e dagli ebrei, proprio
allora si fa avanti Dio a destabilizzare il suo già precario
equilibrio. Nell’episodio del roveto che arde e non si consuma, Dio
lo fa scalzare dinanzi alla sua misteriosa presenza (cfr. 3,1-6),
rendendolo vulnerabile e indifeso, facendogli così capire che
l’esperienza che sta vivendo è qualcosa di sacro e di sacralizzante:
è la sua pienezza del tempo che lo renderà totalmente diverso da
prima, qualunque sia la posizione che prenderà di fronte a questo
evento. Nell’accettazione o nel rifiuto della vocazione/identità che
Dio sta per proporgli, egli non sarà più lo stesso.
Ho conosciuto persone che hanno
rifiutato la chiamata di Dio (alla vita consacrata o al matrimonio)
perché avevano una grande paura: la loro vita sarebbe
necessariamente cambiata, anzi sarebbe stata stravolta. Questo è
vero, ma lo è altrettanto per chi volta le spalle alla propria
vocazione: non sarà più la stessa persona perché non potrà
raggiungere la sua piena identità, sarà “un forestiero in terra
straniera”, mai completamente pago perché mai realmente “a posto nel
posto giusto”. E la sua vita non sarà più come prima di quel no.
Si illuderà di poter ritornare alla vita consueta: lavoro, studio,
relazioni abituali, ma non sarà più lo stesso, anche se tutto
intorno sembrerà non essere cambiato.
La proposta vocazionale dovrebbe
suscitare il desiderio di compiersi, non per ciò che si è o si
vorrebbe essere, ma per quello che si è chiamati ad essere. Essa è
la rivelazione della vera e piena identità. Eludere la domanda e
disertare il momento decisivo della risposta equivalgono ad
un’amputazione del proprio IO e ad una mancanza di senso che,
inutilmente, si cercherà di colmare con un sovraccarico di
compensazioni.
Ritorniamo a Mosè: nei capitoli 3-4
del libro dell’Esodo è narrata la sua vocazione secondo una dinamica
paradigmatica e quanto mai viva ed attuale. Innanzitutto Mosè prende
coscienza del fatto che Dio, prima di lui, si è preso pensiero della
condizione degli israeliti; che Dio, prima di lui, ha voluto
intervenire in loro soccorso; che Dio, prima di lui, ha voluto
colpire a morte gli egiziani; che Dio, prima di lui, ha sentito il
sangue ribollire nelle vene per tanta malvagità, quello stesso
sangue che scorre nelle vene del suo popolo e di Mosè. E qui scatta
la chiamata: Perciò va’! Io ti mando dal faraone…(3,10).
Quell’Io fa la differenza e dà inizio ad un botta e risposta
nella quale la vocazione si gioca
tra l’Io di Dio e l’io di Mosè, il quale,
alle proposte/rassicurazioni di Dio ribatterà adducendo un’infinità
di giustificazioni e di perplessità, fino all’agghiacciante
risposta: Perdona, Signore, manda chi vuoi mandare!
(4,13).
La vocazione non equivale al “mi
piace, so fare, sono portato per…”. È vero, umanamente parlando ci
esprimiamo così. Nel Regno di Dio però si parla un’altra lingua ed è
quanto mai importante intendersi sui termini. La vocazione non me la
do io secondo i miei gusti personali o le mie attitudini (che a
volte possono anche coincidere, ma non necessariamente). Essa nasce
con me, anzi prima di me, perché è un dono che mi viene da Dio e che
cresce con me “a scatola chiusa”, senza che io ne sia consapevole,
fino alla pienezza del tempo, quando sarò “chiamato” ad accettarlo o
meno. Ad un Mosè che ha paura e si ritrova spiazzato, che mette
avanti le sua fragilità e le sue insicurezze, Dio chiede di fidarsi
della sua grazia, della sua assistenza, della sua fedeltà che non
verrà mai meno. È vero, Dio chiede tanto, forse anche troppo, ma
quello che lui dà è infinitamente più grande: Se stesso. Il mio SI a
lui, infatti, è l’eco/risposta del suo Sia me. Nella dinamica
vocazionale non vale il come mi penso, ma il come sono
pensato. “Non quindi il «Cogito ergo sum» di Cartesio, ma
il «Cogitor ergo sum»” (A. Sicari - Chiamati per nome
- Milano, 1990). Ad un Mosè che si pensava salvatore del
mondo, capace di riuscirvi con le sue sole forze, Dio contrappone un
Mosè da lui pensato quale salvatore e liberatore del suo
popolo, capace di riuscirvi con la grazia e la potenza di Dio, in
virtù della vocazione alla quale e per la quale è stato chiamato.
Mosè cerca di sottrarsi a tanta responsabilità: gli ebrei non gli
crederanno e non si fideranno di lui, il faraone gli darà filo da
torcere e non li lascerà partire così facilmente e poi… la sua più
grossa ed umiliante difficoltà: egli è balbuziente e come può
sperare di riuscire a convincere con discorsi e parole che farà
fatica ad articolare? Dio non può pretendere così tanto da chi non
ne ha le capacità o da chi non se la sente di intraprendere
un’avventura rischiosa: manda chi vuoi mandare! Dio allora dà
l’ultimo strattone alla corda e termina il tira e molla. Non si
risponde alla vocazione in base alle proprie capacità, lo abbiamo
già detto, ma solamente in virtù della consapevolezza di potersi e
volersi “fare capacità” per Dio e la sua volontà. È in questo alveo
accogliente che attecchisce e prende forma l’identità vocazionale
che Dio solo - e non l’uomo - porterà a compimento. Il momento della
decisione e della risposta è una vera e propria agonia, una lotta
corpo a corpo: nella notte, infatti, Dio e Mosè si affronteranno
fino al sangue, fino all’Alleanza (cfr. 4,24-26). “Tale agguato […]
significa la serietà della posta in gioco; si tratta di una notte
oscura in cui Dio vuole fare totalmente suo l’inviato,
prospettandogli un’avventura umanamente ingestibile e di completa
debolezza, dove risalta la forza divina e nessun altro appoggio
umano; il cimentarsi con Dio è cementarsi in Lui” (A. Nepi - «Mosè»,
in Dizionario Biblico della vocazione - Roma, 2007).
Nell’accogliere la sua vocazione, Mosè
sperimenterà la potenza e la fedeltà di Dio. Una volta detto SI
tutto andrà per il verso giusto e splenderà sempre il sole? Certo
che no! Quella della vocazione non è la favola della buonanotte che
annuncia un sonno tranquillo. È più un romanzo d’avventura, adatto a
“bambini ormai cresciuti”. Le difficoltà, i dubbi, le incertezze non
spariscono con un colpo di spugna, ma accompagnano fianco a fianco
il cammino vocazionale e lo mettono alla prova per rafforzarlo.
Solamente un piccolo particolare: Colui che ci ha chiamati per
questa avventura non ci lascia mai soli, ci tiene per mano e ci
guida. E come successe al popolo d’Israele, anche noi ci sentiremo
dire: Voi stessi avete visto ciò che io ho fatto all’Egitto e
come ho sollevato voi su ali di aquile e vi ho fatti venire fino a
me (19,4). “L’ultima espressione suona letteralmente: «e vi ho
fatti entrare in me»: è questa comunione intima e profonda con Dio
la meta dell’esodo; non si tratta di una meta impossibile, perché
nonostante i momenti di contestazione (cfr. 14,11; 16,32) è Dio
stesso che porta sulle proprie ali di aquila il suo popolo!” (M.
Priotto).
Il segreto? Buttarsi sapendo di essere
accolti dalle ali di Dio che ci sostengono e ci portano in alto.
Facile a dirsi, un po’ meno a farsi: se no che avventura sarebbe?
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Anno XVI
- 2012 n°2
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Al
passo degli uomini
- ottava parte -
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Già il titolo è un programma. Questa
volta infatti ci soffermeremo ad analizzare un aspetto molto
importante della chiamata: la prossimità, fisica e insieme
spirituale, di Dio al chiamato. Nel grande viaggio della vocazione,
scandito da precise tappe (preparazione del “terreno”; chiamata;
riconoscimento e accoglienza della stessa; incarnazione e fedeltà
alla chiamata), Dio si fa realmente vicino al suo interlocutore,
anche con la presenza fisica tangibile di uomini e donne di Dio che
accompagnano il discernimento e la missione.
In tutto questo ci è di aiuto la figura
biblica di Tobia e del suo “angelo custode-guida” Raffaele-Azaria.
La storia è ambientata a Ninive, grande
capitale dell’Assiria a nord della Mesopotamia, luogo di
deportazione e di esilio degli israeliti tra l’VIII e il VII sec.
a.C. Il libro di Tobia si apre con la figura di Tobi, ebreo
osservante della legge, fedele all’alleanza e alle prescrizioni dei
padri anche in terra d’esilio, laddove sono vietate tutte le
pratiche religiose care al popolo d’Israele. Egli è pronto a sfidare
qualsiasi legge pagana che gli proibisce il culto e le pratiche di
pietà e, per questo, dovrà subire numerosi disagi. Come se non
bastasse, si ritrova disgraziatamente cieco e quasi povero.
Esasperato dalla sua situazione estrema, finisce col trattare molto
male la moglie che gli fa notare l’incongruenza tra la sua
ossessionante fedeltà al Signore e l’amara ricompensa che ne ha
ricevuto. Stanco e disperato, invoca la morte liberatrice.
Contemporaneamente entra in scena Sara,
una giovane e sfortunata donna che ha visto morire i suoi sette
mariti proprio nella prima notte di nozze, colpiti da un maleficio
del demonio Asmodeo, il cui nome significa appunto “colui che fa
perire”, il distruttore dell’amore coniugale. Anche Sara, disperata
per questa sua situazione, piange e prega il Signore di farla morire
e liberarla così da una vergogna insopportabile.
Una duplice preghiera, quella di Tobia
e quella di Sara, accorata e rispettosa. L’autore sacro così
commenta: in quel medesimo momento la preghiera di ambedue fu
accolta davanti alla gloria di Dio e fu mandato Raffaele a guarire
tutti e due (Tb 3,16-17).
A questo punto entriamo nel vivo della
nostra storia: Tobi si ricorda di aver depositato una grossa somma
di denaro presso un suo parente in un paese lontano e, dopo un lungo
sapiente discorso, incoraggia il figlio Tobia (ecco il nostro
protagonista) a mettersi in viaggio per andare a recuperare il
patrimonio di famiglia, non senza l’aiuto di un giovane fidato,
esperto del tragitto da percorrere. È a dir poco divertente leggere
il capitolo 5 di questo libro, dove Dio fa letteralmente e
all’improvviso “piovere dal cielo” la guida giusta per il giovane
Tobia: si tratta dell’angelo Raffaele (ecco il nostro secondo
protagonista). Questo importante particolare però è noto soltanto al
lettore, mentre i personaggi della storia pensano si tratti di
Azaria, un loro parente (una fondamentale garanzia per poter
intraprendere il viaggio lungo e rischioso!). Si tratta di un
viaggio alla ricerca di un tesoro e di quello che poi si rivelerà
essere il senso della vita di Tobia, cioè il matrimonio con Sara,
sua parente, finalmente liberata dal maleficio di Asmodeo.
Tobia è l’icona di ogni giovane che, al
momento giusto, parte alla ricerca del suo tesoro, cioè del senso
della sua vita e per esso è disposto ad affrontare qualsiasi
rischio, superandolo grazie ai sapienti consigli di chi ha già
percorso quella stessa strada prima di lui e, proprio per questo, la
conosce bene e sa riconoscere le insidie che possono nascondersi
dietro l’angolo.
Raffaele-Azaria è l’icona
dell’accompagnatore vocazionale, colui che si fa strumento di Dio
nel difficile, e quanto mai delicato, percorso del discernimento
della vocazione, che è poi il senso per cui ogni vita è tale. Egli è
colui che permette a Dio di camminare al passo degli uomini, di
affiancarsi a loro, rispettandone la storia personale e i tempi di
maturazione.
Tobia sa che da solo non riuscirebbe a
portare a termine il suo viaggio, per questo si fida e si affida ad
Azaria che, nel suo nome, racchiude una verità fondamentale: “Dio
aiuta”. In ogni vicenda vocazionale, quella di ciascun uomo o donna
sulla faccia della terra, Dio si rende visibile come presenza che
aiuta attraverso persone o eventi che, magari, all’apparenza non si
direbbero tali o forse tutt’altro che aiuti. Ma Dio c’è come
presenza misteriosa e reale, anche se non immediatamente
riconoscibile.
Il libro di Tobia ci narra la storia di
personaggi quanto mai umani, “normali”: persone che si sforzano di
vivere giorno per giorno la loro fedeltà al progetto di Dio. Un
progetto certamente misterioso e insondabile nella sua profondità,
ma pur sempre sacramento di una fedeltà ancora più grande della
loro: quella di Dio all’uomo.
Quello che la vicenda di Tobia ci
insegna è “accettare di porsi in cammino verso una meta ignota,
scoprendo solo nel momento in cui si accetta di mettersi in cammino
che Dio ci accompagna passo dopo passo” (L. Mazzinghi). Le
difficoltà nel cammino sono inevitabili, si sa, ma se si è decisi a
seguire e perseguire il progetto di Dio, allora si sperimenta
davvero il suo aiuto e la sua vicinanza, perché la sua volontà
d’amore è molto più grande di mille difficoltà perché è pensata da
sempre e per sempre. Per non dire poi che, in tutto questo, c’è
anche il fidarsi e l’affidarsi di Dio all’uomo: egli si è
volutamente legato alla libertà dell’uomo e sa che dovrà vedere
realizzato il suo progetto al ritmo dell’esistenza umana, piena di
perplessità e ripensamenti, come anche di slanci generosi e audaci.
Egli sa che non può fare altro che star lì, accanto all’uomo, sotto
le sembianza di un “angelo custode” che lo guida e lo consiglia ma,
fondamentalmente, lo lascia libero di decidere della propria vita,
libero anche di non voler partire alla ricerca del tesoro che
potrebbe renderlo davvero felice. In ultimo, alle soglie del passo
decisivo, egli è pronto a lasciarlo, a rimanere dietro perché sia
lui, da solo, a compiere il salto. Proprio come Mosè che morì alle
porte della Terra Promessa, lasciando che il popolo finalmente vi
entrasse libero. Il suo compito era terminato e ormai poteva e
doveva lasciare il palcoscenico della vita ai soli e veri
protagonisti: l’uomo e Dio uniti nel reciproco SI.
L’accompagnatore sa che il suo ruolo è
temporaneo e subordinato a Dio. Al termine della sua missione, nel
farsi finalmente riconoscere dai suoi nuovi amici, Raffaele dice
loro: Benedite Dio per tutti i secoli. Quando ero con voi, io stavo
con voi non per bontà mia, ma per la volontà di Dio: lui dovete
benedire sempre, a lui cantate inni (13,17-18).
Senza l’aiuto e i consigli di
Raffaele-Azaria, Tobia si sarebbe certamente smarrito lungo il
cammino, forse non lo avrebbe mai iniziato o forse non lo avrebbe
portato a termine, atterrito dalle mille difficoltà che gli si erano
messe in mezzo. Ma la figura dell’accompagnatore vocazionale è
garanzia e sicurezza lungo il percorso accidentato e incarna in sé
le meravigliose parole del profeta Isaia: Anche se il Signore ti
darà il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione, non si
terrà più nascosto il tuo maestro; i tuoi occhi vedranno il tuo
maestro, i tuoi orecchi sentiranno questa parola dietro di te:
«Questa è la strada, percorretela», caso mai andiate a destra o a
sinistra (30, 20-21).
Ecco: l’accompagnatore sta a fianco ma
sempre un passo indietro perché, leggendo gli eventi della vita,
possa sussurrare all’orecchio la direzione giusta e possa infondere
coraggio, cioè la capacità di agire-con-il-cuore nel momento più
opportuno e decisivo.
L’accompagnatore è garanzia che non
occorre avere tutte le carte a posto prima di intraprendere il
viaggio. L’importante è avere chiara la meta, che è la ricerca del
senso della propria vita. Il resto, gli strumenti necessari si
troveranno disseminati lungo il cammino.
L’accompagnatore è colui che,
incaricato da Dio di tale compito, sa quali sono i passi giusti da
fare: «Farò il viaggio con lui. Non temere: partiremo sani, e sani
ritorneremo da te, perché la strada è sicura» (5,17). Egli è
l’angelo buono che accompagna affinché il viaggio vada bene (cfr.
5,22).
Infine, come conclusione, mi piace qui
riportare un passaggio del sapiente discorso che Tobi fa al figlio
Tobia prima di farlo partire: «… Chiedi consiglio a ogni persona che
sia saggia e non disprezzare nessun buon consiglio. In ogni
circostanza benedici il Signore Dio e domanda che ti sia guida nelle
tue vie e che i tuoi sentieri e i tuoi desideri giungano a buon
fine» (4,18-19).
La storia di Tobia ci insegna che Dio
si fa compagnia presente nella vita del chiamato, interpellandolo
attraverso la quotidianità degli eventi, decifrabili grazie
all’aiuto illuminato di un “angelo custode” che lui ci fa incontrare
sul nostro cammino. È suo dono perché si faccia suo interprete per
guidare su quella strada sicura che porta alla scoperta del tesoro
della vita: il senso della propria esistenza.
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Anno XVII - 2012 n°1
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Sulla via di Damasco
- nona parte -
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Succede come a un
bambino che costruisce un castello di sabbia in riva al mare:
un’onda avanza e, d’un colpo, distrugge il suo capolavoro. Nella
vita arriva un momento in cui il castello-fortezza delle nostre
sicurezze, quello che ci siamo costruiti con cura nei minimi
particolari, non si sa come comincia a sgretolarsi o, a volte anche
peggio, sopraggiunge improvviso un “terremoto” che lo sconquassa
facendolo inesorabilmente collassare.
È quanto è accaduto
a san Paolo, l’allora Saulo, sulla via di Damasco. Gli Atti degli
Apostoli ci narrano l’episodio per ben tre volte (capitoli 9, 22 e
26), tanto è stato significativo e determinante non soltanto nella
sua stessa vita, ma anche in quella di tutta la Chiesa. La veemenza
con cui l’Apostolo delle Genti lo ha vissuto è paragonabile ad una
violenta caduta da cavallo, ed è per questo che l’immaginario
collettivo ha influenzato in tal senso la fantasia degli artisti. In
realtà, sulla via di Damasco, Paolo stava “cavalcando” tronfio le
sicurezze che gli venivano dall’
osservanza scrupolosa della Legge dei padri
(At 22,3); sicurezze
sulle quali aveva costruito e giocato la sua vita di rigido e
zelante fariseo, integerrimo ed intransigente, accanito persecutore
di tutto ciò che osava intaccare la superiorità e la sacralità della
religione ebraica. Eppure da quelle sicurezze acquisite il Signore
lo scaraventò brutalmente a terra e da quel momento Paolo non fu più
lo stesso di prima.
Il racconto che ne
fa Luca negli Atti degli Apostoli è molto forte e carico di
significato teologico. Sulla via di Damasco troviamo un Paolo che
perseguita a morte la Via di Gesù Cristo (cfr. 22,4), la sua
dottrina e i suoi seguaci. Egli è là, convinto di fare una cosa
giusta e gradita a quel Dio al quale si è interamente votato. Non sa
invece che quel giorno scoprirà un volto di Dio che ancora non
conosceva, quello vero: il volto del suo Figlio Gesù Cristo. Un
incontro che lo porterà alla resa dei conti! Paolo è il paradigma
del chiamato. In quel momento delicato e particolarissimo della sua
storia, nel quale si trova faccia a faccia con un Dio che interpella
la parte più profonda e più vera dell’uomo, egli sa che deve
imparare a riconoscerne la voce, perché essa assume ora un timbro
che esula da qualsiasi categoria umana. È la voce “personale” di
Dio, il Signore Gesù, Parola che si rivela e rivela l’uomo a se
stesso.
Sia nel racconto del
capitolo 22 che in quello del capitolo 26 c’è un’annotazione
temporale pregna di significato teologico: Paolo è “raggiunto” da
Gesù
verso mezzogiorno
(22,6; 26,13). Il
mezzogiorno sta ad indicare il pieno giorno, ovvero la “pienezza del
tempo”, quando tutto dell’uomo è pronto per ricevere la “visita” di
Dio nella propria storia di salvezza. Il Paolo persecutore è pronto
per essere chiamato a diventare l’Apostolo delle Genti. Proprio su
quella Via che perseguitava a morte (cfr. 22,4), d’ora in poi,
muoverà i suoi passi di uomo nuovo… fino alla morte, sulle orme di
Colui che ormai era diventato la sua vita.
L’incontro con Gesù
sulla via di Damasco rende Paolo cieco, o meglio, palesa la realtà
della sua vita, così come era stata fino a quel momento:
un’esistenza trascorsa nella cecità, incapace di riconoscere la
verità di Dio, eppure orgogliosamente illusa di esserne la legittima
detentrice. Viene alla mente il rimprovero di Gesù ai farisei: “Se
foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi
vediamo”, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41). Così è per ciascun
cristiano: nell’incontro con Dio si scopre cieco e sa di doverne
seguire la voce procedendo a tentoni. Ma, come ha fatto
per Paolo,
Dio non ci lascia soli a noi stessi, a brancolare nel buio, ci dà
compagni di viaggio che ci guidano per mano e padri nella fede che
ci aiutano a guarire dalla cecità (cfr. 9,8.12.17-18).
Tenebre-luce,
cadere-alzarsi: sono parole chiavi dell’esperienza del vero incontro
con Dio e della conseguente conversione. È significativo, infatti,
che Paolo rimase cieco per tre giorni, provando sulla sua stessa
pelle la cruda esperienza della “morte” in vista della rinascita a
nuova vita. Lo stesso vale per l’invito perentorio ad alzarsi, sia
in seguito alla caduta sulla via di Damasco, sia nell’atto di
recuperare la vista e ricevere il battesimo. Paolo può davvero
offrire se stesso come modello quando, nelle sue lettere, invita a
far morire l’uomo vecchio e a rivestirsi del nuovo, anzi, a
rivestirsi di Cristo Gesù. Paolo, con la sua sfrenata persecuzione
del cristianesimo, è anche
simbolo di
chi si contrappone a viso aperto alla Verità che gli si vuole
rivelare. La Voce, dal cielo, lo redarguirà:
è duro per te rivoltarti contro il pungolo
(26,14), ed egli
dovrà arrendersi all’“avversario” che gli ha sbarrato la strada.
È illusorio infatti
avanzare pretesti e resistenze all’Amore che chiama: l’uomo rischia
di sfinirsi in una titanica lotta contro se stesso, perché quell’Amore
che lo chiama non fa altro che rivelargli il suo vero volto e la sua
piena identità di uomo profondamente realizzato nell’essere ad Esso
somigliante, particella di una totalità che gli dà compimento.
“Sulla
via di Damasco” è l’itinerario obbligato per il cristiano che voglia
fare un incontro esistenziale e personale con Dio, scevro da
categorie fai-da-te che ne obnubilano una reale conoscenza. “Sulla
via di Damasco” bisogna accettare di scoprirsi ciechi e di cadere a
terra dagli alti piedistalli di un’orgogliosa supponenza che umilia
la dignità dell’uomo creato ad immagine di Dio. “Sulla via di
Damasco” dobbiamo
chiedere:
Chi sei, o
Signore? (9,5) per scoprirci
uomini nuovi, interlocutori e partners di un Dio che, proprio su
quella via, ci aspetta e ci raggiunge.
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Anno XVIII - 2013 n°1
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Continua... |
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